Tre fogli d’album | per pianoforte a quattro mani
Claudio Morandini
I – Con moto
Per consolarci, saliamo talvolta le scale fino all’ultimo piano, e scherzando ci diciamo che non è tanto diverso dal salire in montagna, a parte le puzze. L’alta montagna ha puzze sue, che non assomigliano a quelle delle scale di un condominio: ci sono gli odori dei fiori d’alta quota, che devono attirare i pochi insetti con colori intensi e sentori penetranti, ci sono le pallottole di sterco degli animali, gli effluvi delle carcasse, l’odore delle rocce, quello del putridume che contorna i laghetti d’estate; nei condomini montano da tutti i piani gli odori di cucina e di camera chiusa, di letti e di gabinetti non aerati, mescolati con i deodoranti artificiali, i detergenti chimici, le passate di aceto. Comunque, puzze a parte, quasi ci riesce, di sentirci in montagna salendo fino all’ultimo dei dodici piani, che non sarà molto, ma insomma.
Oggi, giunti fin là, ci spingiamo oltre: tiriamo giù la scala e montiamo nel soffitto, caldo e polveroso, vuoto, a parte dei sacchi di cemento o calce abbandonati mezzi aperti e due secchi lasciati lì forse per raccogliere lo sgocciolio dell’acqua piovana dal tetto. Siamo curvi e soddisfatti, anche se inspirare quell’aria non ci fa sentire bene.
“Saliamo ancora”: me lo dici spesso, è una delle tue frasi preferite, di recente, che ci troviamo all’aperto o al chiuso – ma dell’aperto coltivo ricordi vaghi, come tutti, immagino.
“Sul tetto, proprio?” chiedo.
Tu annuisci.
Non vorrei, perché soffro di vertigini: ma apriamo il velux e siamo fuori, sulle lastre di ardesia, calde, secche, picchettate di sterco di gatto. Mi chiedi come va, come sto: rispondo che è una meraviglia, e per essere più convincente saltello sulle lose*, mentre la vertigine mi torce i testicoli, con rispetto parlando. Ora mi indichi due persone che sul tetto di un altro edificio siedono scrutando lontano. Quando si accorgono di noi ci salutano con una certa flemma; rispondiamo al loro gesto con un gesto analogo, appena più convinto.
“Li raggiungiamo, almeno ci avviciniamo?” domandi.
“Non credo che lo vogliano,” dico, “e poi è pericoloso”.
“Non esagerare”.
“Vedi? Nemmeno ci guardano più”.
Ci stanno ignorando, in effetti, restano seduti e osservano rigidamente davanti a sé. Proviamo a seguire il loro sguardo: e scopriamo che stanno fissando altre figure umane appollaiate su tetti più lontani, sole o in piccoli gruppi. Alcune si proteggono il capo con un ombrello, altre sono stese a riposare, a prendere il sole, o si appoggiano ai comignoli e fanno gesti che da qui sono incomprensibili.
“Sembra stiano sui tetti da molto tempo,” constati con una sorta di ammirazione, “guardali, come sono disinvolti”.
II – Andantino rapsodico
Da un po’ di tempo, i ragni in casa nostra sono i benvenuti. Lasciamo che erigano le loro architetture negli angoli, sulle finestre, nelle fessure. Quando facciamo pulizie (ogni tanto capita) stiamo attenti entrambi a non toccare le ragnatele, anzi ci soffermiamo ad ammirarne gli sviluppi. Di notte, a volte, uno di loro si cala sulla mia faccia, o sulla tua, mentre dormiamo. Appeso a un filo sottilissimo, scende, si posa, ed è subito via, tra le pieghe del cuscino o del lenzuolo. Lo sento appena – e chissà quante volte lui e gli altri ci zampettano sulla pelle così discretamente che nemmeno ce ne accorgiamo.
“Va’, va’,” gli borbotto mentre si allontana. “Buona caccia, e tante belle cose”.
Tu nemmeno ti svegli, quando accade a te.
Non credo che catturino prede sorprendenti, da noi: giusto qualche moscerino, qualche zanzara. Temo che le mosche più grandi e forti, quelle che entrano in casa dalle montagne, si sappiano liberare senza sforzo dall’appiccicume delle ragnatele. Una volta ne ho vista una levarsi in volo appena un po’ stordita e forse stizzita, con un lungo filamento oscillante attaccato all’addome. Nel suo angolino nascosto, il ragno già si adoperava a riparare lo squarcio, correndo su e giù lungo i fili rimasti integri, e tu intanto provavi a incoraggiarlo.
Sul balconcino altre presenze ci tengono compagnia. Per esempio certi muschi verdognoli che si sono formati tra una piastrella e l’altra, e, più di recente, alcuni fili di erba che hanno forzato una crepa sottilissima sul muro e si sono rinforzati fino a formare un ciuffo protervo. Aspettiamo di vedervi fiorire qualcosa, prima o poi – niente di che, giusto quei modesti fiorellini azzurri o rosa che in un prato non si farebbero nemmeno notare. Tu, più metodica di me, hai preso l’abitudine di spruzzare qualche goccia di acqua su quell’erba, che pare gradisca.
