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Saggio a cura di Dario Pontuale

(intervento letto alla Conferenza Internazionale “Mary Shelley’s Frankenstein” organizzata per il bicentenario dall’Università Ca’ Foscari di Venezia, 21-22 febbraio 2108)


Le invisibili cicatrici di Frankenstein1

La mia storia è troppo coerente per essere un sogno.
Che motivi avrei per dire il falso?

Sono trascorsi due secoli dalla pubblicazione del “mostro” partorito da Mary Shelley ed è noto quali dimensioni mitologiche abbia assunto Frankenstein nella cultura collettiva contemporanea. È altrettanto risaputo, però, come la medesima cultura collettiva possa, specialmente nel corso dei decenni, accumulare piccole inesattezze o eccessi di fantasia. Bonariamente le si potrebbero definire “personali interpretazioni”, oppure “vulgate congetturali”, o magari “cognizioni popolari” le quali, sebbene innocenti, si discostano non poco dal vero.

Molti credono, infatti, che il personaggio di Frankenstein corrisponda al nome del Mostro e non del dottor Victor, mentre pochi sono al corrente che l’ideatrice dell’abominevole creatura letteraria è una delicata pulzella inglese d’inizio Ottocento. Può capitare, perciò, di conservare involontariamente un’idea assai approssimativa del romanzo, della trama o dei personaggi, spesso influenzati dalla visione sviante del mondo della celluloide. Il capolavoro in bianco e nero del 1931 di James Whale2, o la più recente regia di Kenneth Branagh3 datata 1994, rappresentano entrambi validi esempi di depistaggio ed è pertanto facile immaginare la mastodontica creatura con i chiodi conficcati nel collo, le braccia tese in avanti, le lunghe gambe rigide e la fronte segnata dalle cicatrici. Visioni senz’altro sbadate da rettificare obbligatoriamente, ma sui presunti segni di sutura, visto il bicentenario della ricorrenza, è consentita magari un’eccezione o, addirittura, un’ipotesi interpretativa.

Cicatrici sul volto del Mostro non sembrano esserci, o almeno non appaiono così significative, ma di certo abbondano sull’anima dei personaggi che si muovono tra l’acre odore dei laboratori e le fredde nevi del Polo. Squarci interiori che segnano l’ossessionata esistenza di Victor Frankenstein, la penosa emarginazione del mastodontico Mostro, la sfortunata biografia di Mary Shelley. Nessuno si salva o resta escluso da questa inevitabile punizione, nella vita quanto nel romanzo. Ognuno tenta di convivere con le tracce di un dolore, provando a trasformare la linea di tessuto rammendato e scolorito in una resistenza alla vita. Vita dalla quale Victor, il Mostro ed essenzialmente Mary, rimangono contagiati tanto quanto dall’agghiacciante sequenza di morte che li accompagna, in una successione di eventi che si abbattono sulle loro tribolate esistenze. La stessa nascita della scrittrice londinese coincide con un decesso, quello della madre, la pensatrice illuminata Mary Wollstonecraft4, scomparsa prematuramente per le complicazioni del parto. Una morte crudele che spalanca nella Shelley un vuoto incolmabile, altresì un indefesso modello intellettuale. Alla dolorosa perdita materna, qualche anno più tardi,segue il suicidio della sorellastra Fanny Imlay, ma soprattutto la morte della neonata figlioletta. Una sciagura che strazia intimamente lo spirito della scrittrice la quale, appena diciottenne, si trova già a convivere con i lutti più funesti dell’esistenza. Tanta nostalgica solitudine, incertezza dell’anima, angoscia dello spirito si condensano, allora, nella scrittura di un romanzo immortale, in una gotica narrazione nella quale ogni cicatrice scandisce le tappe di un funereo percorso.

Ritratto di Mary Shelley (particolare) di Richard Rothwell (1840) – fonte wikipedia

