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Un giorno, allo zoo

Racconto di
Federica Lombardozzi Mattei


È mattina e tra poco, come ultima tappa della sua passeggiata che pare sacrificata alla vita, arriverà Gaetano armato del piccolo pezzo di bambù da elemosinarmi. Non capisco a cosa servano questi suoi controlli dal momento che, pur volendo, non potrei andare oltre le vetrate che mi intrappolano.

Credo che, tra tutti i bipedi col berretto arancione che ogni giorno entrano e escono dalle gabbie, lui sia il solo a non avere paura di me.
Gaetano è un maschio largo e basso, con i baffi folti, pochi capelli che spuntano dal bordo del berretto e con indosso una tuta blu. Se volessi fuggire potrei sbarazzarmi di lui con estrema facilità, e credo che questo Gaetano lo sappia. Tuttavia, per tutto il tempo che rimane con me, soffia un motivetto con cui scandisce i movimenti grossolani che si ritrova. Mi domando se questa tranquillità sia dovuta al poco interesse per la propria pelle o dall’escludere con certezza che io possa fargli del male.
La verità è che a me non infastidisce la sua presenza perché non ho più né territorio né prole da difendere.
Conosco bene il tragitto che Gaetano percorre prima di arrivare da me: passa davanti al recinto delle giraffe, poi a quello dei leoni, oltrepassa la voliera, quindi incontra altri tre o quattro gruppi di animali di cui, però, non so descrivere più i contorni. So dirvelo perché ricordo il giorno in cui tre uomini mi portarono in questa gabbia. Ripercorro spesso, nella mente, quell’infelice parata.
Prima di allora vivevo insieme a un gruppo di miei simili in uno spiazzo rettangolare ed erboso, scavato nella terra e circondato da un burrone. Al centro di questo spazio ci sono dei grossi tronchi appoggiati uno sull’altro in maniera ordinata. Dalle loro estremità penzolano delle corde con le quali potersi dondolare, ammesso che la stazza lo consenta.
Dunque, non io. Non la mia mole.
Due volte al giorno, prima che la voce metallica annunciasse qualcosa ai bipedi entranti e dopo che i bipedi che hanno guardato schiamazzando dai bordi dei recinti, se ne erano andati, Gaetano ci lasciava la razione sufficiente di germogli, radici, frutti e steli di bambù.
La prima quantità era destinata a me.
Io sono Waloo, il maschio dominante, e l’unico ad avere la schiena striata di grigio. Sono quello che comanda il gruppo e lo sorveglia, che può scegliere la sua femmina e che mangia per primo. Non si muove nemmeno una foglia sul ramo se io non sono d’accordo, a meno che soffi il vento.
Gaetano, però, mi chiama Tango l’Orango perché quando cammino poggiandomi sulle nocche mi dondolo quel poco da sembrare che balli. Qualcuno glielo spieghi che io e l’orango non siamo la stessa cosa: io sono un gorilla e, credetemi, è tutta un’altra storia.
Adesso, ogni volta che Gaetano arriva da me con un pezzo quasi invisibile di bambù tra le mani, ripete quella stessa cantilena: «Eh Tango l’Orango, se te ne fossi rimasto al tuo posto, non staresti qui da solo!»
Io ci sarei pure rimasto al mio posto se Koron non si fosse avvicinato troppo al mio cucciolo. Avevo fiutato fin dal principio che sarebbe stato un soggetto problematico, astioso e invadente, ma solo il giorno dello scontro capii fin dove si sarebbe spinto.
Se fossimo stati nella foresta lo avrei cacciato dal mio territorio e sarebbe finita lì, ma qui dentro è diverso: siamo costretti a condividere degli spazi troppo piccoli e per quanto certi esemplari si vogliano evitare, finisci sempre col ritrovarteli in mezzo alle zampe.
Fatto sta che io e Koron, quella mattina, litigammo furiosamente. Sentii dire che lo avevo ferito in modo piuttosto grave. Non so se Koron sia sopravvissuto alla mia furia, ma intanto io fui trasferito qui, da solo, per essere rieducato.
Cosa ci sia da rieducare in un padre che difende il proprio cucciolo, non lo so mica.
Nonostante questa solitudine forzata, e il tormento di non sapere cosa faccia e come stia la mia famiglia, sono felice di aver messo Koron al suo posto.