Dai piani sottostanti, e dal giardino trasandato che circonda il palazzo, salgono le formiche. Sono così piccole che da sole passerebbero inosservate, puoi scorgerle solo se si muovono in gruppo, se formano file, e allora, come si dice della Grande Muraglia cinese dallo spazio, ecco che diventano visibili. Le vedo dirigersi fino alla cucina, le seguo mentre salgono da un ripiano all’altro e puntano alla mensola delle farine e dei corn flakes. Non c’è bisogno che la portina sia aperta: passano sotto, e senza sforzo, senza nemmeno rallentare o assembrarsi. Una fila entra, l’altra parallela e contigua esce. Una volta all’interno, ripuliscono dalle briciole, dai detriti, dagli avanzi, cosa di cui siamo entrambi grati. Quando entrano nei barattoli di zucchero o farina si muovono con discrezione: non lasciano tracce, non sporcano mai.
“Ma gli farà bene lo zucchero?” ti chiedi tu. “E il cacao, non è difficile da digerire per molte specie?”
Dovremmo informarci, in effetti, per evitare che stiano male, o che facciano star male le loro larve, che non ho mai avuto il piacere di vedere, perché sono ben nascoste nelle aiole del cortile.
Io, di mio, spero almeno che le formiche abbiano l’accortezza di tenersi lontane dalle zone presidiate dai ragni – vorrei continuare ad avere buoni rapporti con entrambi gli artropodi, e spero di non dover mai gestire una crisi diplomatica.
III – Rondò, più o meno
In principio, ci siamo detti: che bellezza, che pacchia, facciamo di questa reclusione una condizione privilegiata, del silenzio nuovo che ci avvolge una camera iperbarica! Ascoltiamo finalmente tutto il Bartók notturno, assaporiamo i ppp di Webern senza bisogno di alzare il volume dello stereo, tratteniamo il fiato rapiti dinanzi all’edificazione nel tempo della prodigiosa architettura della Symphonie de Psaumes, ascoltiamo tutto l’Hindemith operista, tutto Messiaen, tutto il Britten corale, recuperiamo, che so, tutto Magnard, diamo finalmente una chance a Richard Strauss, che ci ha sempre fatto sbuffare, poveretto, o a Mahler, che ci ha spesso fatto arrossire!
Pronti, via. Estraiamo dalle confezioni i cd, impiliamo i vinili, studiamo dove spostare le poltrone, in quale punto del soggiorno collocarci rispetto alle casse acustiche, recuperiamo da certi scaffali le partiture di alcune opere, o i libretti, ci accomodiamo, lasciamo che il respiro torni regolare.
Facciamo partire il primo cd: inizia, enigmatico, lo Stabat mater di Szymanowski, i timbri dei legni formano spirali nell’aria, si deposita subito la lieve nebbia degli archi…
Da fuori, dalla finestra chiusa, mentre il soprano e il coro salmodiano, giunge il verso di un gatto. O un bambino che piange? O un corvo melenso? Tu metti in pausa Szymanowski, per ascoltare meglio. Un bambino. No, aspetta: un gatto. Un gatto che imita un bambino. O viceversa. O – aspetta, senti bene – un corvo che imita un bambino che imita un gatto – lo sanno tutti, i corvi sono diabolicamente intelligenti.
Apriamo la finestra, ci affacciamo, restiamo in attesa. Temiamo per un attimo che sia solo la suoneria di un cellulare. No, quella voce è viva, organica, non meccanica. Rispetta una sequenza di suoni di diversa altezza, abbastanza regolare ma mai del tutto uguale a se stessa, noti tu, che hai studiato musica più metodicamente di me. È un bambino che frigna. È un gatto che frigna come un bambino – e magari si prende gioco di lui, ne fa la caricatura, lo parodia con quella certa crudeltà neghittosa che i felini mettono sempre in ciò che fanno. È un corvo che si prende gioco di entrambi, dall’alto di un ramo, invisibile. Lo cerchiamo con lo sguardo, ovunque, invano.
Szymanowski riprende – da capo, naturalmente, perché ogni interruzione è un affronto, è come un errore, o un peccato, e bisogna espiare.
Ma dopo un poco, altri suoni da fuori, altri versi, o voci. Decidiamo di non muoverci, stavolta: proviamo a immaginare questi suoni nuovi come fossero previsti della partitura, e in certi momenti sembrano davvero generarsi dalla scrittura di Szymanowski, adagiarsi nel suo tessuto armonico con naturalezza – in altri momenti no, sono come graffi sui solchi di un disco, stridono come gessetti nuovi su una lavagna (tu ti sbizzarrisci in altre similitudini che non trascrivo).
Basta Szymanowski, torniamo alla finestra. Tutto tace ora. Ma l’aria calda che ci solletica la faccia ha come un suono, e questo suono è in realtà un odore, un odore nuovo, aperto, giallo. Chiudiamo gli occhi.
* tegole in pietra in uso in Val d’Aosta.
Claudio Morandini è nato nel 1960 ad Aosta, dove vive e insegna. Tra i suoi ultimi romanzi, Le Maschere di Pocacosa (Salani) e Gli oscillanti (Bompiani). È tradotto in diverse lingue.
editing a cura di Antonio Russo De Vivo
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