A futura memoria | Leonardo Sciascia
Adelphi 2017
Nota critica di Dario Pontuale
L’8 ottobre del 1954 Italo Calvino, dalla redazione Einaudi di Torino, spedisce una lettera a Roma indirizzata all’editore Alberto Carocci. Poche righe, un consiglio, o meglio, una sincera segnalazione di un autore talentuoso, ma ancora poco conosciuto: «Ti accludo uno scritto di un maestro elementare di Racalmuto che mi sembra molto impressionante e interessante per Nuovi Argomenti». Lo scritto in questione si intitola Cronache Scolastiche, verrà poi pubblicato nel numero 12 della rivista nel gennaio-febbraio dell’anno successivo e poi racchiuso, nel 1956, in Le parrocchie di Regalpetra. Il maestro elementare, invece, risponde al nome di Leonardo Sciascia, originario del paesino dell’entroterra siciliano a pochi chilometri da Agrigento. Nell’ottobre del 1954 Sciascia ha trentatre anni, è sposato con Maria Andronico, anche lei maestra elementare, e dirige una piccola rivista letteraria la Galleria. Ha già pubblicato Favole della dittatura, recensite da Pier Paolo Pasolini, la raccolta di poesie La Sicilia e con il saggio Pirandello e il pirandellismo, ha vinto il Premio Pirandello. Un uomo di lettere colto e raffinato, poeta e saggista, ma non soltanto; autore de Il giorno della civetta (1961), A ciascuno il suo (1966), Il contesto (1971), Todo Modo (1974), Porte aperte (1987), ma non soltanto; un giornalista, un politico, un drammaturgo, ma non soltanto; un componente della 3a Commissione Esteri, della 11a Commissione Agricolture e Foreste, della Commissione parlamentare di inchiesta sulla strage di via Fani e l’assassinio Moro, nonché sul fenomeno della mafia. Un siciliano convinto, impegnato, inquieto, fine conoscitore dei costumi e della storia sicula, della sua gente e delle sue origini, ma non soltanto. Leonardo Sciascia è tutto questo, ma non assolutamente un mafiologo come fermamente dichiarato in un articolo per il Corriere della Sera nel settembre del 1982:
Non c’è nulla che mi infastidisca quanto l’essere considerato un espertto di mafia, o come oggi si usa dire, un mafiologo. Sono semplicemente uno che è nato, è vissuto e vive in un paese della Sicilia occidentale e ha sempre cercato di capire la realtà che lo circonda, gli avvenimenti, le persone. Sono un esperto di mafia, così come lo sono in fatto di agricoltura, di emigrazione, di tradizioni popolari, di zolfara: a livello delle cose viste e sentite, delle cose vissute e in parte sofferte.
Dunque non un mafiologo, casomai un acuto osservatore interessato principalmente a due verbi: “Vedere” e “Sentire”. Potendo aggiungerne un terzo, dichiaratamente ovvio, si sceglierebbe “Raccontare” perché è raccontare che lo interessa. Indagare i misfatti occorsi sul suolo che ospitò la corte di Federico II, il sonetto di Giacomo da Lentini, la Scuola Siciliana, l’embrione della lingua italiana. Un’isola nobile e aristocratica, invasa però da una malapianta dilagante che la contamina, condiziona le scelte, le abitudini, le mentalità. I soprusi, le angherie della mafia hanno inaridito le radici di quel popolo ostacolandone l’evoluzione, incrinandone la fiducia, asservendone il pensiero. Sciascia ne è consapevole e attraverso un’ampia visione delle cose, frutto di una coerente presa di coscienza, non si limita alla semplice esegesi degli effetti risalendo al principio generante
Un compito esatto, un preciso dovere analitico nei confronti della verità, ribadito nello stesso articolo, poche righe più avanti: «Ora io non so se i letterati hanno intuizioni specialissime. Io non credo di averne: e magari non sarò un letterato, per me c’è chi capisce e chi non capisce, chi ha volontà di capire e chi di capire se ne infischia». Su quotidiani e riviste, Sciascia porta in superficie fatti di cronaca e attualità, tiene vive questioni che la stampa, la politica o l’opinione pubblica preferirebbero sviare. Polemizza per non permettere che le nefandezze scivolino nel dimenticatoio, contrattacca sistematicamente gli insabbiamenti, non ergendosi censore, tantomeno giudice, semmai persona ben informata. Scrive da cittadino indignato prima che da scrittore, sempre ostile alla retorica, mai facinoroso, né fazioso. Ricerca con ossequio la verità, le prove, gli indizi, con sguardo nitido scartabella nei piccoli dettagli, tenendo ordinate le tessere del mosaico, sbrogliando la matassa. Lo scrittore di Racalmuto parla della Sicilia, combatte una lotta frontale e dichiarata contro la mafia, ma fondamentalmente si rivolge all’Italia intera, biasimandone il malcostume, la dissolutezza, la disonesta complicità. Accusa ogni associazione criminale, rimprovera la traballante amministrazione italiana, inveisce contro la delinquenza ramificata nella cosa pubblica e su Il globo nel luglio del 1982 afferma:
E direi che il dato più probante e preoccupante della corruzione italiana non tanto risieda nel fatto che si rubi nella cosa pubblica e nella privata, quanto nel fatto che si rubi senza l’intelligenza del fare e che persone di assoluta mediocrità si trovino al vertice di pubbliche e private imprese. In queste persone, la mediocrità si accompagna a un elemento maniacale, di follia, che nel favore della fortuna non appare se non per qualche innocuo segno, ma che alle prime difficoltà comincia a manifestarsi e a crescere fino a travolgerli. […] In una società ben ordinata non sarebbero andati molto al di là della qualifica e menzione di “impiegati d’ordine”; in una società in fermento, in trasformazione, sarebbero stati subito emarginati (non resistendo alla competizione con gli intelligenti) come poveri “cavalieri d’industria”; in una società non-società arrivano ai vertici e ci stanno fin tanto che il contesto stesso che li ha prodotti non li ringoia.