Dolori, dubbi e vuoti riversati dalla Shelley nelle iniziali parole del giovane capitano Robert Walton, esploratore incagliato nei ghiacci che, in una lettera indirizzata alla sorella Margaret, ammette: «C’è qualcosa nel mio animo che non riesco a conoscere»5. Un oscuro affanno agita il suo cuore di viaggiatore, la sfida alle sovrumane forze lo seduce e l’intimorisce al contempo. Una provocazione alle leggi della natura gonfia di inquietudine, la stessa nutrita dall’intirizzito Frankenstein il quale, non appena messo piede a bordo, si affretta a raccontare la propria triste vicenda, l’incubo che lo perseguita, la caccia all’uomo intrapresa6. Si sofferma sul simbolico episodio della quercia incenerita, la lingua di fuoco che squarcia l’albero e lo conduce alla conoscenza del galvanismo, l’evento che cancella in lui vecchie teorie e gliene svela di tragicamente nuove. Un momento epifanico, un passaggio determinante non soltanto scientifico, non solamente letterario, dopo il quale Victor pretende di rianimare l’inanimato. Una decisione azzardata, eppure inevitabile perché: «Così è il cuore degli uomini, e sono questi fili sottili che ci legano alla felicità o alla rovina»7. Un fulmine scende improvvisamente dal cielo portando mutamenti irreversibili, dunque, una scarica elettrica piomba sulla terra e scalfisce la materia, al pari della morte che piomba sulla vita per demolirla. Ed è proprio lo spettro della morte ad attanagliare e incupire i ricordi sia della Shelley, sia di Frankenstein che rammentando il vuoto lasciato dalla scomparsa della madre rimarca: «Non ho bisogno di descrivere i sentimenti di coloro che vedono recisi dal più irreparabile dei mali i loro legami più cari, il vuoto che si forma nell’animo, la disperazione che si fissa sul volto. Occorre molto tempo prima che la mente si persuada che colei che vedevamo ogni giorno e la cui esistenza ci sembrava parte della nostra, è scomparsa per sempre, che lo sguardo di quegli occhi amati si è spento e il suono dolce e familiare di quella voce tacerà ormai definitivamente. Sono queste le riflessioni dei primi giorni, ma quando il trascorrere del tempo dimostra tutta la realtà della perdita, solo allora comincia il vero, amarissimo, dolore».8 Facile cominciare a intravedere le analogie tra Mary e Victor, il vuoto sentimentale, affettivo, esistenziale che li accerchia, le ferite del lutto, il pianto delle anime, gli irrisolvibili interrogativi sull’esistenza: «Da dove, mi chiedevo spesso, deriva il principio della vita? Era un interrogativo ben arduo, uno di quelli che sono sempre stati considerati senza risposta»9. Lo sconcerto di fronte all’imponderabilità della vita e il vuoto che la riempie proseguono perciò, scivolano in un enigma irrisolto nel quale si evince tutta la limitatezza umana. Si cerca di trovare delle risposte superando l’invalicabile, scrutando i cicli dell’esistenza, studiandone i dettagli per anticiparne i fenomeni, deviarne il flusso: «Vidi come l’uomo si guasta e si degrada. Vidi come la decomposizione della morte succede al fiorire della vita, di come il verme eredita lo splendore degli occhi e del cervello. Mi soffermai e analizzai nei più minuti dettagli la legge della causalità che presiede al passaggio dalla vita alla morte e dalla morte alla vita».10

Una demarcazione razionalmente inesplicabile, ma per la quale si decide di infrangere il vietato pur di calmare la smania, curare la fragilità, sedare i dubbi esistenziali11 che affollano la mente:«Perché l’uomo ha una sensibilità superiore a quella dei bruti? Ciò lo rende solo più schiavo dei bisogni. Se i nostri impulsi si limitassero alla fame, alla sete e alla voluttà, potremmo quasi sentirci liberi, ma siamo mossi da ogni sospiro di vento»12. Nel romanzo la smodata curiosità del nuovo Prometeo prende il sopravvento ed aspira all’onnipotenza, palesando errori di calcolo squisitamente umani, però, peccati mortali nel senso più stretto del termine13. Creando la vita Victor pensa di sconfiggere la morte, varcando i limiti pensa di colmare certe inquietudini, certi vuoti, incosciente di commettere un oltraggio imperdonabile. La mostruosa creatura messa al mondo, seppur riesumata e con gli arti ricuciti, appena nata non asseconda istinti malvagi14, anzi è docile, placida, ma comincia a nutrirne quando conosce l’abbandono: «Nessun padre aveva vegliato sui miei giorni, nessuna madre mi aveva fatto grazia dei suoi sorrisi e delle sue certezze, o, se l’aveva fatto, tutto il mio passato era ora una macchia scura, un vuoto cieco nel quale non distinguevo nulla»15. L’abbandono, tuttavia, non è ancora sufficiente per innescare rabbie omicide, ma nel momento in cui il Mostro viene scacciato dalla famiglia e comprende d’essere destinato al vuoto e alla solitudine, l’odio straborda16 senza limitazioni: «Dovunque vedo beatitudine, io ne sono irrevocabilmente escluso. Ero buono e benevolo l’infelicità ha fatto di me un demonio17 […] Mi vendicherò dei torti subiti, se non posso suscitare amore, ispirerò terrore. Io sono crudele perché sono infelice»18. La creatura pretende una compagna per scacciare tanta misera emarginazione, chiede un risarcimento da chi l’ha messo al mondo, ma la richiesta di aiuto viene delusa. La furia esplode cieca19, l’esperimento di laboratorio diventa un implacabile vendicatore che uccide il piccolo William, architetta la condanna dell’incolpevole Justine, giustizia il fedele Clerval, soffoca la gentile Elizabeth, frantuma il vecchio cuore del padre di Frankenstein. Il Mostro infligge al suo creatore le medesime ferite subite, gli identici dolori patiti e lo condanna a sua volta alla solitudine, all’infelicità20.

