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Lo stile e i vezzi di una vita sostenibile lontana dalla tecnologia. A Zest risponde “La letteratura? E’ la chiave per portar fuori la responsabilità individuale”

di Alessandra Nenna

Se fosse nata a metà Ottocento probabilmente sarebbe divenuta un soggetto caro a De Nittis, il quale amava ritrarre donne in lunghi abiti scuri e sontuosi cappelli. E tuttavia un aristocratico fascino ottocentesco permea la figura di Amélie Nothomb al punto da farci supporre – per quella strana magia immaginifica dell’arte – che la prolifica scrittrice belga un giorno semplicemente varcherà lo specchio del mondo a cui è sempre appartenuta. L’abbiamo incontrata e ascoltata pochi giorni fa a Bari, in occasione del tour per la promozione del nuovo romanzo, “Il delitto del conte di Neville” (Voland, 2016, 120 pagine).

Una vita esotica, quanto e più di ciò che riversa nei romanzi (a oggi sono ventiquattro pubblicati, a partire dal 1992), che inizia a Oriente, in Giappone, dove la Nothomb ha trascorso parte dell’infanzia prima di trasferirsi adolescente in Europa.

Quando ero piccola – dice – ero convinta di parlare il “franponese”, una fusione di francese e giapponese; parlavo con i miei genitori il primo e il secondo con tutti gli altri. All’età di cinque anni ho lasciato quella terra e poco a poco ho perso il giapponese come lingua, ma persiste come parola fantasma: influenza il mio stile, il mio modo di scrivere. Posso dire di considerarlo come una storia d’amore che si svolge nel tempo. Ecco perché in Giappone ci torno raramente; ho bisogno di essere pronta ogni volta per non deludere o subire delusioni”.

Tradotta in 45 paesi, oltre due milioni di copie vendute esclusa la Francia, la sua è una scrittura di “frontiera” che ricerca ed esplora il limite emotivo, psicologico, creando personaggi estremi o situazioni disturbanti al confine del paradosso, ma esenti da giudizio. E proprio come nella vita ciò che ci attrae è spesso il senso d’imperfezione, così i libri della Nothomb si lasciano divorare per quella capacità di rivelare fin da subito il nemico (spesso interiore) e farci intendere che lungo tutto il racconto ci verranno fornite le chiavi per neutralizzarlo.

Ambientato in un Belgio contemporaneo, l’ultimo nato in casa Nothomb narra del conte Neville che, caduto in disgrazia e costretto a vendere il suo castello, decide di organizzare una lussuosa festa di addio. Qualche giorno prima della festa, la figlia più piccola, Sérieuse, fugge e si nasconde nella foresta. A trovarla è una chiaroveggente che, dopo aver avvertito il conte del ritrovamento della ragazza, gli fa una profezia: durante il ricevimento, lui ucciderà un invitato.

A dispetto di chi sostiene che un romanziere non dovrebbe mai inserire nei suoi scritti la propria biografia, la Nothomb ci si è invece spesso infilata come protagonista; si pensi a “Una forma di vita”, “Sabotaggio d’amore”, e ancora “Stupore e tremori”, “La biografia della fame”. Non fa eccezione questo ultimo lavoro perché l’autrice dichiara apertamente di aver messo in scena se stessa nella “fuggitiva Sérieuse” e la propria famiglia in un Belgio in cui tutt’oggi l’aristocrazia è cristallizzata al Medioevo. Un aspetto che lo rende affascinante più di tanto Giappone largamente descritto in precedenza.

Mio padre era un diplomatico – appartenente tra l’altro a una delle dieci famiglie nobili fondatrici del Belgio – e di ricevimenti ve ne erano spesso con centinaia di invitati. Si comportava come se lo scopo principale della vita fosse il “ricevere”; c’era un lavoro di organizzazione puntiglioso che portava i miei genitori a mettere da parte perfino noi figli. Penso che sia iniziata lì la fantasticheria di ammazzare gli invitati. Dal mio punto di vista erano invasori che soggiornavano tutto il tempo a casa mia. Ecco perché non ricevo; ho rispetto dei miei invitati – eredità di mio padre e della cultura giapponese -. Credo che se invitassi qualcuno l’assassinerei (ride). Questo spiega inoltre perché la predizione fatta al conte nel romanzo è così terribile: non gli si dice che ucciderà qualcuno, ma un suo invitato”.

Un tentativo dunque di parlare a distanza a quei genitori impegnati per una vita a sedurre i propri ospiti e non i propri figli e che tuttavia in questa scrittura pregna di associazioni con la loro realtà leggendo il romanzo – dice l’autrice – “hanno affermato ridendo: ma chi è questa gente? Ho passato tutta la mia infanzia a cercare di catturare l’amore dei miei genitori. A un certo punto e non so bene quando, ho notato che iniziava ad avvenire il contrario. Non so cosa sia giusto e me lo chiedo ancora”.

Non meno affascinante tra i personaggi del libro è la figura della chiaroveggente. Crede Amélie Nothomb nel destino?
Ci credo come scrittore e come essere umano al punto che non leggo gli oroscopi; non andrei mai da una veggente perché qualunque cosa poi dicesse dovrei per forza obbedirle. Di fatto c’è una dimensione profetica nel romanzo ed è legata nella vita reale al titolo di baronessa ricevuto dopo la pubblicazione. Nel momento in cui l’ho concepito e scritto era prima dell’estate del 2015 e non ero baronessa perché il titolo nobiliare viene ereditato solo dai maschi della famiglia in Belgio. Insomma, inizio ad avere paura dei testi che scrivo. Hanno potere”.