Sento Gaetano aprire la porta con le chiavi che tiene appese a un passante della tuta. Riconosco pure il motivetto. Poi intravedo la sua pancia, i baffi e quei pochi capelli sparpagliati che sembrano reggergli il berretto.
Stavolta la ciotola che lascia a terra è colma di germogli, ma la frase che mi dedica è sempre la stessa. Mi verrebbe da battere i pugni sul petto e urlare quel tanto che basti a fargli perdere il vizio dallo spavento. Ma in fin dei conti mi porta il cibo, mi tiene compagnia, non mi teme ed è pure abbastanza vecchio da poterci rimanere secco.
Tutto questo basta a lasciarmi tranquillo.
Lo osservo sistemare un po’ di rami, raccogliere gli escrementi da terra, sparpagliare delle strisce di carta di giornale sull’unica parte pavimentata di questo recinto di vetro poi, prima di uscire, guardare con disinteresse verso di me, giusto per un ultimo controllo.
«Ci si rivede stasera, Tango!» è il suo saluto per me.
Sento la voce metallica dire qualcosa, per cui intuisco che tra poco arriveranno i bipedi senza tuta né berretto. Avanzando lungo il percorso obbligato, disegneranno un semicerchio nello spazio facendo un gran fracasso di versi.
I più invadenti e indisciplinati batteranno i pugni sul vetro per provocare una mia reazione. Chissà se anche alla loro intraprendenza toccherà la mia stessa sorte. Esaurito l’interesse se ne andranno, soddisfatti di quanto hanno visto. Nessuno sembra mai preoccuparsi del fatto che io sia rinchiuso, e per giunta da solo.
Sento dei versi, e ecco spuntare le prime facce curiose: un maschio e una femmina con in braccio un figlio ciascuno.
Gli fanno da coda un branco di cuccioli, vestiti tutti uguali, tenuti assieme da un adulto che regge tra le mani un’asta da cui penzola uno straccio. Poi altri adulti, altri cuccioli e qualche vecchio col pelo bianco.
Mi scrutano, ridono, parlano tra di loro.
Li vedo avanzare formando delle macchie di colore. Faccio finta di non vederli e di non sentire tutto il frastuono che fanno, ma questo non basta a farli smettere. Mi osservano con gli occhi liquidi e vuoti di chi non guarda. È un po’ come esserci senza però esistere per davvero. Come me qua dentro, da solo.
Sento battere sulla vetrata in modo intenso e ritmico, come se fosse un richiamo. Mi volto, e la vedo. Una femmina, col pelo marrone e gli occhi grandi, mi sta facendo dei gesti dimenando la zampa in aria.
Fingo disinteresse, non voglio offrirle la mia posa migliore.
Torno a guardare il tronco sul quale sono seduto, ma lei riprende con la stessa tenacia e l’identico ritmo di prima. Allora, svogliato, mi alzo e mi avvicino col dondolio che mi appartiene. Quando le sono davanti mi accorgo di essere molto più alto di lei, ma i suoi occhi mi paiono ancora più grandi. Hanno il colore intenso delle foglie di bambù.
Esito io ed esita lei. Non capisco cosa voglia.
Con un movimento grossolano allarga la mano e la poggia sul vetro. Poi si concede l’attesa.
Mi guarda dritto negli occhi, forse vuole sfidarmi. Sento nella gola un grumo di incertezza che dovrei deglutire con l’ingordigia che mi manca.
La femmina continua a fissarmi. Poi, senza preannuncio, sorride.
Dovrei allenarmi alla paura di rimanere da solo per sempre.
Oppure concedermi di provare?
Stacco le nocche da terra, apro una mano e la poggio davanti a me, coprendo la sua. Lei sorride con la bocca più larga, inclina la testa da una parte e continua a guardarmi. Io faccio lo stesso, quindi lei sorride di nuovo, e annuisce.
Mi coglie impreparato quando si avvicina fino a toccare il vetro con il naso, spalancando la bocca per mostrare la lingua.
D’istinto faccio un piccolo balzo in avanti e, mentre spalanco la bocca per mostrarle il contenuto, gli altri bipedi iniziano a dimenarsi e a urlare. Ma lei no, rimane dov’è, con tutto il vuoto intorno.
Li ho spaventati, nonostante il vetro. Delle volte i bipedi fanno delle cose proprio stupide. Ci sequestrano, ci rinchiudono, e poi ci temono.
