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giorgio ghiottidi Antonia Santopietro

Giorgio lasciami dire che è un vero piacere poter fare questa chiacchierata, per la quale ti ringrazio.

Tu esordisci con il romanzo Dio giocava a pallone e poi segue una raccolta di poesie Estinzione dell’uomo bambino il che ci dice che tu pratichi entrambi i generi, in quale ti senti più a casa?
In entrambi, a dire il vero. La mia prosa è sempre una prosa poetica, così che non c’è una linea netta a dividere la mia scrittura in versi da quella in prosa. Mi capita però spesso di essere invitato a parlare magari del mio ultimo romanzo, e in quel momento sto lavorando a delle poesie; allora faccio uno sforzo enorme di memoria per parlare del romanzo, per dire cose brillanti e pertinenti e mi accorgo di parlare in qualche modo anche di poesia, o di tendere verso. Lo stesso accade quando mi invitano a leggere le poesie, se sto lavorando – come mi è capitato al Festivaletteratura da poco concluso – a materiale in prosa (dei racconti, in questo caso). Ora, in questi mesi, mi sento davvero a casa nel racconto, la forma che amo di più da leggere e da scrivere, senza dubbio.

Quali sono i tuoi riferimenti letterari più forti, in narrativa e in poesia?
Potrei farti molti nomi, mi limito ai più amati: Natalia Ginzburg (e i ragazzi riccioluti che affollano le sue pagine), José Emilio Pacheco (credo che il lungo racconto Le battaglie nel deserto sia tra i libri più belli del Novecento), fino ai contemporanei: Mario Fortunato, Fleur Jaeggy, Chiara Valerio. Per la poesia, Umberto Saba, Sandro Penna, Giorgio Caproni, Vivian Lamarque. Senti come suonano bene, tutti insieme. Cari amati poeti.

Come arriva l’ispirazione? Come nasce una storia o una poesia?
Nasce il più delle volte da un’immagine, o da un’idea singola. Poi intorno a quel nucleo (che appunto di corsa al computer) nascono i dettagli, e l’infittirsi dei dettagli si porta dietro la storia. Però anche le parole si portano dietro le storie. Per questo è importante sceglierle bene; ogni parola se ne porta dietro altre, e la storia va in una direzione piuttosto che in un’altra.

Che tipo di scrittore sei? Di getto? Rileggi e ceselli oppure lasci decantare?
Scrivo di getto, velocemente, lasciando che le immagini se ne portino dietro altre. Poi però rileggo, sistemo, aggiungo. Sempre di più mi accorgo che i racconti più recenti, a differenza dei primi, seguono uno scheletro già in gran parte chiaro nella mia testa. Le opere prime sono solitamente libri “di natura”, d’istinto, pieni di autenticità, se lo scrittore è autentico come dovrebbe essere. I libri successivi si muovono invece tra la natura e la cultura (ma guai perdere la freschezza e l’autenticità – anche la sfacciataggine – degli esordi).

Hai scritto poi un libro molto bello Mesdemoiselles. Le nuove signore della scrittura (Perrone, 2016) in cui dialoghi con donne e scrittrici meravigliose, solo per ricordare qualcuna, senza far torto a nessuna, Ginevra Bompiani, Luisa Adorno, Lidia Ravera, Vivian Lamarque… cosa ti porti dentro del contatto con queste donne immense? Puoi raccontarci qualche aneddoto degli incontri?
Degli incontri con le mie Signore della scrittura porto dentro la grande umanità di tutte, la gentilezza straordinaria di alcune, la sensazione stranissima di trovarmi come dentro un parco-giochi che però, quando finisce il giro di giostra, c’è ancora, e non ha porte d’entrata e d’uscita. Quando sono stato a casa di Vivian Lamarque, lei mi ha mandato un messaggio sul telefono: “La casa la vedi perché al mio palazzo ci sono delle bandiere – non per me ahimé!”. Nella meravigliosa villa di Rosetta Loy, invece, mi hanno sempre scortato i suoi allegri cagnoloni fino all’ingresso. Sono creature uniche, piene di affetto, intelligentissime, proprio non capisco chi non ama i cani. Ne diffido molto. Rosetta Loy vuole loro un gran bene. Di ognuno custodisco un ricordo prezioso e intimo, che non ho condiviso totalmente con i lettori, ed è bene così. Posso dirti della bontà di Ginevra Bompiani, della sua eleganza, di com’è stato strano per me intervistarla, perché è la mia editrice ed ero abituato a vederla nel suo ufficio. Posso dirti di un aperitivo improvvisato con Silvia Bre a parlare di poesia, dei suoi bellissimi guanti al gomito che lasciano le dita scoperte. Quando, come nel caso di Bre, la grazia della poesia corrisponde alla grazia del cuore della persona che l’ha scritta, è una felicità centuplicata e una fortuna immensa.

