L’aldilà | Horacio Quiroga
Edizioni Arcoiris
La trasfigurazione del vissuto. Il dolore lenito dall’isolamento. La foresta e il suo cuore selvaggio. L’incognita violenza della natura. Questo nutre i racconti di Horacio Quiroga insieme al funesto svolgersi della prima parte della sua vita. È un perdente di affetti. Un habitué di mutilazioni emotive che non lo possono lasciare indenne. Amore e morte ma soprattutto fragilità nervosa scorrono nella sua scrittura. Il suo dolore ha un peso specifico. Uno strappo che non si può rammendare e che diventa cicatrice nodosa. È preludio all’addio
L’aldilà è l’altrove dove collocare i fragili, i feriti nell’animo, i cuori sensibili , è la città dell’asilo politico. Il centro di accoglienza che li ospita, riunisce e offre loro la chance della mera sopravvivenza in attesa del viaggio finale. Alterazioni e disadattamento. Percezioni e devianza.
L’aldilà è una raccolta di undici racconti tradotti da Francesco Verde per le Edizioni Arcoiris. Il racconto che dà il titolo alla raccolta racchiude il paradigma di Quiroga: Amore-Follia-Morte. Questo c’è nella trama verbale di Quiroga, la ricerca di un per sempre insieme. Di un legame duraturo alla caducità della vita e del suo modo fragile di essere.
Abbandonavamo la vita perché essa ci aveva già abbandonati, impedendoci di essere l’uno dell’altra. Nell’estasi di quel primo, casto e ultimo abbraccio che ci scambiammo a letto, con ancora indosso abiti e scarpe, capii quanto grande sarebbe stata la mia felicità, se avessi potuto essere la sua fidanzata, la sua sposa.
Le mosche è un racconto che accarezza ancora il tema della morte. C’è un uomo che è seduto, con il dorso appoggiato al tronco, immobile. Inciampato nella foresta, ha la schiena rotta, lui stesso dice la colonna vertebrale mi si è spezzata. Le mosche sono le messaggere di quella morte che sta per compiersi. I pensieri dell’uomo sono vividi, deliranti, angosciosi in attesa di lasciare spazio a un quieto cadavere. Il suo. Le mosche verdi, lucide, meticolose, hanno già fiutato la prossima decomposizione dell’uomo seduto. Lo spogliano della carne, lo preparano alla trasformazione, alla libertà, alla leggerezza perché anche lui diventerà una mosca, e in compagnia delle altre mosche banchetterà dal suo stesso corpo.
Libero dai vincoli di spazio e tempo, vado di qua e di là, da quest’albero a quella liana. Lontanissimo, come il ricordo di un’altra vita, vedo un fantoccio con gli occhi immobili e sbarrati, le gambe rigide, poggiato a un tronco abbattuto. E in questa immensità, dove il sole frantuma la mia coscienza in miriadi di particelle, posso finalmente alzarmi e volare, volare… Volo, e mi poso con le mie compagne sul tronco riscaldato dal sole, i cui raggi alimentano, adesso, la nostra opera rigeneratrice.
Ne La signorina leonessa si consuma la trasformazione della natura per mano umana che è ormai incapace di mantenere un contatto con la psiche istintiva, e pasce in uno stato prossimo alla distruzione. Lo scambio richiesto tra un bambino e un cucciolo di leonessa illude sulla possibilità di dialogo tra umano e animale. Della sorte del bambino non si sa nulla. Della piccola leonessa addomesticata al mondo umano si evince chiaramente che staccata dalla sua natura essenziale, ne risulta sterilizzata, e i suoi istinti e i suoi cicli naturali di vita sono persi, soggiogati dalla cultura, dall’intelletto proprio e altrui.
La giovane leonessa imparò a parlare, a muoversi, a sorridere. Imparò a vestirsi, ad arrossire, persino a meditare, col mento poggiato su una zampa. Imparò tutto quanto può e deve imparare una bella adolescente. E, soprattutto, imparò la divina arte del canto.[…] Tra i cittadini si diffuse, a poco a poco, una certa perplessità. Alla leonessa si riconosceva senz’altro una sublime inclinazione al canto; ma da lei ci si aspettava qualcosa di diverso: non tanto il lirismo, l’espressività poetica, quanto la semplicità selvatica, il grido di libertà; tutto quello, insomma, che l’animo umano aveva ormai smarrito.
Nel cantare ruggisce creando malcontento nel popolo. Il risultato sarà il suo allontanamento
La povera creatura fu accompagnata alle porte della città. Più volte cadde in ginocchio, implorando misericordia. Era già calata la notte. Camminò come un automa, addentrandosi nel deserto, finché il vento caldo, che soffiava nell’oscurità scompigliandole la chioma, le fece aprire gli occhi. Le sue narici si dilatarono, per inalare quell’alito agreste. Si fermò e, rivolta verso la città, iniziò a svestirsi.
Si riappropria così del suo istinto, del suo habitat, dopo essere stata snaturata in una città che ha creduto di poter restituire alla razza in declino il perduto istinto originario, [..] solo per introdurre in città al fine di educarlo, un animale che servisse loro da esempio vivente: un leone.
Un elemento aggiuntivo che lega gran parte dei racconti è la fascinazione delle prime immagini in movimento. Il cinematografo appena nato. La settima arte. L’illusione del movimento. La finzione della vita nella proiezione di un fascio di luce. Il condizionamento della vita ad opera di qualcosa che non esiste. Una sfinge edipica che scompare nell’istante in cui sta per essere acciuffata.
La sfinge, simbolo connesso alla morte, al passaggio verso l’al di là, ha qualcosa di feroce, offre la sensazione del vuoto, guardando in una direzione che non appartiene allo spazio. Una specie di mostro terribile, più crudele che enigmatico, nel quale si può facilmente vedere il simbolo della femminilità perversa e pericolosa. Incarna probabilmente l’atteggiamento del dio che si oppone all’acquisizione della conoscenza da parte dell’umanità perché in grado di minare la divina supremazia.
L’immagine evanescente così come la sfinge rimandano alla necessità, da parte di chi ha la vocazione alla conoscenza, di imparare a reggere la frustrazione, a saper abbandonare il già conosciuto. E così ha fatto Quiroga abbandonando il mondo, scegliendo di vivere isolato in una foresta. Rendendosi incorporeo come i suoi personaggi familiari, consueti eppure irreali, tragicamente insondabili, forse incomprensibili. Inattivi. Puro intelletto. Cerebrali. Senza corpo fisico. Ombre. Fantasmi. Sì fantasmi che infestano le pagine della raccolta come immagini sfocate e proiettate in una dimensione terza, come nel racconto Il puritano
Le nostre immagini fotografiche, impresse sulla pellicola, animate dal flusso luminoso e incessantemente riprodotte sugli schermi delle sale di proiezione, ci negano la pace che pure meriteremmo. Siamo morti, è vero, ma una seconda vita, spettrale, incorporea, attenua il gelo delle nostre ossa. Vaghiamo nel silenzio della hall, al chiaro di luna, senza più ansie, passioni, ricordi: mossi soltanto da un vago stupore. E se la penombra non desse alla sala un aspetto d’ambiente quasi domestico, dove i fantasmi di ciò che fummo si fingono ancora vivi, potremmo sembrare anche dei sonnambuli. Le star che ci sopravvivono […] sono, con i film in cui esse ancora si agitano, l’unico argomento delle nostre conversazioni notturne. Il nostro vero passato – di gioie e dolori – ci è precluso.