Il metodico e indefesso lavoro di ricerca condotto da Sciascia assomiglia un poco alla paziente saggezza dei vecchi pescatori della sua terra, uomini dotati di saggezza e di un’affinata conoscenza. Nel mare confuso e inquinato delle questioni siciliane e italiane, lo scrittore di La scomparsa di Majorana e L’affaire Moro si spinge a largo seguendo una precisa rotta, studia i movimenti delle correnti, infine getta le reti. Tornato al molo raccoglie il pescato, lo separa disponendolo nelle cassette, infine siede su una bitta a districare i nodi, cucire gli strappi, rinforzare le cime. Mantiene ordine senza mai perdere lucidità, procede alla scomposizione dell’insieme, assemblando elementi apparentemente distanti. Chiede chiarezza, confida nella giustizia, pretende onestà soprattutto da parte dello Stato e così scrive su La Stampa nell’agosto del 1988:
Io voglio, da parte dello Stato, decisione, fermezza, intelligenza, concordia tra i diversi organismi della Pubblica Amministrazione preposti al compito di combattere la mafia. Voglio quel che non c’è mai stato e che evidentemente non c’è; e che così continuando si fa meta sempre più lontano. Il che mi fa ancora e sempre apparire come un pessimista: e non pare sia permesso esserlo nemmeno di fronte al pessimo. Allegria, allegria
Insinua il lecito dubbio, ironizza, non piega la testa, tantomeno la penna, proseguendo a: “Vedere”, “Sentire”, “Raccontare”. Porge domande, spiega i possibili legami, le complicità annidate alla base delle corruzioni, le connessioni nascoste, le collusioni, le cattive gestioni. Indossa un “preciso abito mentale” che lo salvaguardia da sviste grossolane e depistaggi, si pronuncia soltanto quando, sufficientemente addentrato nella questione, è certo di conoscere. Non inciampa nella banalità, elude le trappole quanto le sterili provocazioni, lo vorrebbero ridurre a intellettuale, ma lui si oppone combattendo affinché l’inchiostro speso generi nei lettori un’insofferenza tale da non restare muti. Chiama in causa tutti, nessuno deve sentirsi escluso, a nessuno sono concesse attenuanti, perciò in L’Espresso nel febbraio del 1983, arringa:
Non solo non riesco a vedere gli intellettuali come corpo a sé, come categoria o corporazione, ma ho del mondo intellettuale una nozione così vasta da includervi ogni persona in grado d’intelligere, di avere intelligenza della realtà. Non mi pare si possa restringe il mondo dell’intelligenza a coloro che hanno a che fare con la carta stampata o con altri mezzi di comunicazione: e credo se ne abbia prova nel fatto, quotidianamente verificabile, che tanti che scrivono libri o articoli non sono minimamente in grado di leggere la realtà, di capirla, di farne giudizio. […] Il ripetere può essere di giovamento agli ignoranti; ma nell’ambito della carta stampata, di coloro che vi lavorano, l’ignoranza non è da ammettere, come non è ammessa di fronte alle leggi
Guidato dall’amore e dalla conoscenza di Pirandello, primo modello letterario, eredita la differenza mostrata dal drammaturgo di Girgenti tra “scrittori di parole” e “scrittori di cose” aggiungendo nel maggio del 1986 su L’Espresso: «Essendo soltanto uno che lavora con le parole, che crede le parole siano cose […] che crede la parola serva non a nascondere un pensiero ma a rivelarlo anche quando non si vuole». Un concetto affermato con fierezza, tanto quanto ancora una citazione pirandelliana e utile a sottolineare un vizio che accomuna la “Vecchia” Italia con la “Nuova”: «Beato Paese, il nostro, dove certe parole vanno tronfie per la via, gorgogliando e sparando a ventaglio la coda, come tanti tacchini».
