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Visioni del futuro
Appunti di letteratura, immaginario, architettura

di Maurizio Corrado

Qual è il rapporto fra letteratura e architettura? Entrambe raccontano, interpretano e cercano di modificare il mondo in cui sono immerse. Ma quale immaginario ha nutrito l’architettura e la città condizionando le nostre vite?

Appena ho avuto occasione di riflettere sul rapporto fra architettura e letteratura mi sono accorto di come esistano molti lavori che prendono in esame l’architettura dal punto di vista della letteratura e molti meno che sviluppano il punto di vista opposto, quello della letteratura dal punto di vista dell’architettura. Forse c’è una ragione semplice, sono i letterati a scrivere, gli architetti lo fanno meno, ma la cosa che mi interessava era indagare su qual è stata la letteratura che ha veramente e concretamente influenzato gli architetti.

Di quale immaginario si nutrono i progettisti?

Da questo punto di vista, mano a mano che proseguivo la ricerca, ha preso forma un dato di fatto inequivocabile. L’abitudine a pensare al futuro avvicina il lavoro del progettista all’esperienza del visionario, anzi si può dire che ne è una variante. Il visionario puro non si preoccupa della realizzazione della propria visione, per il progettista invece si tratta del punto di arrivo, ma la partenza, la visione, li accomuna. Forse per questo la letteratura che da sempre accompagna gli architetti, quella che trova fra loro maggior fortuna, è certamente quella dei visionari. Le città immaginate, gli oggetti fantastici sono una fonte inestimabile per chi il futuro lo deve costruire davvero e dalle visioni utopiche del Quattrocento a Verne, Wells, Huxley, Orwell e tutta la fantascienza, hanno da sempre costituito una riserva potenziale di idee.

La città ideale, fine ‘400

È della fine del Quattrocento un famoso dipinto che viene chiamato La città ideale, di autore sconosciuto ma attribuito anche a Piero della Francesca, e che ben rappresenta da una parte la allora recente scoperta della prospettiva in pittura e dall’altra l’aspetto che si immaginava per le città ideali: armonia, perfezione, simmetria regnano sovrani. La cosa che si può notare e, letta alla luce degli sviluppi dell’architettura Moderna, diventa rivelatrice, è l’assenza dell’uomo. L’uomo in questa perfezione non c’è, come non ci sarà nelle visioni ideali dell’architettura moderna del Novecento, che, come quella, si rifaceva alle idee di Platone. Nella cultura di quel periodo gli intellettuali, quelli che creavano l’immaginario della città ideale, si chiamavano Leon Battista Alberti, Francesco di Giorgio Martini, Filarete, e tutti erano profondamente ossequiosi verso Vitruvio e Platone. Soprattutto in Italia c’era un proliferare di cittadelle progettate per essere ideali come Castiglione Olona vicino a Varese, terminata nel 1435, Urbino, Pienza vicino a Siena, Ferrara nel 1492, Vigevano nel 1493, a cui seguirono tra le altre Acaya nel Salento nel 1535, Sabbioneta nel 1554, Terra del Sole, costruita vicino a Forlì a fine Cinquecento da Cosimo I de Medici, e Pamanova, forse la più nota e conservata meglio, nel 1593.

Abraham Ortelius, Mappa dell’isola di Utopia, 1595 circa

Nel 1516 esce il romanzo di Thomas More che viene comunemente chiamato Utopia. Thomas More è un umanista inglese e il suo lavoro è l’espressione di quella tensione verso la città ideale che ha animato tutto il secolo che si era appena concluso. Il grande merito di More è quello di aver trovato la parola giusta per definire ciò che da tempo girava in quelle menti rinascimentali, ponendo le basi per un fecondo sviluppo di una zona dell’immaginario che da allora non si è mai spenta e che continua a produrre effetti. Di fatto, al di là dell’opera in sé, dove si descrive un’isola dove tutti lavorano sei ore al giorno e denaro e proprietà privata non esistono, è l’idea del luogo ideale a radicarsi per bene nel nascente mondo moderno occidentale. Certamente non si può fare a meno di considerare Platone come un precursore con la sua descrizione della Repubblica, ma l’isola di More si inserisce anche in quella tradizione di letteratura di viaggi per mare che aveva avuto nel resoconto di San Brandano una delle punte di riferimento per tutto il Medioevo.

L’isola di San Brandano veniva volentieri identificata con il Paradiso, così nei territori dell’immaginario medioevale isola, paradiso e città ideale arrivano a fondersi indissolubilmente trasferendo a Utopia le meraviglie mistiche del luogo ideale della mitologia cristiana. L’immaginario dell’isola di Utopia si unisce a quello del Paradiso, tanto più che per tutto il Medioevo era opinione comune che il paradiso si trovasse effettivamente in terra, verso Oriente, oltre le terre di Gog e Magog, quindi l’idea di un’isola paradisiaca in terra era perfettamente plausibile. Nel 1602 il domenicano Tommaso Campanella scrive in fiorentino volgare La Città del sole, poi tradotta in latino nel 1623. La Città del sole sorge su di un colle inespugnabile, è di forma circolare e difesa da un muro enorme che si restringe a spirale in prossimità del tempio centrale e che forma sette gironi, ha quattro porte situate in corrispondenza dei punti cardinali, al centro c’è il Tempio del Sole, a pianta circolare. Una delle sue caratteristiche è che chi la abita pratica la comunione dei beni e delle donne. A leggere e a vedere le raffigurazioni schematiche di queste città ideali, non può non venire alla mente anche la costruzione geometrica su cui si sviluppa la divina commedia di Dante.

