La sabbia di Léman | Carmine Sorrentino
Bordeaux Edizioni
La perdita. Cosa genera? Cosa implica perdere l’amore della persona amata? Di un affetto caro? Siamo davanti alla mancanza che si associa al detrimento. Alla mutilazione emotiva che cambia profondamente l’interiorità di chi lo prova e del suo profondo.
Carmine Sorrentino non si sottrae all’investigazione del dolore causato dalla perdita nel suo nuovo romanzo La sabbia di Léman, Bordeaux edizioni. Si presta e si sottopone alla ricerca, con il suo immaginario ricco. Mescola viaggio narrativo e lingua poetica, ottenendo un mélange di potente efficacia.
Siamo a Losanna, sul lago di Léman. Una storia il cui racconto si apre sulla bellezza plastica di una statuina. Un piccolo simulacro dagli abiti in stoffa e con il volto screpolato. Una statuina che somiglia ad una “giovane vergine più che a una donna ingravidata dal dolore del mondo”. Una casa, un uomo e una bambina. Amelie, questo il suo nome, ne resta affascinata. È un acquisto fatto da un antiquario. Un pezzo economico eppure carico di interesse. Amelie la osserva nella sua collocazione, le scorge il manto del cielo negli occhi e quando l’uomo, Carlo la sposta in altro luogo, lei non si rassegna a quel vuoto. La cerca anche di notte. E di notte troverà la bambina con la statuina distrutta ai suoi piedi.
L’accadimento è il preludio di una separazione, l’ennesima nella vita dell’uomo che sceglie di affrontare un viaggio che prenderà il sapore dell’avventura, nel deserto maghrebino. Quella distesa di sabbia infinita è lo spunto per riflettere in solitudine e in compagnia di un’amicizia fortuita che non ha coinvolgimenti e condizionamenti pregressi. Carlo è colpito dall’incontro con Amin. Il suo autista nel deserto, che a bordo della sua jeep, con il suo inglese perfetto, diventerà un mentore. Una spalla su cui poggiarsi per quell’attraversamento sulla sabbia che scotta di ricordi vivi. L’incontro tuttavia sarà anche stimolo verso un percorso di liberazione.
Il cuore della storia si svolge la sera della vigilia di Capodanno a Wadi Rum, in una tenda di beduini. Sembra di essere all’improvviso catapultati in un dipinto orientalista, olio su tela, di fine ottocento. Un dipinto che parla di storia, di vissuto, di un’antichità contemporanea. Pennellate dell’illusione del vero, di creazioni artificiali riportate in vita dal dialogo di due culture, due mondi, due identità e due orientamenti molto diversi. E il convivio si fa condivisione di cibo, tè e spirito. Qualcosa spezza l’equilibrio fragile e illusorio dell’attimo della dimenticanza. Carlo ricade nella spirale del ricordo di Sebastien e Amelie. Persi entrambi ma in modo differente.
Chi è Sebastien? È un uomo curato e calmo. È un fisico al CERN di Ginevra. La loro, una relazione che si interrompe bruscamente. Eppure il potere di saper coinvolgere è il dono di Amin che lo distoglie da quel male fisico con il potere liberatorio della danza del dabka. Si instaura tra i due un gioco costante di avvicinamenti e allontanamenti. Gli uni, di affinità sensibile e gli altri fatti di limiti culturali. Amin parla della moglie, di donne, figli e poligamia. Discorso complesso per un occidentale. Labile lo spiraglio della comunicazione. Il dire I understood di Carlo equivale ad una carezza, ad una nuova possibilità di saper comunicare.
Il giro di valzer della memoria riporta Carlo a Losanna e al lago di Léman. Lemano. La leggenda racconta che il lago sarebbe in grado di contenere i cadaveri dell’umanità intera. Un sepolcro liquido. Sebastien ha provato a calcolare la veridicità della leggenda per giungere alla conclusione che non c’è prova scientifica che confuti tale assunto. Siamo così davanti a tre nomi, due di persona: Amin e Sebastien; uno geografico: Léman. Tutti e tre terminano per n. N come concetto matematico, n tupla. Un’elevazione, un apice. Nel racconto Amin e Carlo sono spazio. Il primo spazio vuoto, equivalente alla malia, e l’altro in quanto pittore, incarnazione del concetto di ricerca spaziale. Sebastien è il tempo. Amin e Sebastien sono gli assi cartesiani che si intersecano sul punto di origine che è Carlo. È lui l’unità di misura che favorisce il riconoscimento funzionale e emotivo dei personaggi. Lui ha la facoltà di collocare entrambi nella stessa dimensione.
