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Il geco bianco

Racconto di Alfredo Palomba


«Oggi è il giorno della caccia, Colonnello.»
«Nulla ci spaventa, nulla ci distrugge, signore.»
«Nulla ci spaventa, nulla ci distrugge. Così sia.»
«Amen, signore.»
Pronunciano la preghiera della caccia sulla porta di casa del Colonnello, uno di fronte all’altro, scambiandosi il saluto militare alla fine, poi si lasciano la porta chiusa alle spalle e si incamminano verso il campo di fave. Guardano dritto davanti a loro. Nessuno dei due sorride.
«Ha la pistola, Colonnello?», dice il Generale, fermandosi di colpo e guardando severamente il suo sottoposto.
«Sissignore, signor Generale. È qui.»
«Me la mostri.»
«Sissignore.»
Il Colonnello tira fuori l’arma dalla tasca gonfia del pantaloncino con una fantasia hawaiana, da cui sbucava già l’impugnatura nera, e la porge al Generale.
«Me la descriva.»
«Beretta, modello 92 Elite II, CO2, colore nero.»
«Continui.»
«Calibro 4,5, capacità caricatore 19 pallini.»
«Munizioni.»
«Sissignore, munizioni. Lunghezza totale 215 millimetri. Lunghezza canne 130 millimetri.»
«Eccellente. Che altro?»
«Spessore totale 40 millimetri. Altezza totale 138.»
«138 cosa, Colonnello?»
«Millimetri, signore.»
«Peso?»
«Peso 686 grammi.»
«Decisamente una bella arma, Colonnello.»
«Sissignore, decisamente.»
«Ha con sé le munizioni?»
«Signorsì.»
Dall’altra tasca il Colonnello tira fuori un sacchetto trasparente che contiene palline gialle di plastica di circa cinque millimetri di diametro.
«Eccellente. Muoviamoci, Colonnello. La battaglia attende.»
«Signorsì.»
Camminano lungo il viale di acciottolato, fianco a fianco, impugnando le Beretta ad aria compressa. Sono diretti al campo di fave distante solo poche centinaia di metri, si guardano intorno con circospezione e procedono cauti, misurando ogni passo. Il sole delle undici di mattina e il frinito rassicurante, consueto delle cicale nascoste negli alberi di nocciola annunciano l’inizio della loro dodicesima estate.
Il campo di fave è una distesa di cui a stento si vede la fine. Lontane, in un orizzonte sfocato dalla luce che crolla quasi perpendicolarmente sulla contrada, reti metalliche lo separano da un altro campo, ancora un noccioleto. Entrano nella distesa, facendosi largo tra le piante alte un metro e cariche di baccelli maturi, come se camminassero in un mare basso. L’area a ovest del campo è costituita da una serie di serre, quella a est è delimitata da un muro con ringhiera che costeggia la coltivazione fino alle reti divisorie in fondo, separandola da alcune villette ancora più a destra. Nei pressi del muro, sopra di esso o nelle crepe della pietra grezza si annidano le lucertole, attirate lì dal calore dei blocchi di tufo.
«Vada in fondo, Colonnello. Io comincio il rastrellamento da qui. Tutte quelle che trova. Kaputt. Ci incontreremo a mezzogiorno a metà muretto e faremo il conto delle vittime. Vince chi totalizza più punti.»
«Signorsì. Signore, se vedessi una biscia?»
«Le bisce valgono due. Le lucertole, uno.»
«Ricevuto. Buona fortuna, signore.»
«Buona caccia a lei, Colonnello.»
Il Colonnello fa il saluto militare e comincia a correre verso le reti divisorie, lasciandosi dietro un disordinato sentiero di piante e fave calpestate. Alcuni frutti schiacciati vengono sbalzati fuori dai baccelli e mostrano la polpa, come altrettanti soldati sventrati dopo l’arrivo di cingolati nemici o dopo un raid aereo. Il Generale si guarda intorno, annusa l’aria calda come un predatore, soppesa nella mano sudaticcia la Beretta, stringendo e allentando la presa intorno all’impugnatura di gomma e plastica. Si scosta il ciuffo umido dalla fronte, inizia a perlustrare il muro.