Negli scritti giornalistici Sciascia spesso si avvale di elementi letterari non soltanto pirandelliani, con intenti metaforici si riferisce al berretto di Charles Bovary, si appella alle teorie di Capuana, Beccaria, Voltaire. Attorno a una prosa analitica, dal nucleo solido e pertinente, tesse uno stile dalla congenita pacatezza, anche quando schierato su posizioni impopolari. Posizioni sempre dettate dall’indubbia regola dell’onestà verso il lettore, verso i siciliani, verso il popolo italiano. Sintomatico è l’articolo sul Corriere della Sera nel settembre del 1982, riferito all’omicidio del Generale Carlo Alberto Della Chiesa, agli errori commessi, al pressapochismo mostrato:
Era un Ufficiale dei Carabinieri di vecchio stampo: onesto, leale, coraggioso e intelligente. Ma aveva i suoi limiti e ha fatto i suoi errori. […]. Il Generale Dalla Chiesa ha fatto i suoi errori dunque: e l’ultimo, fatale, è stato quello di non aver stabilito un sistema di vigilanza e protezione intorno alla sua persona. Dire che sarebbe stato inutile è tanto più insensato del dire che sarebbe sicuramente servito.
Leonardo Sciascia è un autore schierato dalla parte della giustizia, preoccupato di precisare la verità dei fatti senza pontificare, affronta temi scomodi come: la morte di Calvi, la nomina di Borsellino, il rapimento Sossi, il processo Sofri, le dichiarazioni di Buscetta, la reclusione di Tortora. Specialmente attorno all’ingiusta carcerazione di Enzo Tortora mostra un’obbiettività stupefacente, una disinvolta onestà di pensiero invidiabile in considerazione della profonda amicizia tra i due. Sul Corriere della Sera dell’agosto 1983 si lancia senza paura di smentita, fermo nell’accusare una rappresaglia giudiziaria capace di ledere chiunque, non soltanto il conduttore di Portobello:
Una follia, si capisce, non priva di metodo: e consiste il metodo nel confondere, nell’intorbidare, nel seminare sospetti e accuse, nel coinvolgere quante più persone è possibile. Un costruire, insomma, uno di quei castelli di carte che basta poi toglierne una, alla base, perché tutta la costruzione crolli. […]Si difende Tortora per difendere il nostro diritto, il diritto di ogni cittadino, a non essere privato della libertà e a non essere esposto al pubblico ludibrio senza convincenti prove della sua colpevolezza.
Lo sforzo letterario, soprattutto esistenziale, di Sciascia si cristallizza nella lotta all’omertà, al silenzio cannibalesco, una sfida a tutto campo contro le macchinazioni, contro la soffocante abitudine. Tale smisurato impegno si avvale di un’arma imprescindibile, necessaria quanto il lucido ragionamento: la memoria. Senza di essa il confuso fluire delle notizie, il repentino accavallarsi dei fatti permetterebbe negazioni o mistificazioni, consentendo una dilagante prevaricazione. Soltanto con l’uso meticoloso della memoria, unicamente con la capacità di ricordare, le maglie della rete non si annodano e gli squarci possono essere rammendati. Un impegno civile mostrato con crescente autorevolezza, un lavoro indefesso palesato nei romanzi al pari della saggistica, un combattimento valido per tutti i lettori, i siciliani, il popolo italiano. Un’alta risma di articoli collezionati durante cinquant’anni di attività capaci di denudare il modus vivendi di un Paese molto prima che la fine della Prima Repubblica ne sancisse la morte. Anni di scrittura raccolti in due sillogi che coprono un ampio lasso di tempo: La palma va a nord con interviste e articoli tra il 1977 e il 1980 e A futura memoria (se la memoria ha un futuro) con brani in un intervallo cronologico compreso tra il 1979 e il 1988. Nella seconda raccolta, edita per la prima volta dalla Bompiani e oggi ripubblicata dalla Adelphi a cura di Paolo Squillacioti, è possibile ritrovare intatta l’energia che anima l’opera sciasciana, liberando dal pulviscolo eterogeneo delle tematiche l’importanza di: Vedere, Sentire, Raccontare. A questi tre verbi, però, è necessario aggiungerne un quarto: “ricordare”. È indispensabile per ricordare Leonardo Sciascia, ma specialmente per ricordare di non dimenticare.