Sebastien è altro adesso. È ritorno alla vita prima del loro incontro. È ritorno alla moglie. A quegli esercizi di stile prefigurati dal libro di Raymond Queneau. Il libro che lo ha avvicinato a Eva, lo ha allontanato da Eva e lo ha riportato a Eva. La prima donna. L’unica. Sua moglie. Un libro che lega Sebastien alla nonna. Alla sua formazione. All’incontro con le emozioni sociali, con le regole ferree della sua cultura. Nonna Miriam è una donna ebrea di origini russe, ha sposato Pepé, un ebreo italiano con cui si trasferisce a Ferrara. Per sfuggire dall’orrore. Lei lo ha introdotto a quegli esercizi di stile. Ad un’educazione rigida e rigorosa. Gli esercizi di stile, la preghiera laica di nonna Miriam.
La mente vola al giorno in cui Sebastien ha acquistato una scatola in apparente avorio e una piccola statuina. Sì la statuina della vergine con cui si apre il racconto. Sebastien è in compagnia della sua amica Cécile.
Carlo è nel deserto, sotto una coperta di cielo lontano. Lontano dall’inquinamento luminoso. Lontano dai condizionamenti. È tabula rasa. In compagnia delle stelle e dell’osservazione delle stesse, ripensa al lago. Al lago che lega Sebastien a sua nonna Miriam. A pensare che senza Sebastien ha perso la speranza. “Quando ci si denuda l’anima davanti a qualcuno, il cuore poi si spezza”. E Carlo è lì con il cuore spezzato, steso sulla sabbia a guardare quel cielo e svolgere l’esercizio consumante delle parole dolorose, ad esperirle e svuotarle del loro significato per uscire dalla capinera. Dal buio pesto e inchiostrato della tristezza. Della depressione. È timoroso di essere fagocitato dal silenzio. Ne ha paura. Amin si fa vice della sua coscienza, lo riporta all’abbraccio e al calore balsamico delle parole “Quando incontrerai davvero l’amore non avrai più paura”. L’amore si farà guida esperta dell’attraversamento dei suoi silenzi interiori .
La mente torna alla separazione. Carlo è solo. Amelie non c’è più. Lascia Losanna. Prova a passare tempo a Roma ma sente che il processo del parto è in corso. La città lo espelle. E lui va a ri-nascere nel deserto. È la notte della vigilia del nuovo anno. Il giorno di Capodanno è lontano poche ore. Carlo trasforma il dolore. Si sente coinvolto in un nuovo amore. Carlo ama la sua guida Amin. Amin lo ricambia di affetto da sincera amicizia. Vorrebbe farlo restare, sa che nel luogo in cui è rinato, può crescere con il suo nuovo cuore.
Siamo all’epilogo. Qui il dolore della spiegazione si fa struggente di bellezza e crudeltà. La scrittura di una lettera si mostra strumento descrittivo della separazione. Della lacerazione tra il non esserci di una promessa che si rimanda al domani che non verrà (Sebastien) e il dolore nutrito dalla speranza di chi è rimasto intrappolato nell’illusione dell’attesa (Carlo).
Una amore consumato in un infinito domestico, necessario e lacustre. Un amore che porta chi lo vive con il dolore del rifiuto, a prescindere dalla sua motivazione, a sentirsi sovrastato dalla paura del silenzio. Siamo davanti ad due bambini, due puri, uno di fronte all’altro. Entrambi allertati, in attesa del via, ad acchiappare il fazzoletto giocato. Il cencio in palio, sotto la pioggia del pianto che uniti non li vuole.
Carmine Sorrentino parla di amore. Di amore tra due esseri umani. Un amore che prescinde l’orientamento di chi lo vive. È Amore. Quella cosa semplice che accade senza una ragione e che finisce allo stesso modo. Che è finito anche se non finisce. Perché non tutti hanno il coraggio libero di andare incontro alla propria felicità. O a qualcosa che le somigli. Spesso si cresce con l’idea, dorata come la gabbia in cui ci sente a proprio agio, nella personale zona di confort generata da come bisognerebbe comportarsi e come bisognerebbe essere. Trascurando l’ascolto della propria interiorità. Rimuovendola. Negandola, in nome della meta genealogia che si è ereditata. Il come dovremmo essere che ci cuciono addosso e del quale non sappiamo liberarci. Finendo per non tradire le altrui aspettative, per evitare la violenza del rifiuto familiare. Rinunciando spesso alla nostra parte migliore. Confinandoci nella terra del rimpianto e del rimorso. Di ciò che avrebbe potuto essere. Amando la rosa che non cogliemmo. E Carmine Sorrentino racconta questo dolore con sobrietà ed eleganza. Con un linguaggio che ha la bellezza dell’antico e la lucidità della contemporaneità. Solitudine aumentata come la realtà che, spesso, ci condanniamo a vivere.