Ci vuole qualche minuto di attenta e scrupolosa osservazione perché la prima sia individuata. È una lucertola snella, giovane, ancorata alla pietra con gli artigli. Assorbe, semiaddormentata, i raggi di sole della tarda mattinata e il calore che emana dal tufo e non si accorge del Generale che le si para dietro. Un solo colpo sparato a distanza ravvicinata le si conficca a metà del dorso verde-bruno e la fa cadere a terra, pancia all’aria. Si esibisce in pochi movimenti elettrici e già involontari di zampe, testa e coda e poi resta inerte, all’ombra di una pianta. Il Generale la raccoglie tenendola per la coda e la posiziona sul muretto, lo sguardo stralunato e iniettato di sangue rivolto verso di lui e verso il campo, come un piccolo dinosauro di plastica. Ha un avvallamento nella schiena, corrispondente al punto in cui le zampe anteriori si congiungono al dorso: il pallino giallo è entrato lì, sfondando la colonna vertebrale e il cuore.
Ne seguono altre cinque, tutte più o meno facili, da uno a tre colpi ciascuna. A parte l’ultima, una lucertola piccolissima e velocissima, un cucciolo, che riesce quasi a sfuggirgli infilandosi nella crepa tra due blocchi di tufo. Salvo poi non sentirsi al sicuro e, quando il Generale ha ormai rinunciato a giustiziarla, uscire e tentare una nuova fuga. Un colpo sparato a bruciapelo le trancia di netto la coda minuscola e lucertola e coda cadono sul terreno del campo. La seconda si dibatte a terra come un’anguilla, la prima continua a scappare sul terreno, disperata, in linea retta, senza nemmeno più cercare un nascondiglio. Il Generale la insegue per pochi metri e prova a schiacciarla con la scarpa da tennis. Il terzo tentativo è quello buono. Solleva il piede e la lucertolina è spiaccicata nell’orma della Converse, a pancia in su, sconvolta dai movimenti involontari che le fanno contorcere il corpo allungato e muovere le zampe. Ha gli occhi spalancati e dalla bocca di rettile esce fuori della roba rosa. Il Generale prende tra due dita il corpicino mozzato e schiacciato che ancora trema per gli ultimi spasmi nervosi e lo posiziona accanto agli altri. Si chiede quante ne avrà seccate il Colonnello. Sente gli spari del sottoposto, in lontananza, lo vede muoversi disordinatamente tra le fave e tornare verso il muro. Gli sembra di riconoscere una bestemmia ma non ne è sicuro, forse il Colonnello sta esultando, magari ha freddato una biscia.
Ricomincia la perlustrazione e il geco è lì, enorme, il più grande che il Generale abbia mai visto. Sulla pelle si notano appena alcune sottilissime striature gialle, per il resto il corpo è completamente bianco. Al cacciatore fa venire in mente la riproduzione di un quadro nel soggiorno di casa sua, un paesaggio invernale di Lucien Pissarro. Nel dipinto c’è una piccola figura al centro di un viale innevato, ai cui lati si possono vedere poche case basse, coi tetti spioventi ricoperti di neve. La scena rappresentata è quasi del tutto bianca, a parte poche note di colori bruni. L’omino procede verso la fine del viale e il gelo dev’essere davvero terribile – da dietro un grosso albero il sole spunta pallidissimo, incapace di riscaldare – ma il Generale ha sempre provato uno strano conforto, guardandolo. L’omino gli ricorda suo padre, che non c’è più da quando lui era piccolo. È ritratto di spalle, tutto imbacuccato. È come andare a trovarlo, ogni volta che si ferma di fronte alla scena e ne contempla i colori freddi e la piccola figura umana. È come farlo tornare indietro.
