Supporta il progetto ZEST: associati, Sostienici oppure Abbonati alla Rivistascopri di più


Imaginacija di Predrag Finci
Edizioni Antibarbarus, Zagabria 2009

ESTRATTO per ZEST – con introduzione di Božidar Stanišić
Traduzione dal croato: Aleksandra Ivić

Imaginacija è una combinazione di due drammi, uno di vita e l’altro rappresentato dalle idee, dai pensieri dei filosofi e degli artisti. L’empiria personale in questa opera si relaziona continuamente con il vissuto reale e immaginario dell’arte. Nel centro del suo interesse c’è la natura stessa della pittura e dell’immaginazione e la loro influenza sulla nostra percezione dell’Altro.

Imaginacija è realizzato con una narrazione filosofica che al lettore rivela l’importanza dell’immaginazione ai fini della comprensione della realtà dell’Io e dell’Altro. L’osservare diventa, così, ri/pensare l’opera artistica alla luce delle relazioni reciproche fra l’individuo e l’interpretazione dell’arte come riflesso soggettivo della realtà.

Finci inizia questa sua opera partendo dall’ipotesi secondo cui l’immaginazione contiene delle regole proprie, un suo linguaggio, delle chiavi interpretative della filosofia, dell’arte, della vita. L’autore definisce il suo compito articolandolo su molteplici livelli e modalità, usando varie analisi e comparazioni, note personali sulla storia recente, numerosi esempi della storia d’arte e della filosofia, realizzando un caleidoscopio di interrogativi e riflessioni su teorie filosofiche sia recenti che del passato.

Una settantina di testi di questo libro, facilmente accessibili anche ai lettori ‘non specializzati’ in materia, potrebbero essere utili soprattutto agli studenti di filosofia e d’arte alla ricerca di un approccio multidisciplinare all’immaginazione (dall’estetica alla psicanalisi). Una eventuale traduzione e pubblicazione di questo libro in lingua italiana sarebbe un regalo a tutti quelli che non si accontentano dei luoghi comuni nelle interpretazioni dell’arte nella sua complessità estetica e semantica.
Božidar Stanišić


Domenica di Hopper

(Entrano nei cinema a luci rosse, quelli da pochi soldi, guardano le vetrine dei negozi chiusi, bevono caffè cattivo nel vicinato o, peggio ancora, birra sul binario, ordinano qualsiasi cosa e sognano invano, giacché appartengono a quell’esercito dei perduti i cui sogni saranno soffocati da un lunedì lavorativo, dalla povertà in famiglia, dalla miseria e solitudine. Nei loro appartamenti regna sempre il buio. Il loro sogno è l’espressione di un antico grido di aiuto: “dacci oggi…”, il sogno nel quale non c’è posto all’immaginazione. Camminano per le strade, seguiti dalla solitudine. È la stessa solitudine accumulata nell’infanzia, segnata da povertà e dalla necessità di andarsene via di casa, la solitudine da essi proiettata verso il cielo vuoto, eppure solo una semplice stretta di mano potrebbe cambiare molte cose: il presente crea visioni del futuro e modella nuovamente l’immagine del passato).

Edward Hopper: Domenica (1930). Il quadro nel quale c’è deserto e solitudine. L’immagine dell’uomo solo seduto davanti a un negozio chiuso. L’immagine di un uomo solitario, il cui aspetto viene colorato dai sentimenti dell’osservatore. Come se aspettasse colui che non verrà. Si è raccolto tutto in se stesso nel suo sguardo assente. Giorno senza clienti, senza traffico, niente visitatori né passanti, senza vita. Tutte le porte sono chiuse, anche quelle a lui familiari lo respingono, diventano estranee. Solitudine della città. Solitudine che ogni straniero sente, ognuno che si siede davanti alla porta di una casa chiusa, dalla quale si sente l’inospitalità e la freddezza di un paese straniero. Solitudine di una persona che anche nella propria città diviene straniera nei confronti di se stessa. Pomeriggio freddo di domenica, gente senza speranza gironzola attorno.