Mi hai confessato un tuo debole artistico per Vivian Lamarque, grande, immensa poetessa, cosa ti piace in particolare della sua poetica?
Della poesia di Vivian Lamarque mi piace tutto. Sono serio. Mi piace la semplicità, il tono di fiaba, e tutti i lupi che come nelle fiabe stanno in agguato nella notte, mi piace l’idea che sì, va bene la poesia, ma la priorità ce l’hanno le persone care. Mi piace la sua matita ikea con la quale cattura i versi quando le vengono in mente, mi piace da impazzire quella vernice felice che, gratta gratta, nasconde il dolore. Mi piace il fatto che lei sia esattamente come ciò che scrive, che delle partite di calcio le piaccia l’erba verdissima e della Rinascente le vetrine con gli alberi di Natale – passione condivisa.

Tu sei anche molto giovane e questo è un grande merito per aver già dimostrato un così grande amore per la letteratura, cambieresti qualcosa nel come viene insegnata?
La letteratura si dovrebbe imparare sui testi. I testi prima di tutto, ecco. Poi il manuale. Mi piace pensare (e credo fermamente che sia così) che un ragazzo di liceo non ha nulla di meno del critico che ha scritto le pagine di una antologia, se non varie letture in meno. D’altronde, gli autori dei manuali di letteratura hanno scritto pagine e pagine sui romanzi, sulle poesie, sulle molte opere che infittiscono la storia della letteratura perché hanno avuto esperienza diretta dei testi. E siccome i testi sono stati scritti in un contesto storico-culturale diverso dal nostro, è fondamentale il ruolo dell’insegnante in classe. Ma la lettura diretta dei testi resta primaria.

Come sai ZEST promuove il concetto di vivere sostenibile, che idea hai della sostenibilità?
Penso la sostenibilità in una duplice dimensione presente e futura. La intendo prima di tutto come la possibilità di condividere con quelli che verranno i benefici di cui godiamo noi oggi – e già questo è un atto di grande responsabilità. Credo sia per così dire sostenibile ogni attività che abbia come destinazione d’uso le persone, il loro sviluppo umano e culturale. Mi piace pensare che società più umane siano società più sensibili alla cultura, dunque più democratiche, e che società più democratiche siano società più giuste sotto ogni punto di vista.

Quali sono i nuovi lavori ci dai una anticipazione?
A metà novembre uscirà per Bompiani “Via degli Angeli”, ho scritto con Angela Bubba (autrice di MaliNati, Bompiani, recensito da ZEST qui) , un itinerario tra i quartieri romani di scrittori e poeti attraverso la voce di persone comuni che dei nostri massimi scrittori e poeti vedevano l’umanità di tutti i giorni.


Nota Biografica

Giorgio Ghiotti è nato nel 1994 a Roma, dove studia Lettere presso l’Università “La Sapienza”. Ha esordito nella narrativa con la raccolta Dio giocava a pallone (nottetempo, 2013) e nella poesia con Estinzione dell’uomo bambino (Perrone, 2015). Ha inoltre pubblicato una raccolta di interviste a grandi scrittrici e poetesse italiane in Mesdemoiselles. Le nuove signore della scrittura (Perrone, 2016). Collabora con Nuovi Argomenti, Nazione Indiana, Orlando Esplorazioni. Scrive sulle pagine culturali dell’Unità.

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Intervista a Giorgio Ghiotti

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