Il volume, intitolato Il disastro urbano e la crisi dell’arte contemporanea di Serge Latouche, (Ed. Eleuthera, traduzione di C. Cecchi) studioso famoso per aver teorizzato e divulgato il concetto della Decrescita, affronta la profonda interconnessione tra la crisi dell’arte e quella della città, presentandole non come eventi isolati, ma come l’inevitabile esito di una più generale crisi culturale che permea la nostra società. Il libro sostiene che entrambe le crisi sono figlie dirette di un “immaginario colonizzato dagli imperativi economici”, un processo che ha condotto al “disincanto del mondo” e alla perdita non solo del senso del bello, ma anche della stessa capacità di creare città e di fare arte, inclusa l’arte di vivere.
Al centro dell’analisi vi è il concetto di “Hyperpolis”, una “città-supermercato gigante” che incarna la pervasività del mondo della merce nell’attuale villaggio globale. L’opera si rifà alla visione del grande romanziere francese J.M.G. Le Clézio, che descrive Hyperpolis come un luogo disumano e senza limiti che invoca la sua stessa distruzione, al punto che il mantra è “Bisogna bruciare Hyperpolis”. La mercificazione onnipervasiva del mondo, complemento logico della società della crescita, ha conseguenze profondamente distruttive sulla qualità della vita. Il libro evidenzia come la “deterritorializzazione”, ovvero l’espansione e lo sradicamento dell’attività umana, devasti il paesaggio e le città, rendendo vani gli sforzi di architetti, urbanisti e paesaggisti che, spesso consapevoli del disastro, tentano invano di porvi rimedio. Questa “pervasiva artificializzazione della vita” lacera il territorio, divora lo spazio, corrode il senso dei luoghi e disintegra il tessuto sociale. Il testo argomenta che il “disastro urbano” non si limita alla dimensione territoriale, ma si lega intrinsecamente a una “crisi della cultura”, manifesta in una “radicale perdita di valori, un’altrettanto radicale distruzione del gusto, della sensibilità, dello stile di vita”. Questa distruzione, di natura estetica, deriva dalla stessa colonizzazione economica dell’immaginario. Il libro osserva che è stata “distrutta ogni capacità di meravigliarsi”, sostituita da una “replica infinita dello stesso che è il segno distintivo dell’arte contemporanea”. Questo “grande caos estetico” colpisce tutte le belle arti, dall’architettura (e l’urbanistica) alla pittura o alla musica. La capacità di resistenza mentale a questo processo distruttivo, peraltro, si nutre e si rinforza grazie alle distruzioni materiali, inserendo il tema in una “lotta titanica” per la sopravvivenza della specie. Tuttavia, il volume non si limita alla diagnosi, ma propone la “decrescita” come possibile via d’uscita. I suoi valori etici ed estetici possono fornire gli strumenti e l’immaginario necessari per ricostruire non solo il tessuto locale e urbano, ma anche il senso del bello. La decrescita viene presentata come “un’arte di vivere”, specificamente “l’arte di vivere bene, in sintonia con il mondo”. L'”obiettore di crescita è al contempo un artista”, per il quale il “godimento estetico è una parte importante della gioia di vivere”. L’etica della decrescita implica necessariamente un’estetica della decrescita , sebbene quest’ultima sia più una conseguenza che un obiettivo primario. L’obiettivo ultimo è “re-incantare il mondo”. L’analisi del libro si nutre ampiamente delle critiche di pensatori come Jean Baudrillard, in particolare il suo “complotto dell’arte”, e Cornelius Castoriadis con le sue analisi della distruzione della cultura nella società capitalista. La diagnosi di Castoriadis sulla crisi dei valori occidentali (consumo, potere, status, espansione illimitata della ‘razionalità’) si collega all’analisi dell’autodistruzione della società di crescita e alla necessità di una “rivalorizzazione”. Pur riconoscendo la centralità dell’estetica nel progetto della decrescita, il testo mette in guardia contro la strumentalizzazione dell’arte, affermando che “il tentativo di strumentalizzare l’arte porta alla sua pura e semplice distruzione”.
per concessione della casa editrice pubblichiamo l’introduzione
All’origine di questo libro c’è anzitutto la pubblicazione, in Italia, di un saggio scritto su impulso e in collaborazione con Marcello Faletra, docente di Estetica all’Accademia di Belle Arti di Palermo, intitolato Hyperpolis. Architettura e capitale¹. Il termine «Hyperpolis» che ho suggerito per il titolo allude all’opera Les Géants del grande romanziere francese J.M.G. Le Clézio, che rappresenta una delle critiche più feroci alla società dei consumi. Hyperpolis designa una sorta di città-supermercato gigante, simbolo del mondo della merce nel villaggio globale. «Quando si è dentro Hyperpolis è come se si fosse dentro l’universo. Tutta un tratto le mura sono così lontane che non si riesce a vedere, sono sparite ai confini dello spazio. Il soffitto è tanto alto, il pavimento tanto basso, che è come se non ci fossero limiti. Lo spazio si è espanso molto velocemente, ha respinto le superfici dure e piatte, largo, tanto largo, ha spostato i suoi muri e le sue finestre, e ora non se ne vedono più le frontiere. Si è in lui, si fluttua». Questo luogo inumano invoca la sua distruzione. Si presenta allora come un ritornello ossessivo il mantra «Bisogna bruciare Hyperpolis», cosa che il protagonista, Machines, compirà alla fine del romanzo². L’omnimerficicazione del mondo, complemento logico della società di crescita, ha conseguenze talmente distruttive sulla qualità della vita che in effetti si può perfino arrivare ad augurarsi la scomparsa di questo mondo. La deterritorializzazione, ovvero la dinamica extra suolo dell’attività umana, devasta sia la campagna sia la città e saccheggia il paesaggio, a dispetto della buona volontà e del talento di architetti, urbanisti e paesaggisti che, spesso consapevoli del disastro, tentano invano di porvi rimedio. Se la megapolis nella quale viviamo non è altrettanto inumana di Hyperpolis è perché eredita una storia e una cultura che hanno preceduto il regno della merce e perché la colonizzazione del nostro immaginario da parte dell’economia non è ancora riuscita fino in fondo la nostra capacità di resistenza. L’analisi del disastro urbano non pertiene solo alla dimensione territoriale della logica di distruzione materiale compiuta dall’economia di crescita. Questa costituisce di certo un elemento importante nei disordini che hanno avuto luogo di recente nelle banlieues francesi e che hanno portato il presidente Macron a parlare di «decivilizzazione». Ma al fallimento della «politica urbana» ha contribuito anche quella che è stata chiamata la «crisi della cultura», ovvero una radicale perdita di valori, un’altrettanto radicale distruzione del gusto, della sensibilità, dello stile di vita. Tale distruzione, che si può qualificare come di natura estetica, deriva in ultima istanza dallo stesso processo di colonizzazione dell’immaginario da parte del fattore economico presente anche nella deterritorializzazione. La capacità di resistenza a questo processo distruttivo si nutre e si rinforza alla distruzioni materiali.
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