Mandala tibetano

Salta agli occhi l’analogia coi Mandala orientali, simbolo e rappresentazione del centro sia dell’uomo che del cosmo, e possiamo certamente avvicinare questo genere di schemi a quelli che proponeva Giordano Bruno, anche lui vissuto nella seconda metà del Cinquecento, quando voleva illustrare la sua arte della memoria. Nel bellissimo libro di Frances Yates, L’arte della memoria, la studiosa ripercorre i metodi adottati in occidente per ricordare, partendo dai manuali di retorica latini. Probabilmente è grazie allo sviluppo della retorica che da allora memoria e architettura si intrecciano indissolubilmente. La memoria è vista come un grande edificio, ogni stanza contiene una parte di ricordi, per evocarli non resta che percorrere l’architettura. Nel corso del tempo questa struttura mnemonico-architettonica si modifica, s’impreziosisce, c’è chi usa mettere lettere davanti alle porte, chi preferisce evocare il contenuto delle stanze con statue e immagini, quello che importa è che possiamo vedere letteratura e architettura legate fra loro a un livello diverso, sotterraneo, come avessero una radice comune nella memoria.

Claude-Nicolas Ledoux, architettura, fine ‘700

Nel secolo dei lumi mi piace ricordare Étienne-Louis Boullée e soprattutto Claude-Nicolas Ledoux, per la capacità visionaria e simbolica. I semi gettati dai due Tommaso, More e Campanella, trovano terreno fertile nella seconda metà dell’Ottocento, dove le necessità del nascente sistema industriale sta trasformando in maniera irreversibile e nuova le città. C’è bisogno di idee forti e una generazione di nuovi utopisti si ricongiunge a quegli antichi testi per sviluppare una nuova idea di città, dando l’avvio al movimento delle città giardino, tra loro ci sono Robert Owen, Claude Henri de Saint-Simon e Charles Fourier. Nel 1971 Italo Calvino cura per Einaudi una bella edizione della Teoria dei quattro movimenti, il nuovo mondo amoroso e altri scritti di Fourier.

Charles Fourier, Falansterio, primi ‘800

La scelta di Calvino privilegia il Fourier visionario, troviamo l’invenzione di una società nuova nei minimi dettagli dove le sue scandalose teorie sessuali danno vita a spazi e luoghi che i suoi discepoli avevano tentato di mettere in pratica. La cosa che più influenza l’immaginazione degli architetti è certamente l’idea di Falansterio, una struttura che comprende dai 1600 alle 2000 persone che vivono in una società di tipo socialista, concepita per essere autosufficiente e senza percorsi all’aperto, proprio come un centro commerciale contemporaneo.

Nel 1831 esce Notre Dame de Paris, Victor Hugo ha 29 anni, è il suo primo successo. Il capitolo secondo del libro quinto si chiama Questo ucciderà quello, è una riflessione di come, secondo lui, il libro ucciderà l’architettura. Il ragionamento è semplice: dall’inizio dei tempi, l’uomo scrive la sua storia incidendola su pietra e con la pietra costruisce dai megaliti alle cattedrali. L’invenzione della stampa ha stravolto questo meccanismo, l’architettura ha perso questo ruolo, che ora è del libro. Ora, proseguendo nel ragionamento, ci si può chiedere: Questo (cellulare) ucciderà quello (libro)?

Una ventina d’anni più tardi, nel 1851, si apriva a Londra la Prima Esposizione Universale e la costruzione del palazzo che la ospita viene affidata a un giardiniere, Joseph Paxton, profondo conoscitore di piante esotiche e uno fra i più capaci costruttori di serre. Per l’Esposizione progetta e realizza un’immensa serra di 120 metri di larghezza e 562 di lunghezza e per costruirla mette a punto per la prima volta un sistema di prefabbricazione. Il

