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zambranoChiari del bosco | Maria Zambrano nuova trad. di Carlo Ferrucci
Edizioni SE 2016

di Paolo Risi |

Pubblicato nel 1977, Chiari del bosco rappresenta uno dei più ispirati lavori della filosofa e saggista spagnola María Zambrano, nata a Vélez-Málaga nel 1904. È il risultato di un pensiero formatosi nell’arco di mezzo secolo, dall’iniziale approccio alla filosofia all’Università di Madrid, dove partecipò alle lezioni di José Ortega y Gasset e Xavier Zubiri, agli anni dell’esilio, motivato dall’ascesa al potere di Francisco Franco, che videro Zambrano stabilirsi in diversi paesi europei e del Continente Americano ed entrare in contatto con importanti scrittori e intellettuali (fra gli altri Jean-Paul Sartre in Francia, Elena Croce ed Elémire Zolla in Italia).

L’assenza dalla sua terra di origine si protrasse per quarantacinque anni, durante i quali si dedicò alla speculazione filosofica, all’insegnamento e alla collaborazione con varie riviste. Solo nel 1981, durante la sua permanenza a La Pièce, vicino a Ginevra, ottenne un riconoscimento per la sua opera con la nomina a “Figlia Adottiva” del Principato delle Asturie. Farà ritorno sul suolo spagnolo nel 1984 stabilendosi a Madrid, dove si spense il 6 febbraio del 1991.

Già alla fine degli anni ’30 prendeva corpo l’intuizione che l’autrice chiamò “ragione poetica”, un metodo di pensiero che discostandosi dal razionalismo della chiarezza puramente intellettuale, assimilabile al metodo di Cartesio, promuove un percorso sapienziale ispirato alla poesia e alla mistica.

Tale approccio si distanzia quindi dalla filosofia occidentale, da una presunta oggettività neutra e distaccata, per abbracciare una visione fiduciosa del reale che contempla una rinnovata scelta di vita, “un modo di stare nel mondo ammirati, senza pretendere di ridurlo a niente.

Nell’opera Chiari del bosco, avvicinabile ai testi dei grandi mistici spagnoli, primi fra tutti quelli di Juan de la Cruz, l’apertura verso dimensioni rintracciabili in un “logos sommerso” reclama una presenza narrante che si distanzi da una realtà teorizzata, necessita di frasi che si alimentino da un sapere viscerale, custodito in particolare nel cuore dell’uomo. L’incedere delle pagine rimanda alle caratteristiche proprie della “guida”, un genere di testo – scrive Carlo Ferrucci nella postfazione – passato in Spagna dall’Oriente, che è composto di figure alimentate dalla fantasia piuttosto che da argomentazioni, che è insieme comunicativo ed enigmatico, che suggerisce più di quanto non dica perché vuole che le sue verità rinascano e rivivano il più direttamente possibile nell’interiorità del lettore.

È questo il linguaggio che accompagna un’esplorazione refrattaria al sapere inconfutabile, che sorvola i margini ben custoditi, territori entro cui le metodiche della sopraffazione hanno stabilito regole e coordinate di riferimento. Si tratta di una scrittura ellittica, ispirata, oracolare, che quasi sfida il lettore a interpretare, a farsi coautore. La costruzione del testo, suddiviso in capitoli ognuno dei quali fa chiarezza su un tema distinto, è insieme spezzata e impalpabilmente unitaria, tenuta assieme dalla speciale qualità di luce, o meglio di “mezza luce”, che è presente come tratto distintivo dell’opera.

E così i movimenti più reconditi ed essenziali dell’essere umano – almeno di quello umano – se consumano tempo e suggeriscono uno spazio qualitativo perché sempre di movimenti dell’essere si tratta, si producono in funzione della luce, una luce che giunge a destarlo e che deve essere a sua volta desiderata, una luce alla quale esso deve andare incontro. E per un lieve, facilmente inavvertito istante, l’incontro si verifica; rivelazione, bisognerebbe chiamarlo, per minimamente che lo sia, scintilla accesa della rivelazione alla quale ogni essere nascosto anela”.

Nei chiari del bosco è possibile cogliere appunto un chiarore che si disperde lasciando comunque una traccia. Non si tratta di un’illuminazione costante, esplicativa, ma di una nitidezza che balugina, che si compone via via nel “sapere sperimentale della vita”.

La filosofia di María Zambrano intende attivare l’anelito che custodisce in sé il rigore e la passione, che preserva dal puro esercizio speculativo per giungere alla manifestazione profonda dell’essere. Non propone formule il pensiero della filosofa andalusa, si accontenta di seguire l’uomo nella sua imperfezione, per condividere con lui il fuoco improvviso della conoscenza, che in un attimo si estingue preannunciando un nuovo inizio, per essere ancora una volta viandanti, mettendo in conto l’eventualità di smarrirsi.

Dal chiaro, o dal percorrere la serie di chiari che si vanno ora aprendo ora chiudendo, si riportano alcune parole insieme furtive e indelebili, inafferrabili, che possono per il momento riapparire come un nucleo che chiede di svilupparsi, anche se di poco; di completarsi anzi, è quanto sembrano chiedere e a cui portano. Poche parole, un batter d’ali del senso, un balbettio anche, o una parola che resta sospesa come chiave da decifrare; una sola che era lì custodita e che si è data, essa sola, a chi distratto sopraggiunge. Una parola vera che proprio perché tale non può essere né interamente compresa né dimenticata. Una parola fatta per essere consumata senza logorarsi. E che se parte verso l’alto non si perde di vista, e se fugge verso il confine dell’orizzonte non svanisce né fa naufragio…

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Chiari del bosco | Maria Zambrano nuova trad. di Carlo Ferrucci

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