Il finale del romanzo è celeberrimo, lo racconta ancora l’attonito Walton, preoccupato nel riferire la glaciale e disperata efferatezza alla quale assiste impotente. Sui candidi ghiacci artici si palesano i devastanti effetti di un inseguimento tragico tra due personaggi deturpati dal dolore. La sete di vendetta non si esaurisce, ne genera dell’altra ancora più acre, l’inseguito diventa inseguitore, la morte rincorre la morte per cercare la vita. Il Mostro, Frankenstein e la Shelley, non aspirano alla salvezza, bensì alla pace, un altro modo per sfidare le regole del cosmo, probabilmente, ma pure l’unico per sopravvivergli. I due acerrimi rivali, infatti, tentano di sedare il loro squilibrio interiore, ma innanzitutto intendono vendicare le cicatrici ricevute in dote dal vuoto perché: «È il desiderio di vendetta che mi dà la vita: non posso morire lasciando che il mio avversario viva»21.Lo scontro finale, dunque, diventa un inevitabile crocevia di annullamento all’interno di un’opera ideata nella piovosa villa Diodati, quando la Shelley ascolta l’inconscio e sogna un’orrida figura prendere vita. La Shelley partorisce la sua creatura letteraria, dunque, ascoltando il proprio inconscio, cioè l’attività psichica che sfiora la soglia della coscienza e molto influenza la scrittura. Mentre completa la stesura dell’opera, la giovane donna ritrova la maternità; il piacere di girovagare per l’Europa, ma rimane una serenità sfuggente, poiché negli anni successivi tanto i vuoti, quanto le solitudini, schiudono altri abissi di sofferenza. Muoiono prima i suoi due figli Clara e William, poi Mary stessa si salva dalle conseguenze di un aborto, infine l’amato Percy affoga nelle tempestose acque di Lerici. Se non fosse per la nascita del piccolo Percy Florence, ultimo ricordo dell’amato compagno, l’esistenza dell’appena venticinquenne Shelley sembrerebbe un lugubre assemblaggio di morti. Solitudini che la Shelley nel 1818 ancora non può conoscere, ovviamente, eppure riporta sulla pagina frasi dall’aspetto divinatorio:«Niente è così doloroso per la mente umana come un mutamento drastico, immediato. Un demone aveva sradicato ogni speranza di felicità futura. Nessuno ha mai sofferto tanto»22.

Illustrazione dalla copertina interna dell’edizione di Frankenstein del 1831 – fonte wikipedia

Nell’introduzione redatta per l’edizione del 1831, invece, è più matura, il dolore la perseguita e il tono concede languidi ricordi, conferma la presenza delle assenze, di irrecuperabili momenti trascorsi: «E ora, una volta di più, licenzio la mia mostruosa progenie perché segua la sua strada e prosperi. Nutro affetto particolare per essa, nata nei giorni felici della mia primavera, quando morte e dolore non erano per me che parole, suoni pieni di echi interiori». Le parole “morte” insieme a“dolore”, non sono altro che «suoni pieni di echi interiori»23lo asserisce lei stessa e l’eco, per definizione, si espande nel regno del vuoto, in spazi dove restano, al massimo, flebili tracce. Per confermarlo basta leggere poche righe più avanti quando, rievocando i tempi della stesura del libro, aggiunge compassionevolmente: «Le sue molte pagine mi parlano di numerose passeggiate, gite in carrozza, conversazioni appartenenti a un tempo in cui non ero sola e il mio compagno non era qualcuno che non incontrerò più su questa terra. Ma ciò ha un significato solo per me, tali associazioni non concernono affatto i lettori»24.