Quando tornerò allo spiazzo scavato nella terra, dovrò ricordarmi di raccontarlo a tutti.
La femmina abbandonata al suo silenzio continua a guardarmi; ha l’aria seria e serena, e nei suoi occhi vedo qualcosa di vivo, una specie di bagliore che assomiglia a un impegno preso.
Con un movimento sgraziato e frettoloso, se ne va. Come hanno appena fatto tutti gli altri, del resto.
Di cosa mi stupisco? Funziona così: entrano, curiosano, ridono, chiacchierano e poi se ne vanno. Solo io resto sempre qua.
Sento di nuovo la voce metallica e mi accorgo che l’aria è più fresca. Gaetano non si fa attendere molto, e stavolta non è solo.
Ho riconosciuto subito quel manto lucido e quegli occhi grandi. Ora indossa una tuta, ma non blu: è verde, con dei segni bianchi sul davanti che mi somigliano.
Gaetano si ferma due passi dopo la porta, lei invece si avvicina adagio, continuando a tenermi d’occhio. Non sembra avere paura, e io non ho motivo di farle del male. Dice qualcosa a Gaetano e lui annuisce.
Continua ad avvicinarsi, ma con movimenti più lenti. Sembra rallentata da qualcosa o qualcuno che però non riesco a vedere. Forse è il suo modo di pestare il mio territorio per non sozzare la mia dignità di maschio.
Io la osservo in silenzio, seduto sul grosso tronco.
Quando è abbastanza vicina, ma sufficientemente lontana, mi chiede di prestarle ascolto e io lo faccio. Mi chiama per nome, poi indica i bastoncini di legno che Gaetano ha sparpagliato stamattina. Gliene porgo uno e lei lo afferra. Senza che io possa prevederlo indietreggia, tenendo in ostaggio il trofeo che si è appena conquistata.
Si ferma di colpo e prende a battere le mani in modo scandito. Forse vuole che la imiti. La accontento e lei mi sorride mostrandomi i denti.
Credo mi voglia concedere un’alternativa, che voglia portarmi via da tutta questa solitudine.
Non ha più barriere. È lì per me.
Decido di avvicinarmi.
Il muso della femmina assume una smorfia di stupore, ma non percepisco paura. Gaetano e i suoi baffi polverosi emettono un suono che assomiglia a una sirena fastidiosa. Lei lo ammonisce con lo sguardo, e con la mano severa gli blocca il passo punendoglielo sospeso.
Guardo lei che ora guarda me. Ha un’espressione contratta. La bocca socchiusa manca di fiato.
Mi decido.
Con un solo balzo le piombo davanti. Gaetano lascia una nube di polvere dove prima ci aspettava il suo corpo.
Stavolta, tutt’attorno, avverto la paura. Un tremolio. Lei vacilla, ma resta immobile, invasa dal timore impastato all’incredulità. Le afferro la testa. La sua bocca emette un fischio flebile. Come un lamento.
Le discrimino i peli cercando la cute. Rovisto con movimenti decisi, con le mie mani enormi. Cerco. Le frugo dietro un orecchio, poi passo all’altro.
Mi dedico del tempo che, di fatto, mi avanzerebbe comunque.
La sento ridere dentro, come se non volesse fare rumore.
Non riesco a trovare nulla da rimuovere che possa giovarle. Non posso nulla per lei: ho solo diluito il mio tempo scivolando su una sconfitta.
Torno al mio giaciglio, col fallimento come fagotto.
La osservo indietreggiare, e poi prendere la porta.
Torna indietro, si ferma, esita, poi mi sorride.
«Ti tirerò fuori di qui» mi dice.
Non so quando, e non so nemmeno se sia vero, ma poco conta.
La reclusione non diventa più sopportabile se ti è concessa piuttosto che imposta.
Intanto aspetto.


Biografia:
Federica Lombardozzi Mattei, è nata a Roma nel 1977.
Diplomatasi presso l’Istituto Magistrale nel ’95, e attualmente iscritta alla facoltà di Scienze della Comunicazione, curriculum linguistico-comunicativo presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, ha da sempre manifestato un forte interesse per la scrittura e la pedagogia. Accanita lettrice ed esperta di educazione infantile, ha deciso di dare forma alle sue passioni mettendole su carta. Attualmente collabora con alcune web magazine, ed è impegnata nella stesura di un romanzo, di un memoir e di alcuni racconti per bambini.

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