La mia vita è un paese straniero | Brian Turner
Traduzione di Guido Calza
NNEditore 2016
Recensione di Paolo Risi
Che le persone soffrano non significa che non abbiano dignità, che le persone hanno paura non significa che non abbiano coraggio, che le persone passino lunghi periodi di difficoltà non significa che non abbiano speranza. (James Nachtwey).
Il 3 dicembre 2003 il soldato Brian Turner arriva in Iraq. Ben presto si accorge che la zona di guerra, oltre che essere pericolosa, è un territorio definito da prospettive ingannevoli. Un proprio connazionale può essere scambiato per un combattente avverso, la differenza la fa il riflesso di un badge colto all’ultimo istante, prima che il presunto nemico venga abbattuto da una carabina M4.
Ma anche i paesaggi, le atmosfere, creano sovrapposizioni sinaptiche, lo straniamento va combattuto come tutto il resto, la nebbia lievita sopra il fiume Tigri e fa pensare ai vigneti, agli uliveti lungo il fiume San Joaquin in California.
La paura si materializza in qualcuno che sta braccando la tua anima. (Brian Turner)
I dettagli, la conoscenza professionale delle armi e delle procedure belliche, risultano fondamentali e illuminanti, danno spessore alla trama (“l’instrumentation est une affaire de morale” scrisse Jean Patrick Manchette, innovatore del noir francese a inizio degli anni ’70). Il resoconto, proprio perché minuzioso, libera spazi alla vampa poetica ed essa stessa, in una strutturazione ciclica, asseconda la descrizione realistica. Nell’occhio del ciclone appare il nucleo microscopico e inestimabile della testimonianza, del valore letterario.
La mia vita è un paese straniero dello scrittore Brian Turner (per sette anni nell’esercito americano) rivela quello che i reportage di guerra non sono in grado di elaborare, la visione da dentro, sguardi che realmente si incrociano nella dimensione intima e inesorabile. Occupati e occupanti strisciano nel mondo parallelo di cingolati, frontiere, colpi di mortaio, un prigioniero macilento, ammanettato e disteso nella polvere, osserva un fante americano, entrambi stentano a riconoscere un uomo nella figura che gli si para davanti.
Nell’incedere di penna, sudore e sangue, nella scrittura sincopata, si riconosce un ambito che idealmente si può identificare in un Dojo (il padre di Brian ne allestì uno nel garage di casa), un luogo dove si segue la via, entro cui si studiano e si affinano le arti marziali, in termini strutturali “uno spazio statico, fissato in un luogo preciso, e tuttavia quello stesso spazio funge allo stesso tempo da rifugio e da percorso”.
Il Dojo diventa un lascito dinastico (la famiglia di Brian è una famiglia di militari), elaborazione poetica e allo stesso tempo traiettoria esperienziale, che oltrepassa le generazioni e la Storia, che assembla come in una mappatura aerea la Bosnia, il Vietnam, l’Iraq, l’Europa, la Cambogia. Radici insaziabili figliate dallo stesso seme affondano nella civiltà della guerra, dal profondo un sentire che non lascia scampo, come un rito iniziatico a cui non ci si può sottrarre, un cupo rullare di tamburi in lontananza.
E i nemici morti restano là, nel loro silenzio profondo, la faccia sulla dura terra da cui provengono, e non uno di loro che si levi dal meccanismo guasto del suo corpo, come potrebbe fare uno spettro, per seguire il sergente Turner nelle strade e nei campi di quel mondo fantasma. (Brian Turner)
Capitoli brevissimi, due righe o tre pagine al massimo, periodi che vanno dritti al punto, frammenti lirici in forma di annotazione, sono la forma che Brian Turner ha deciso di dare alla sua guerra, alle guerre rimaste orfane di parole e di silenzi o accecate dagli schermi silenziosi delle breaking news.
Difficile proporre delle coordinate di riferimento che non siano superflue o inesatte, l’eruzione dell’anima in battaglia rimanda a Terrence Malick, il regista de La sottile linea rossa, a un ipotetico William T. Vollmann, la puntualità espositiva, la perfetta messa a fuoco, fanno pensare alle fotografie di James Nachtwey, straordinario testimone di conflitti e genocidi.
Letteratura, cinema e fotografia si accalcano nelle visioni plastiche di Brian Turner, distacco e fragilità coabitano nel ventre del conflitto a fuoco, nello spirito cameratesco, nei ritorni a casa. Il suo sguardo è personale e disponibile a dislocarsi, attraverso una sorta di stato onirico elargisce il dono più grande, dare voce alla rabbia e al terrore del nemico.
Il bombarolo è morto, è vero, ma altri aspettano. (Brian Turner)
Nota biografica
BRIAN TURNER ha servito per sette anni nell’esercito americano. È stato in Bosnia-Erzegovina e in Iraq, in Medio ed Estremo Oriente. Saggista e docente universitario, ha debuttato nel 2005 con la raccolta di poesie Here, Bullet, ottenendo riconoscimenti di critica e di pubblico. La sua seconda raccolta, Phantom Noise, è stata candidata al premio T.S. Eliot nel 2010.