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Rubrica 2078 Fifth avenue
La rubrica prende il nome dalla strada in cui vissero i fratelli Collyer noti per aver accumulato un notevole quantitativo di oggetti, tra cui libri e giornali, è un pretesto narrandi per immaginare di avervi trovato libri di autori, che sebbene lontani nella memoria, hanno fortemente contribuito alla letteratura nazionale e poterne raccontare ancora.

a cura di Davide Morganti


Comincio a sentire caldo, non mi sento bene, i giorni non passano mai anche se sembra siano già passati quando stanno per iniziare, faccio fatica a prendere i libri e a cercare di metterli a posto in questo caos che toglie il respiro; la sera stento a trovare la stanza dove si trova il letto. Quando mi addormento sogno libri che si spalancano e mi mangiano, ma non in un boccone, lo fanno a brani, strappandomi piano, li lascio fare per l’amore che ho per loro.

Al risveglio non sono né sollevato né angosciato, mi avvio a fare le mie cose come nulla fosse successo. Mi chiedo solo a cosa serva il mio continuare a leggere scrittori di cui non si ricorda più nessuno, sono un ostinato, anzi un ottuso e le mie piccole memorie non saranno meno dimenticate di loro.

Ma come posso non scrivere di Sandro De Feo? Il suo libro, “Gli inganni”, è del 1962 e lo scrittore pugliese (era di Modugno) aveva cinquantasette anni quando uscì, giornalista famoso, sceneggiatore affermato, con questo romanzo descrive la giornata stordita di Antonio, un intellettuale in crisi, afflitto da uno scirocco che tormenta lui e la Roma felliniana: tutto è stanco, inutile, vuoto. L’ironia di De Feo, in alcune pagine, è di una ferocia dallo sguardo calmo. “Perciò io non credo che le cose siano andate come si assicura, e cioè che un dio abbia tratto dal caos la realtà di questo mondo, perché non può essere opera di un dio trarre da un caos un altro caos, o se proprio è stata l’opera di dio e degli dèi, dovevano essere molto diversi da me per compiere un’azione così assurda secondo la mia logica. Ragione per cui io non credo negli dèi ma nei santi, non credo negli esseri diversi da me ma nei migliori da me”. Il linguaggio è piano, lento, somiglia alla parlata degli uomini del sud quando, seduti a tavolino, divagano sulle femmine, sulla vita, sulla morte, sulla famiglia e nella lentezza provano a dare gusto a quello che stanno dicendo. La Roma di De Feo è l’Italia che rammollisce male, si piega su sé stessa, sfinisce di vizi e debolezze. Mi sta salendo la tosse, mi sento pizzicare in petto e in gola, mi infastidisce da qualche giorno, provo a reprimerla ma non va via, dovrei uscire a comprare le medicine. Vorrei che il romanzo di De Feo venisse letto da chi sta per arrivare in Italia, poco è cambiata da allora: sfatta, corrotta, pigra come quando c’erano gli imperatori romani. La Roma vista con gli occhi di un paesano meridionale è una città che sprofonda in un torpore antico, un circo malriuscito che va avanti da secoli sempre allo stesso modo. “E in un senso è assolutamente vero che Roma è città eterna, nel senso che essa eternamente macina e tramuta la sua realtà in repertorio, come sta accadendo ora a questi due giovinastri, sicché tutto di lei appare falso, anche i morsi al naso e la stretta ai testicoli, e però si tramanda e dura, così come tutto appare falso ma si tramanda e dura in un repertorio”. Antonio accompagnerà per la città suo cugino Vituccio, incontrerà un’attricetta irrisolta, Silvana, soccorrerà una bambina morta in strada: un lento sprofondare di una città, di un uomo, di una generazione che somiglia a quella successiva e a quella ancora dopo. Poi il Vaticano – Antonio e il cugino vi si recano per incontrare un monsignore – luogo occulto, posto di morti che De Feo racconta attraverso la descrizione dei corridoi. “Monsignore ci attende, e passiamo nel corridoio, non è un corridoio come gli altri […] In un qualsiasi ministero borghese di quelli che conosco, alla Pubblica Istruzione o al Viminale, un corridoio […] so che cosa posso aspettarmi da essi, vanno avanti fin dove arrivano […] questo invece non si sa dove finisce e se finisce, è come quando sono seduto dietro la vetrata del caffè a guardare i passanti nella mezza luce falsa del crepuscolo, dentro hanno acceso le luci e ciò che vedo fuori non so se è la vita della strada o il riflesso di quella del caffè […] Qui non è falsa la luce, sono false le curve sfuggenti, è ingannevole l’architettura, la fine del corridoio si vede e non si vede, i preti che li percorrono o attraversano, aiutanti di studio, protocollisti, archivisti, anch’essi ci sono e non ci sono”. Sembra stia raccontando questa casa terribile, dove resterò prigioniero per chissà quanto tempo, schiacciato da una geometria che occupa ogni spazio del mio corpo.

 

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Vintage: Gli inganni | Sandro De Feo

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