Sulle influenze letterarie – largamente presenti nell’ultima pubblicazione, da Oscar Wilde che rappresenta il libro di riferimento del conte, a Stendhal, i classici greci Ifigenia e Antigone – l’autrice afferma di non essere stata ispirata nel suo lavoro da un unico scrittore. “Leggo tanto – dice – e mi vengono in mente fiumi di nomi da Yourcenar a Murakami”. Interessi trasversali che includono anche gli italiani tra cui Pasolini di cui riconosce il lirismo e la voglia di essere un provocatore. “risente dell’eredità di Sade” – aggiunge.

La Nothomb nel romanzo sceglie per se stessa i panni della giovanissima Sérieuse. Ma com’era l’adolescente Amelie?
Ero esattamente come la protagonista descritta. Non sorridevo mai. Estremamente ombrosa. L’unica domanda che mi ponevo era: Continuerò a vivere?

Nel testo la chiaroveggente dice che la ragazza non ha i “sentiti”, per intendere i sentimenti. Anche nella lingua francese ci si allena a costruire neologismi?
“Sì, c’è questa tendenza a rimpiazzare parole esistenti come sentimento, emozione, sensazione. Mi chiedo: è necessario?”

È tuttavia innegabile che un libro tradotto deve affidarsi alla magia delle parole interpretate e riportate da un altro. Monica Capuani è la traduttrice italiana della Nothomb così come da sempre l’editore è Voland. Che rapporto ha con i traduttori in generale, c’è un’esigenza di controllo dopo la stesura?
“No, tendo a fidarmi. Per l’italiano, che è una lingua che conosco e che comprendo abbastanza bene, controllo di più, ma sono tante le lingue in cui sono tradotta e che non conosco assolutamente per cui mi affido al lavoro dell’editore, con cui ho una bellissima storia d’amore fin dall’inizio. Certamente ciò comporta delle sorprese perché apprendo che in cinese – per esempio- si creano dei controsensi enormi e questo lo trovo interessante. La sorpresa è legata al rischio del mestiere”.

Scrive per necessità o per piacere ai lettori?
“Scrivere e pubblicare sono cose differenti. Quando scrivo non penso al lettore, quando pubblico sì. Ho pubblicato un quarto di ciò che ho scritto; in realtà il numero dei libri scritti finora è 85. Quelli non pubblicati sono conservati con cura in scatole di scarpe nel mio appartamento di Bruxelles. Nel mio testamento ho disposto che alla mia morte tutti i testi non pubblicati siano fusi in un blocco di resina in modo da renderli per sempre inaccessibili”.

I suoi libri sono diventati anche soggetti di piéce teatrali o film. Si rilegge mai?
“No, mai. Ho talmente tanti “figli” che sono sempre presa dall’ultimo nato. Quelli scritti in precedenza li considero come adulti che devono fare la loro vita. Quando una delle storie viene adattata per il cinema o il teatro lo considero come il matrimonio di uno di questi figli e la persona che viene a chiedere i diritti per la realizzazione diventa dunque mio genero. E, vi avviso, sono una suocera terribile!”

In che modo la letteratura e l’arte possono supportare una visione di vivere sostenibile?
“Credo che la letteratura sia uno dei mezzi di espressione capace di tirare fuori il senso di responsabilità, ma che è prettamente individuale. Ecco, la letteratura ha tra le altre questa precisa funzione perché la persona che legge o scrive avverte dentro di sé la mancanza, la poca aderenza al rispetto, anche ecologico. Questa è forse la chiave”.

Ha sicuramente una indiretta finalità sostenibile per Amélie, il rendersi avulsa da ogni tecnologia: non ha cellulare, indirizzo di posta elettronica o computer. Tutti i suoi testi sono scritti a mano e consegnati su un quaderno al suo editore. Non da meno lo sono le lettere di risposta ai tanti lettori che le scrivono da tutto il mondo e a cui dedica giornalmente una parte della mattina nella sede della casa editrice (spesso in compagnia di un flûte di champagne, si dice); non prima di aver svestito i panni da scrittrice della prima ora: ogni giorno dalle 4 alle 8.

Del colore dello champagne è anche la rosa creata nel 2014 dal vivaista George Delbard a lei dedicata e che su suggerimento della stessa autrice offrirla, nel linguaggio dei fiori, significa “vorrei bere dello champagne in tua compagnia”.

Il vezzo del cappello (ne ha decine di ogni forma)?

Perché, spiega, ho sempre avuto un cattivo rapporto con la mia immagine e all’età di trent’anni, quando avevo già pubblicato alcuni libri, sono entrata in un negozio di cappelli a Bruxelles. Ne ho provato uno, mi sono guardata e per la prima volta ho visto che quella ero completamente io”.

L’incontro volge al termine e siamo tutti in coda per il rito della firma delle copie. Tutti si avvicinano intimiditi e poi come se avessero ricevuto una carezza inattesa vanno via sorridenti. Amélie chiede a ognuno il nome per la dedica, ma non manca di rivolgere anche un complimento: ora agli occhi, ora il sorriso, ora l’espressione tenera o giocosa.

E mi sovviene la frase tratta dal libro e letta durante la presentazione: “Essere nobile non significa avere più diritti degli altri, ma molti più doveri”.

 

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Amélie Nothomb: il pensiero, la poetica, la dimensione profetica dei suoi scritti.

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