Joseph Paxton, Palazzo di cristallo, Londra, 1851

Palazzo di Cristallo diventa il principale simbolo di quella funzionalità che il Movimento Moderno inizia a predicare un paio di generazioni più tardi. Ma il fascino della serra è sottile e impregna un singolare scrittore polacco, Paul Scheerbart, uomo insofferente a ogni forma di lavoro che non si svolga a un tavolo dove si possa bere e parlare. Scheerbart nel 1914 fa uscire un libricino, Glasarchitektur, Architettura di vetro. È un’illuminazione per gli architetti. Il Palazzo di Cristallo aveva fornito la tecnica, la prefabbricazione, ora la Glasarchitektur fornisce la filosofia. L’architettura dev’essere di vetro, trasparente, la vita stessa deve essere trasparente, luminosa, gioiosa. Bruno Taut nello stesso anno, per l’esposizione del Werkbund di Colonia, costruisce una struttura in calcestruzzo rivestita di vetro, sulle pareti interne sono riprodotte le parole di Scheerbart. Glasarchitektur diventa la bibbia dei giovani architetti tedeschi degli anni Venti, quando ancora non si erano separati fra espressionisti e razionalisti, quando ancora potevano sognare insieme sulle pagine della rivista Frulicht, Luce del mattino, diretta da Bruno Taut. Poco importa se nel giro di pochi anni si faranno la guerra dividendosi in due correnti contrapposte dalle quali dovrà uscire vittoriosa la corrente razionalista che poi riuscì nel Novecento a diffondersi sul pianeta contemporaneamente alle colate di cemento. Ormai il seme della Glasarchitektur era stato piantato. Una decina d’anni più tardi, a Parigi, Pierre Chareau e Bernard Bijvoet concepiscono e costruiscono la casa di vetro più nota fra gli architetti, la Maison de verre. Il committente è un dottore comunista intellettuale, collezionista d’arte e figura influente nella cultura parigina. La casa diventa immediatamente il manifesto della trasparenza democratica. Louis Aragon, Paul Eluard, Jean Cocteau, Walter Benjamin alcuni dei nomi che la frequentano. Due anni

Fritz Lang, Metropolis, 1927

dopo l’uscita di Glasarchitektur, muore l’architetto futurista Antonio Sant’Elia, dieci anni dopo, le sue visioni sembrano rivivere nel Metropolis di Fritz Lang.

Gli anni sessanta del Novecento aprono una stagione in cui tutte le arti sono al culmine delle attività e contaminazione è la parola d’ordine. In questo clima, dove in pittura regna l’arte popolare, e letteratura e cinema si influenzano a vicenda, a influenzare la cultura architettonica è soprattutto la fantascienza e il fumetto.

Ridley Scott, Philip Dick, Blade Runner, 1982

Philip Dick scrive in quegli anni racconti che racchiudono l’immaginario di tutta la seconda metà del Novecento fino ai giorni nostri.

Negli anni Sessanta, Flash Gordon e Barbarella popolano

Alex Raymond, Flash Gordon, dal 1934

l’immaginario. Tutto il movimento dell’architettura radicale degli anni Sessanta e Settanta è profondamente immerso nelle atmosfere evocate da cinema, fumetti e televisione. I pochi libri che circolano negli studi di architettura sono quasi tutti della collana Urania. La fantascienza stimola il cinema, il cinema produce immagini che influenzano gli architetti. L’immagine della città del futuro dagli anni Ottanta in poi non può prescindere da Blade Runner.

Inizia a metà anni Ottanta, con una puntuale coincidenza con la sua morte, la quasi imbarazzante fortuna con gli architetti di un libro di Italo Calvino, o, per meglio dire, con la sua presenza nelle relazioni che accompagnano i progetti. Il libro è Le città invisibili, nell’edizione del ’72 porta in copertina un’opera

Italo Calvino, Le città invisibili, 1972

di Ledoux, e merita una nota particolare. Quando un architetto presenta un progetto, ciò che produce è una serie di immagini, in genere disegni tecnici e rappresentazioni visuali di ciò che sarà e una relazione che introduce e spiega il progetto. Questa relazione viene affidata a chi, nel team di lavoro, ha una particolare predilezione per la scrittura e soprattutto viene fatta dopo il progetto, mai prima. In sostanza, ci si trova con il progetto e con la necessità di spiegarlo. A questo punto, chi ha l’ingrato compito di scrivere, ha la vitale necessità di appigliarsi a qualcosa, di trovare un punto di partenza, qualcosa su cui appoggiare le sue parole, detta in altri termini, deve trovare una giustificazione al lavoro. È a questo punto che, guardandosi in giro, da quegli anni in poi, le Città Invisibili hanno rappresentato una vera e propria manna per stuoli di giovani e meno giovani architetti a caccia di citazioni. Come trovare di meglio? Il testo è visionario ma non troppo, Calvino è già morto, famoso e italiano, all’interno del libro ci sono talmente tante sfumature che una giusta per quel progetto la si trova certamente, è di facile reperibilità e in più è inattaccabile.

Il questa veloce panoramica siamo arrivati all’adesso. Mi capita in questi anni di insegnare a ragazzi che hanno mediamente vent’anni e studiano per diventare progettisti. L’impressione, assolutamente personale e non scientifica, è che l’abitudine alla lettura di sia vaporizzata nell’arco di un paio di generazioni. Probabilmente non ha più senso chiedersi già da oggi qual è il rapporto fra letteratura e architettura visto che uno dei due termini ha tutta l’aria di essersi estinto, se non come produzione, almeno come fruizione. L’immaginario ha altre fonti, più legate alla visione e all’immagine, serie televisive, video, cinema. Le ricerche nel 2020 si fanno in rete, i territori sembrano vastissimi, le possibilità infinite, almeno a una prima impressione. Sarà interessante vederne i risultati fra una ventina d’anni, sperando di non esserci estinti prima.

Il testo nasce da un incontro su Architettura e letteratura organizzato da Zest a Verbania il 12 aprile 2019.


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