La Shelley parla di una vita portata luttuosamente dentro, ormai isolata da momenti svaniti, colma di vuoti trasformatisi in solitudini e solitudini tramutatesi inesorabilmente in cicatrici perenni, impietose, invisibili. Cicatrici esteriormente non evidenti, ma che sull’anima della scrittrice, come anche del dottore e del mostro, sono stigmate nitide e portate con la commovente convinzione che: «La sofferenza riesce a cancellare anche le più elementari vestigia d’umanità»25. Tre figure rese interiormente irriconoscibili dai punti di sutura, ma non quelli ricordati dalla cultura collettiva o dal cinema, bensì dagli sfregi inferti dalla morte lunghi come croci sulle bare, la stessa morte che annienta la vita tanto quanto il fulmine incenerisce la quercia. L’immortalità dell’opera, che la rende un Classico tra i Classici, nasce dalla mesta e divinatoria suggestione della Shelley, dallo sconsolato genio di chi, nascostamente, tra i capitoli inserisce una frase prossima all’epitaffio: «A che serve chiedere perdono? Io ti ho irreparabilmente distrutto, distruggendo i tuoi cari!»26. Parla il Mostro, la morte o l’inconscio? Non è facile dirlo, eppure risuona ancora forte e assoluto nonostante i duecento anni.


1 M. W. G. Shelley, Frankenstein, traduzione di M.P. Saci e F. Troncarelli, introduzione di M.P. Saci, Garzanti, Milano, 2015,
2Frankenstein , film del 1931 diretto da James Whale di genere horror adattamento teatrale del 1927 Frankenstein: an Adventure in the Macabre di Peggy Webling, prodotto dagli Universal Studios.
3Frankenstein di Mary Shelley, film del 1994 diretto da Kenneth Branagh e interpretato da Robert De Niro.
4Mary Wollstonecraft: (1759 – 1797) Autrice del celebre manifesto Rivendicazione dei diritti della donna, opera che influenzerà i movimenti femministi a venire, oltre a sostenere la parità dei diritti della donna, fra quello al voto.
5 M. W. G. Shelley, Frankenstein, Garzanti, Milano, 2015,pag. 20.
6 Tale affermazione può essere avvalorata dall’affermazione di Frankenstein rivolta a Walton: «Infelice! La mia pazzia è anche la vostra? Anche voi avete bevuto la pozione tossica? Ascoltate, lasciate che vi narri la mia storia e allontanerete subito la coppa dalle labbra». Ibid pag. 27.
7Ibid pag. 31.
8M. W. G. Shelley, Frankenstein, Garzanti, Milano, 2015, pag. 44
9Ibid pag. 52.
10Ibid pag. 53
11 Si ripensi alla frase: «Duranteuna di queste crisi mi allontanai improvvisamente da casa, e dirigendomi verso le valli alpine, ricercai nella maestà e nell’eternità di quei paesaggi, di dimenticare me stesso e i miei effimeri dolori di uomo». Ibid pag. 95.
12Ibid pag. 99.
13Le considerazioni di Victor possono confermare: «L’orrido e il sublime in natura hanno sempre avuto l’effetto di dare il senso dell’eternità alla mia mente e di farmi dimenticare le cure passeggere della vita». Ibid pag 99.
14 Esplicitato in: «Io non voglio lottare con te, sono la tua creatura e sarò dolce e mansueto con il mio naturale padre, se anche tu farai la tua parte, com’è tuo dovere». Ibid pag. 102.
15Ibid pag. 124.
16 Esaustiva la dichiarazione del Mostro: «Le mie colpe sono figlie di questa forzata solitudine che odio, le mie virtù nasceranno inevitabilmente quando vivrò in comunione con un mio simile». Ibid 119.
17M. W. G. Shelley, Frankenstein, Garzanti, Milano, 2015, pag. 102.
18Ibid pag. 147.
19A ribadire il concetto: «Mi vendicherò dei torti subito, se non posso suscitare amore, ispirerò terrore». Ibid pag. 126.
20«Sono una creatura infelice e sola, mi guardo attorno e non vedo né un amico né un parente si tutta la terra. Io sono pieno di paure perché se fallisco ora sarò per sempre un estraneo nel mondo». Ibid 136.
21Ibid pag. 201.
22M. W. G. Shelley, Frankenstein, Garzanti, Milano, 2015, pag. 197.
23Ibid pag. 8

24Ibid pag. 8
25Ibid pag. 165.
26Ibid pag. 218.

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