L’insistenza del sole gli sembra ora meno ostile e il sudore che gli scorre sulla faccia e gli inumidisce i vestiti leggeri non è più un fastidio, non è più niente. Il Generale non riesce a smettere di guardare l’animale ma non muove un passo; se ne resta immobile, lo fissa. Ucciderlo è un pensiero inammissibile. Non può essere una preda, se anche gli piantasse una pallottola nel corpo non sarebbe mai una preda, mai, mai una preda.
Il geco è accanto alle sei lucertole morte e a sua volta guarda il ragazzino con gli occhi a palla. Il Generale sente che ha qualcosa da dirgli, che è lì per un motivo. Si guarda le mani: sull’indice destro nota il piccolo schizzo di sangue di una delle sue vittime. Comincia a comprendere, prova vergogna per se stesso. Il grande sauro bianco apre impercettibilmente la bocca, sembra voglia emettere un verso, al ragazzino viene davvero il dubbio che stia per parlargli.
«Mio!» esclama il Colonnello e, un attimo dopo, il sangue zampilla dalla testa del geco, macchiando di rosso il corpo immacolato dell’animale e il muretto. Il Colonnello, avvicinatosi senza farsi sentire, gli ha appena sparato un colpo nel cranio; il pallino giallo vi si è conficcato per metà, mentre il resto della sfera spunta dalla calotta massacrata come un sole che tramonta o sorge dietro a colline innevate. Il geco è fermo come una statua di sale e gli occhi ora ciechi e coperti di sangue continuano a rivolgersi al Generale, con un’espressione che sembra rassegnata ma allo stesso tempo salda, caparbia. Anche adesso, che dalla testa gli sgorga questa grottesca fontanella rossa, anche adesso che forse è diventato una preda, sembra profondamente saggio.
«Questa vale almeno dieci punti, signore! Non ne ho mai vista una così!» dice il Colonnello e saltella eccitato, schiacciando qualche fava, «Mi dispiace di avergliela soffiata, signore, ma la guerra è guerra!»
Il Generale non lo sente nemmeno. Guarda la Beretta ancora stretta nel pugno. Il sole è di nuovo al centro del cielo e irradia il suo calore insopportabile. La pistola sembra scottargli in mano. La getta via, nel campo: l’arma disegna una parabola nel cielo illuminato e si immerge tra le piante, qualche decina di metri più in là. Il Generale si volta e comincia a camminare.
«Non se la prenda, signore» gli dice il Colonnello, seguendolo, «magari riesce a recuperare!»
Il Generale non risponde, continuando a procedere verso la strada. Sente il bisogno di chiudersi in casa davanti al quadro. Vuole andare lontano per un po’, pensare a suo padre che arranca nella neve, alle parole che non hanno mai potuto dirsi.


Alfredo Palombia
Classe 1985, è dottore di ricerca in Letterature Comparate. Ha svolto gli studi presso le Università degli studi di Napoli “Federico II” e “L’Orientale”. Ha preso parte ai volumi
Delle coincidenze. Opificio di letteratura reale/1 (Ad est dell’equatore, 2012/2015), Le attese. Opificio di letteratura reale/2 (Ad est dell’equatore, 2015) e ad altre pubblicazioni collettanee. Ha curato l’editing della raccolta di racconti Ho fatto un sogno (Jota, 2013). Un suo racconto, Laminatempo, è stato selezionato e pubblicato nell’antologia Una cosa che comincia per elle (Bookmark Literary, 2016). Suoi articoli, saggi e racconti sono presenti in antologie e su siti di approfondimento culturale e letterario, tra cui “Between”, “Nazione Indiana”, “Satisfiction”, “Crapula Club”, “Il Pickwick”, “Midnight”, “ZEST Letteratura sostenibile”.
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