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Fonte Foto www.lellovoce.it

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Intervista di Alessandro Canzian a Lello Voce


Come definiresti la Poesia? A cosa serve?

La poesia non è nata come un’arte, era un medium, il primo medium conosciuto dall’uomo per la trasmissione dell’informazione non genetica. Insomma della cultura.
La poesia è prima di tutto un meccanismo di memorizzazione basato sul ritmo, sulla sonorità, sull’esecuzione. Poi si è trasformata in quella che chiamiamo un’arte.

Inoltre è l’unica arte che nel tempo abbia cambiato il suo medium di trasmissione e ricezione: dal suono e dall’orecchio all’occhio e ai segni. E mi continua a sembrare stupefacente che di questo quasi nessuno parli e che su questo nessuno rifletta.
Si è fatta ‘letteratura’, da non più di qualche centinaio d’anni, ma in realtà con la letteratura, anche quando si presenta sotto forma di libro, ha poco a che fare.

Come vedi si tratta di un oggetto (di un atto) piuttosto complesso. Oggi più che mai: la poesia è questo ircocervo sempre mutevole e mutante di segni e suoni.
Il silenzio cui è stata costretta per questi ultimi secoli, come qualsiasi contrainte in qualsiasi arte, ha stimolato e raffinato tutti i suoi meccanismi e le sue ‘dinamiche e attualmente essa si presenta come l’arte più ricca di complessità e stimoli. Un’arte dove possono convivere Celan e Hopkins o Dylan Thomas, Frost, Zanzotto, o Fortini e Linton Kwesi Johnson o John Giorno!

E poiché, come sostiene Hagège, noi uomini siamo letteralmente «fatti di parole», la poesia ha a che fare con le nostre radici, con le nostre ‘pieghe’, più profonde.
Noi siamo, parlando… e la poesia è l’arte che parla per eccellenza. La poesia dice, si dice e ci dice ciò che siamo, per questo le poesie più importanti non sono quelle belle, ma quelle ‘necessarie’. E quelle necessarie raramente hanno a che fare con la ‘letteratura’.

Non credo che la poesia serva a qualcosa di preciso, insomma, credo piuttosto che essa sia assolutamente necessaria, in barba alla cattiva stampa che la circonda.
Intanto perché, nonostante lo sforzo di tanti ottimi poeti e eroici editori, la sua capacità di mantenere un valore d’uso superiore al suo valore di scambio ne fa una merce assai particolare, più ‘pensante’ di altre e assolutamente poco vendibile, almeno nella sua versione ‘cartacea’. Poi per tante altre ragioni: per esempio perché in quest’epoca in cui ogni ruolo intellettuale è ormai liquefatto e frammentato, fulmineo e perituro nelle tempistiche del protozoo, le parole della poesia hanno di nuovo la possibilità di reinventare il linguaggio, di esplorare l’immaginario del linguaggio.

Abbiamo bisogno di parole nuove per nuovi sogni, il poeta è quello che tiene in allenamento il linguaggio, come diceva Elio Pagliarani, dunque, paradossalmente, proprio oggi può tornare a essere di qualche utilità.
Ogni perla nasce da un granello di sabbia, suona retorico, ma è così.
Non credo all’autonomia dell’arte, né alla sua eteronomia, più semplicemente mi pare che viviamo immersi in un brodo (sempre più indistinto) di sensazioni ed esperienze senza esperienza, in un mondo che, più invecchia, più diventa giovane, ferdydurkianamente ‘culculizzato’, un mondo di neonati.
Ecco allora, neonato tra neonati, che a me viene istintivo provare a mettere ordine anche ‘nominando’ quella cosa che chiamiamo realtà.

Dare nomi alle cose non è solo stilare un elenco, o il divertimento creativo di inventare suoni e segni nuovi: è il tentativo di istituire relazioni, reti’, insomma di comprendere per poter mutare. E in questo processo sono decisivi tanto la memoria (fin ‘genetica’) quanto la capacità di immaginare un futuro e dunque di dialogare davvero, compiutamente, con la morte.

Aveva ragione Raimbaut, maestro provenzale del trobar ric, quando definiva la poesia il ‘fiore inverso’, quello che sboccia con le radici protese verso il cielo.
Non è questione, oggi, di tradizione o avanguardia, è che è arrivato il tempo di comprendere come, per rispettare davvero una tradizione, bisogna avere il coraggio non solo di tramandarla, ma di tradirla e renderla mutante.