Faccio parte di quei quadri ed essi fanno parte di me. Quella traccia di sole nel parco davanti alla chiesa, quel gioco di luci sulla parete di fronte alla finestra, quella luce degli affreschi rinascimentali, quel sole nei quadri di J. Turner, quella luce nei quadri di Edward Hopper: il fantastico, poetica, tenerezza, bellezza, solitudine, tristezza, trepidazione, angoscia, la speranza ristretta di un’attesa. Fantasmagoria del reale. Ogni pittore ha la sua origine, ogni nascita di una nuova opera riapre l’eredità, ogni maestro dentro di se porta i suoi parenti spirituali. Si manifesta, questo, anche nella pittura dei solitari, nella produzione artistica dei pittori diversi eppure vicini, come sono De Chirico, Morandi, Magritte, Munch… Zeitgeist: Herder ribadisce che lo spirito del tempo è un potente demone al quale tutti siamo subalterni.

Ho iniziato ad amare i quadri di Hopper. Ho iniziato ad amare quei paesaggi dell’urbano nel passaggio dall’illustrazione alla breve sequenza di film, quei quadri che sembrano fotografie ma non possono in nessun modo essere chiamati così, quella percezione di un’epoca.. ho cominciato ad amare questi quadri quando una città ha cominciato ad apparire anche a me stesso un paesaggio solitario e abbandonato, ho iniziato ad amare quelle case e strade deserte, quei parchi e negozi chiusi, quelle stazioni e i treni, quei passanti che non vanno da nessuna parte e da nessuna parte si sentono a casa propria, quella gente che se ne va in silenzio, quel mondo che è diventato mio quando in me si è chiusa la memoria di un altro, scomparso. Il quadro è il ricordo di altre immagini. Quelli di Hopper richiamano alla memoria i film vecchi e il voyeurismo dei registi cinematografici: i suoi quadri hanno influenzato molte persone, tra cui anche A. Hitchcock nel suo film Psyho, nel quale tutto succede in una casa isolata, come se fosse abitata dai fantasmi; e poi, un nuovo esempio dell’uso dell’atmosfera di Hopper è l’immagine del caffè nel film sulla vita di Edith Piaf, La vie en rose di O. Dahan. Nei quadri di Hopper si sente l’atmosfera di film noir, nei quali si manifesta in modo evidente l’immagine di tutto ciò che è la desolazione umana e la solitudine, tutto il deserto e l’isolamento di una città grande. La fantasia divampa quando il paesaggio non è più accessibile allo sguardo, dal mondo di ombre alle imposte scure abbassate: cosa succede lì dietro, quale segreto vi è imprigionato, quale tesoro vi è nascosto? E il quadro è l’apertura della grotta di Ali Baba. Nei quadri di Hopper non succede niente, eppure tutto può succedere. Guardo il mondo nel quale non ci sono mai stato, e lo sento così vicino.

La distanza trasforma il mondo oggetto di osservazione. I personaggi diventano figure, paesaggi sono quinte. Nell’iconografia urbana di Hopper lui non appare nei quadri, ma c’è sempre, è sempre presente, presente nel dipinto, nella “gente comune” solitaria, nei visi malinconici e nelle strade deserte, nell’alienazione della vita urbana, nell’angoscia dei caffè, nei tramonti e nelle albe, poiché i suoi quadri sono espressione della parte interiore, i suoi quadri sono lui stesso. Una volta ha detto che non avrebbe dipinto se i suoi quadri avessero potuto essere espressi con parole. E alla domanda “che cosa voleva dimostrare con il suo dipingere di luce”, ha semplicemente risposto: “Me stesso”. Rembrandt è il pittore delle ombre, Hopper della luce. Alla fine della vita dipinge albe, dipinge una stanza vuota accanto al mare, dipinge soltanto luce. Dipinge se stesso.


Su ZEST di Predrag Finci leggi anche Il popolo del diluvio Bottega Errante edizioni 2018

Share

Imaginacija di Predrag Finci | ESTRATTO: Hopper – commento di B. Stanišić

error: Content is protected !!