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Il libro contro la morte | Elias Canetti
Adelphi edizioni 2017

di Paolo Risi

Non basta dire che tutto è morte. Naturalmente tutto è morte. Ma occorre anche dire che – pur senza speranze, a quanto sembra – ci opponiamo con strenuo accanimento all’idea che tutto è morte. La morte deve – senza facili inganni – perdere il suo prestigio. La morte è falsa. È il nostro spirito a trovarla falsa.

L’esigenza di scrivere, di far scorrere la punta delle sue matite sulla carta, per ubbidire a un proprio ideale di completezza, per continuare a esistere, rappresenta il carburante decisivo per intraprendere un percorso ambizioso, la cui fine si dissolve e riappare ciclicamente sotto forma di nuovi slanci creativi.

Canetti inizia a accumulare materiale per un libro contro la morte a partire dal 15 febbraio 1942: “Oggi ho deciso di annotare i miei pensieri contro la morte così come mi vengono, a caso, senza stabilire alcun nesso fra loro e senza asservirli al dominio tirannico di un progetto. Non posso lasciar passare questa guerra senza forgiare nel mio cuore l’arma che sconfiggerà la morte”.

È possibile quindi stabilire un avvio, una data significativa, collocata nel pieno del secondo conflitto mondiale, da cui tutto avrebbe avuto origine, ma è altrettanto plausibile ritenere che il pensiero della morte pervada lo scrittore di origini bulgare da molto più tempo, a partire dall’evento biografico eclatante, vale a dire la morte del padre quando il giovane Elias Canetti aveva soltanto sette anni.

Nella moltitudine di considerazioni e asserzioni (materiale che testimonia circa mezzo secolo di fervore intellettuale) fa capolino, fra i vari rimandi, l’idea di un romanzo, identificato da Canetti con il titolo il “Nemico mortale”, volontà di dare forma compiuta che non andrà oltre alla raccolta di annotazioni e riflessioni sparse. Più in generale, dalle 2.500 pagine manoscritte, che hanno come tema centrale la morte, e che nell’edizione italiana pubblicata da Adelphi de “Il libro contro la morte” assommano a 400, si diffondono estesamente gli impulsi del pensiero canettiano, che andranno a irradiarsi nel ponderoso studio su Massa e potere (pubblicato nel 1960, dopo oltre 35 anni di gestazione), nei testi teatrali e nelle opere di saggistica.

Invettive (tra i bersagli polemici Nietzsche, T.S. Eliot, Hemingway), sentenze fulminee e commenti che svelano il gusto per il grottesco, per la rielaborazione fantastica della realtà, aforismi e fabulae minimae innestate in una dimensione giocosa e dissacrante. Le membra che compongono “Il libro contro la morte” (vivificate da una circolazione linfatica di dati antropologici, sociali e politici), delineano uno stile letterario che è anche stile di vita e necessità espressiva: in esse si riflette l’espressione accigliata e il rigore di Canetti, ma anche la sua vitalità e l’inclinazione a demistificare il dogma nelle sue innumerevoli codificazioni.

Non sono forse come quei mendicanti, anziché « Allah » non grido di continuo « morte », non sono anch’io un santone cieco della ripetizione?

Abbiamo paura solo della ripetizione altrui, nella nostra sappiamo ben sistemarci.

Non è evidentemente rintracciabile nel volume una coerenza che si rifà a un modello consueto: i testi, brevi o brevissimi, a volte condensati nello spazio di una riga, di una manciata di parole, possiedono nondimeno compiutezza, risultano fra loro assimilabili e al contempo autonomi. Assolto il loro compito di sferzare, di stupire o di stimolare una reazione, una “eccitazione improvvisa”, si dispiegano al cospetto del lettore, svelando (scrive Peter von Matt nella postfazione) “un paesaggio sterminato di sapere, arguzia e saggezza, di odio e amore, di collera e malinconia, una messinscena del pensiero e della poesia, che non ammette paragoni”.

La volontà di morte, scrive Canetti nell’opera Massa e potere “si trova davvero ovunque, e non è necessario scavare molto nell’uomo per trarla alla luce”. Questa affermazione delimita uno spazio di indagine pressoché infinito, ambito speculativo che non ammette divagazioni o accomodamenti.

A partire dall’esperienza privata si giunge a screditare il disegno consolatorio, le strutture teoriche (che prevedono o meno l’esistenza di un Dio) finalizzate ad accogliere e ad accettare la morte in quanto traslazione momentanea.

Nessuno di noi può ritenersi estraneo al sentimento di giubilo che prorompe dalla sopravvivenza, dalla caduta definitiva di chi ci sta intorno, sembra volerci dire Canetti, e da questo senso di pace inconfessabile, “da questa spossatezza, da questa inermità, le religioni traggono il loro capitale”, il bene rifugio in grado di garantire in maniera perpetua controllo e ordine sociale.

Per lo scrittore e saggista, premio Nobel per la letteratura nel 1981, lo scrivere contro la morte è consequenziale al proposito di annientare la morte, di stabilirne l’inammissibilità una volta per tutte. Entrano in gioco, nel volume curato per l’edizione italiana da Ada Vigliani, le riflessioni sul potere, finalità ultima e assoluta che contempla l’utilizzo della morte in quanto strumento e che, attraverso i propri apparati, ne teorizza la necessità, la vigoria esplicativa.

Rifiutare la morte, combattere contro di essa, significa, per un uomo che ha attraversato il novecento e le sue tragedie, ribellarsi al suo più implacabile strumento di attuazione e di propaganda.

Dalla Seconda Guerra Mondiale al Vietnam, fino alla prima guerra del Golfo e alla ex Jugoslavia, lo sguardo di Canetti si perde irrimediabilmente nell’oscurità: il pianeta è cosparso di ceneri e, a quanto pare, non c’è modo di estinguere la brace millenaria, il flusso che alimenta il dolore supremo: “Giuro che la mia vita mi è indifferente. Giuro che la vita di coloro che amo mi è indifferente. Giuro che persino la mia opera mi è indifferente. Giuro che sono pronto a scomparire all’istante, senza lasciare traccia e in modo tale che nessuno venga a saperlo, se in compenso non ci saranno più guerre. Sono disposto a un simile negoziato. A quale autorità debbo rivolgermi? Neanche per questo esiste un Dio?”

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