Come definiresti invece la TUA Poesia?
La mia poesia, quella tento di ‘comporre’ io, la definirei ‘autoanalfabeta’: sta provando a fare i conti con il futuro, un futuro in cui sarà decisiva l’oralità assai più della scrittura, un futuro in qualche modo senza ‘alfabeto’, analfabeta, ma estremamente complesso, ambiguo e sfuggente… dagli autodidatti agli autoanalfabeti, insomma. Io ho da sempre nostalgia del futuro…

Quella che faccio io è una poesia che tenta il dialogo tra l’oralità contemporanea e tutta la complessità letteraria degli ultimi secoli. È una poesia che guarda a Hopkins, a Dylan Thomas, a Haroldo De Campos e Horacio Ferrer, a Jahier e a Pagliarani e Villa. Questi sono i ‘maestri’, oltre a Raimbaut, ovviamente.
Fare poesia orale, oggi, dopo secoli di scrittura è un lavoro estremamente complesso e una scommessa a volte azzardata: bisogna tentare di conciliare la complessità della poesia ‘scritta’ con l’avvenire ‘istantaneo’ dell’oralità, per poi, nel mio caso, ‘temperarlo con la musica.

Letteralmente: tradurre, trasportare in musica quei ritmi e quelle melodie che il linguaggio e la poesia hanno già in sé. Se tieni presente il fatto che in generale la poesia orale porta in sé un livello di complessità (non solo esecutiva) molto superiore a quella scritta, può esserti chiaro il ginepraio in cui mi ficco ogni volta che inizio a ‘comporre’ un nuovo libro disco.
Io lo faccio collaborando da anni con Frank Nemola: è lui l’unico capace di tradurre, di rendere ‘analfabeta’ e musicale la mia poesia. La sua musica non ‘accompagna’ le mie parole, rende sonoro un aspetto del linguaggio che va oltre le parole, che che è basilare nella produzione del senso, che attiene al ritmo, alla dinamica ‘sintattica’, all’alternarsi di parole (suoni) e silenzi.

Dopo questa prima fase di lavoro, quando anche la musica è stata composta, chiediamo l’aiuto di altri amici: da Paolo Fresu a rapper come Kento, musicisti classici e jazz (Antonello Salis, Maria Pia De Vito, Luca Sanzò, Eva Sola) e sperimentatori di confine, come Canio Loguercio, Michael Gross o Luigi Cinque.
Da questo punto di vista Lello Voce è un autore collettivo.
È un grande rischio, certo, ma – come sostiene Augusto De Campos – la poesia è rischio, o non è.


Che consigli daresti oggi al poeta esordiente ma anche al poeta che lavora già da qualche anno?

Non do mai consigli agli altri poeti, vecchi o giovani che siano, mi sembrerebbe un modo di renderli simili a me. Ma a me interessa la diversità, anche in poesia. Anche con chi come me fa ‘poesia orale’ e ancor di più sono curioso delle opere nate per essere lette soltanto in silenzio. Dunque nessun consiglio, piuttosto l’augurio di essere sempre capaci di cogliere le vibrazioni del reale, di saper scavare sino alle sue radici più profonde, senza finzioni, né maschere linguistiche e di non abdicare mai a quello che il grande Arnaut, il miglior fabbro del parlar materno, definiva: lo ferm voler qu’el cor m’intra.

Ar resplan la flors enversa
(Raimbaut D’Aurenga)

È dal riflesso che nasce la luce dalla vena il sangue dalla pulsazione
ogni cuore dall’inverso che crea ciò che non è generato il mai nato
tutto ciò che ogni giorno è rinviato l’ultimo fiato e ciò che ormai
è stato consumato
ricorda di non
ricordare ma lascia che la memoria si faccia maschera àltera i fatti nega ogni cosa ci
penserà la morte
la pioggia del disdegno non cade ormai da troppo da troppo non soffia
il vento dello scontento da troppo questa nave è prigioniera ferma della
bonaccia troppo mi schiaccia questo girotondo da troppo sfondo questa
fine del mondo
abbi cura di non
proteggere di non sperare di non sognare abbi cura di dissolverti di negarti di disconoscerti
di smentirti
una melodia che s’è arresa mentre si volta e molla la presa una serie
casuale di fatti trasformati in un destino l’elenco degli scacchi il cavallo
e l’ipocrisia dell’avallo un calzino il sapone e la corda che è scorsa ficcàti
nella stessa borsa
controlla la macchina fa’
che ogni ingranaggio s’ingrippi a suo agio smonta le ragioni getta via le azioni conserva soltanto
le intenzioni
il fondo d’ogni buco il tetto d’ogni cielo i mignoli le ciglia le unghie i cingoli
tutti i fili che non fanno un tessuto i bottoni gli aghi e le parole del muto
il freddo e la canna il proiettile e l’ogiva il vento veloce e l’ultimo sguardo
nell’eco della voce
vai fuori tempo da’
ad ogni suono l’altezza che lo spegne sciogli ogni ritmo cogli quel fiore
che dura ormai da troppe ore
di me sospetta diffida ricorda quant’è infìda la voglia come facilmente
su ogni ramo secchi la foglia come ogni amore non sia che specchio
come è vecchio in un istante il desiderio scrivimi quel verso che è
lo schianto e il rompersi del canto

da Il fiore inverso (Squilibri Editore 2016)

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Intervista a Lello Voce | Sulla Poesia

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