Il disagio non è soltanto la negazione dell’agio ma il suo correlativo
(intorno a Disagiotopia raccolta di scritti su malessere, precarietà ed esclusione nell’era del tardo capitalismo, a cura di F. Andreola, d Editore 2020)
a cura di Paolo Risi
Raffaele Alberto Ventura delinea, nella prefazione all’antologia la traiettoria Visualizza articolo riferibile al termine disagio, dando conto di un’origine (il saggio Disagio della civiltà di Sigmund Freud, scritto nel 1929) e di una sorta di involuzione, sancita dall’utilizzo della parola in contesti “disimpegnati” e fuorvianti. Dall’anno 2000 in poi, un’operazione estetica, delegittimante, rimodellò il significato del termine in esame, lo ammantò di banalità, esponendolo al rischio di risultare inflazionato e piegato alla volubilità delle mode. Viene da chiedersi: quale significato attribuire, allora, al “concetto” di disagio? Si tratta di un nodo esistenziale che sfugge ai tecnicismi, e che per sua natura allude a molteplici eventualità, oppure lo si può identificare come un je-ne-sais-quoi – scrive R. A. Ventura – alla ricerca di una diagnosi più precisa, un non-concetto costruito secondo la logica apofatica della negazione?
Il disagio non è soltanto la negazione dell’agio ma il suo correlativo, uno stato che dialoga con il presente, ne è componente viscerale e allo stesso tempo sintomatica in un sistema “mondo” caratterizzato dalla precarizzazione del lavoro e dalla crescita delle diseguaglianze. Invischiati nel “tardo-capitalismo” non ci si può che affidare all’analisi e a una mappatura del disagio, disagiotopia, per l’appunto, formulazione che nella raccolta curata da Florencia Andreola (alla cui stesura contribuiscono otto fra storici, filosofi, architetti, urbanisti, sociologi e psicologi) tiene conto dei vissuti individuali e collettivi.
Sono quattro i nuclei critici che rileva Guido Mazzoni nel suo saggio Quattro crisi: gli anni Zero e gli anni Dieci possono essere interpretati affidandosi alla metafora della crisi, che è economica, della decisione, dei legami sociali e delle utopie illuministiche. Ne scaturisce una sempre maggiore tribalizzazione della società, somma di interessi privati che produce e perpetua diseguaglianze economiche e di rappresentatività politica. La competizione richiede la metamorfosi da lavoratore salariato a capitale umano, con tutto ciò che ne consegue in termini di sofferenza soggettiva e sintomatologia del disagio.
L’individuo – spiega Federico Chicchi in Contro la società della prestazione – diviene un capitale fisso da valorizzare, un’impresa su cui investire continuamente in nome di una strategia e di una legittimazione di sé. Il mercato diventa inevitabilmente matrice del sociale, suggerisce condotte e promuove obiettivi, incide sempre più nelle vite (vedi equilibrio psichico) delle persone. Ancora Chicchi: Il culto della performance, e l’ipercompetitività che l’accompagna, spinge di fatto i soggetti verso la fragilizzazione dei loro legami e delle loro relazioni sociali, producendo l’allarme e il tema dell’isolamento sociale, e della conseguente patologia depressiva, come sua vera e propria emergenza.
In Pulizia economica di Saskia Sassen l’orizzonte si amplia, dal punto di vista geografico e geopolitico: l’analisi si sofferma sugli effetti dei programmi di ristrutturazione del debito pilotati da banche mondiali e dal Fondo Monetario Internazionale; dallo smembramento di economie di sussistenza, perpetuato a partire dagli anni Ottanta del 900, divampa in molti paesi sub-sahariani e latinoamericani la missione predatoria, il processo disciplinare che apre questi territori a estrazioni di ogni tipo, che riguardano i settori minerari, i mercati di consumo, le comunicazioni, la conquista di terra e acqua. Lo scenario prevede, e istituzionalizza, la realtà di stati sovrani che utilizzano quote significative delle loro entrate per ripagare i debiti contratti, a scapito dei servizi essenziali, con l’inevitabile corollario di migrazioni internazionali, disillusioni e sbandamento sociale.
Altro fenomeno che produce disagio è la gentrificazione, che Loretta Lees tratta nel capitolo Gentrificazione planetaria. Portare cittadini a basso reddito fuori dalle loro case, dalle loro comunità, dai loro quartieri, periferizzando ancora di più la povertà: nelle megalopoli i governi locali appaiono sempre meno propensi ad avvalorare il bene pubblico, a monitorare le condizioni generali della popolazione, e sempre più concentrati nel trasformare lo spazio urbano allo scopo di ricavarne capitale e sovrapposizione di capitale. Vengono ricordati i casi di Lagos, Rio de Janeiro (gentrificazione dei bassifondi, attuata in concomitanza delle olimpiadi del 2016) e Londra, dove un programma di vera e propria pulizia sociale ha dislocato e dislocherà, in base a una stima prudente, oltre 135.000 inquilini e locatari, generando onerosi impatti sociali, economici e sanitari.
L’invenzione della casa come apparato architettonico è motivato non solo dal bisogno di protezione da un territorio ostile, ma anche da un desiderio di rendere stabile e dare una forma rituale alla vita. Dalle prime forme abitative alla modernità, Pier Vittorio Aureli e Shéhérazade Giudici nel saggio Orrore familiare, impostano una panoramica che su differenti livelli chiarisce il nesso fra dispositivo domestico e mantenimento dell’ordine sociale. Il punto è: naturalizzare un’asimmetria economica nel contesto familiare, che marginalizzi il ruolo della donna e ribadisca l’ineluttabilità dell’accumulazione originaria. Viene così a calcificarsi un’ideologia del “domestico”, più volte contrapposta, strumentalmente, alle pressioni della vita lavorativa, come di fatto si è potuto appurare – sottolineano Aureli e Giudici – nella crisi dei mutui subprime del 2008 negli Stati Uniti. Orrore familiare inteso come sistema di sfruttamento: all’architettura – ma non solo, naturalmente – il compito di smantellare lo spazio domestico, di formulare un ethos differente, di smascherare l’inganno che tiene la società incastrata in un groviglio di limiti psicologici e bisogni non naturali né inevitabili, un groviglio in cui le persone sono soggiogate dai loro stessi desideri.
Nel disagio si misurano ambiti che dalla cruda architettura del potere si incuneano fino agli abissi dell’inconscio. L’inciampo è psicologico, potenzialmente letale in un orizzonte culturale per certi versi sconfortante. Umberto Galimberti, nel capitolo Il disagio dei giovani nell’età del nichilismo, dà voce allo sgomento delle generazioni dei “senza” e dei “sogni infranti”, cittadini sotto tiro che, nonostante tutto, continuano a interrogarsi e a proporre domande cruciali. L’incidenza dei mezzi informatici sul pensiero; il lavoro come fonte di ossessione; il sesso, altro fattore perturbante e inquinato dalla liturgia dei “mi piace”: il clangore della battaglia è assordante, può innescare risorse impensabili come annichilire e fomentare la sofferenza. Galimberti suggerisce, nelle ultime pagine dell’antologia, una potenziale via di uscita, un chiamarsi fuori dalla lotta (comunque impari) e dalla ricerca di un approdo idealizzato. Si tratta di un cambiamento di prospettiva, di un’ipotesi di avventura che contempla la vita e la curiosità di sé.
E se il rimedio fosse altrove? Non nella ricerca esasperata di senso come vuole la tradizione giudaico-cristiana, ma nel riconoscimento di quello che ciascuno di noi propriamente è, quindi della propria virtù, della propria capacità, o, per dirla in greco, del proprio daimon che, quando trova la sua realizzazione, approda alla felicità, in greco eu-daimonia? In questo caso il nichilismo, pur nella desertificazione di senso che porta con sé, può segnalare che a giustificare l’esistenza non è tanto il reperimento di un senso vagheggiato più dal desiderio (talvolta illimitato) che dalle nostre effettive capaciità, quanto l’arte del vivere (téchne toũ bíou) come dicevano i Greci, che consiste nel riconoscere le proprie capacità (gnõthi seautón, conosci te stesso) e nell’esplicitarle e vederle fiorire secondo misura (katà métron).