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Con il romanzo Sfida all’OK Dakar  (Neo. Edizioni), a qualche anno dal romanzo di successo Gobbi come i Pirenei, l’autore Toscano Otello Marcacci, torna a raccontarci la storia di Eugenio Bollini, rispondendo tanto alle richieste di un sequel di quanti hanno amato il personaggio nella prima edizione, quanto al desiderio di consentire, attraverso questa nuova storia, un maggiore respiro alla retro lettura umana ed esistenziale che deriva dalle vicende del protagonista.

Prima ancora di conoscere per brevi tratti i contenuti di questo nuovo lavoro, pongo ad incipit alcune domande, come chiavi interpretative del romanzo stesso.

Quali sono i conti che paghiamo con il destino, per una vita serena e colma di affetto e soddisfazione. Quanto questa contabilità in partita doppia della vita può risultare almeno in pari, dopo aver provato e accettato tutto il dolore possibile?

Trovare formule di evitamento ed esclusione ci consente di maturare l’idea che il dolore si possa stemperare con una buona dose di inoperosa indifferenza dell’anima.

Per alcune persone, invece “pedalare” sulle strade della vita, portandosi nella borsa ironia, una certa sporcatura delle tinte agiate del vivere quotidiano e la messa in discussione delle verità apodittiche, è il solo modo per convertirsi ad una religione di strada che ha due regole, sfidare e guardare i propri demoni.
Ecco, pensiamo allora che la vita possa metterci più volte su tracciati irti di difficoltà ma anche di opportunità. Il confronto dialettico con essa è la possibilità che abbiamo di giocarci la partita senza pensare che si debba vincere per evidente superiorità.

Eugenio Bollini ci insegna che da un’attitudine alla non straordinarietà, inaccettabile per l’ansia di successo della società moderna, si può trovare a fatica l’equilibrio nell’essere eccellentemente normali. E come? In un solo modo: percorrendo le strade della conoscenza di noi stessi.

Ma veniamo alla breve sintesi della storia:

Eugenio Bollini è un ex corridore ciclista, idolo locale per aver partecipato al Tour de France, al momento impegnato senza troppo entusiasmo nell’impresa famigliare, una Country House in provincia di Lucca ricavata da un cascinale di proprietà della moglie Isabella. Pochi stimoli sul lavoro, un feeling ai minimi termini con Isabella, un’apatia latente che rischia di sfociare nella depressione, Eugenio trova quasi esclusivamente nella figlia Viola, che frequenta la scuola elementare, motivi di soddisfazione e orgoglio paterno. Una situazione psichica al limite, resa ancora più preoccupante dall’insonnia, che convince Eugenio, su sollecitazione della moglie, a frequentare un gruppo di sostegno mentale, l’Anonima Depressi. Si ritroverà in uno stanzone della ASL insieme al dottor Benenati e ad un gruppo eterogeneo di uomini e donne più o meno nevrotici, ribattezzati per l’occasione con strabilianti nomi di fantasia per celarne l’identità: fra gli altri Spider Pork, Mototopo, Riccio in Letargo, Cavallina Azzoppata, Acquafresh.

Questa manica di pazzi” colorati e incredibilmente sui generis da essere paradossalmente uno spaccato autentico dell’umana follia, e che troveremo accanto a Eugenio lungo tutta la storia, prende le funzioni non solo di una coscienza polifonica di coro greco che accompagna l’intera vicenda, ma anche di deus ex machina che si erge a ingegno risolutorio, nei momenti di snodo critico delle difficoltà in cui il protagonista si trova. La partecipazione alle sedute semi-serie dell’Anonima Depressi, rappresentano una prova di Marcacci di grande livello estetico e letterario. La messa in scena delle perversioni, psicosi e falle della mente di uomini e donne, che nella vita ricoprono ruoli di normale rispettabilità, e che hanno la sola possibilità di far da controcanto compensatorio alla realtà quando si trovano riunite nello stesso luogo e tempo, è un espediente che mi ha portato alla memoria  situazioni e personaggi de L’Ispettore Generale di Gogol’.

Ma se l’esistenza di Eugenio attraversa un periodo complicato, ciò che il futuro prossimo gli riserva è qualcosa di inatteso e a lui inimmaginabile. Prima di tutto le preoccupazioni causategli dal primogenito Lapo, studente scapestrato a Pisa, poi i guai giudiziari in cui si ritrova a causa del Duca, e per finire l’apparizione imprevista del ciclista spagnolo Mantegna, capitano di Eugenio ai tempi del Tour, deciso a convincere il suo vecchio gregario a rimettersi in sella per gareggiare fianco a fianco in una mirabolante Parigi-Dakar ciclistica. In ballo c’è una montagna di soldi per chi sarà in grado di portare a termine l’impresa, ed Eugenio, pressato dai debiti e in cerca di riscatto, decide dopo molti tentennamenti di rimettersi in gioco e iscriversi alla corsa. Ma non sarà una competizione qualunque. Sulle piste del deserto, a pochi metri dal traguardo, Eugenio ritroverà l’autostima e l’orgoglio perduto ma anche l’ennesima sfida (la più difficile) da superare.

I personaggi di questo romanzo (dell’Anonima depressi si è già detto) valgono da soli, degli encomi per la caratterizzazione. Uno per tutti il Duca, un nostalgico del ventennio totalmente in balia del testosterone, che per linguaggio e modi incarna l’uomo scomposto tanto dalla volgarità quanto da un’inafferrabile distonia esistenziale che lo rende un “coatto” e grottesco personaggio trasversale ad ogni epoca. Anche costui come gli amici dell’Anonima sono il fil rouge, ovvero la tela strutturale a tutta la narrazione che crea, oltre il narrato, un’impronta ironica – marchio di fabbrica di Marcacci – che si tira dietro anche il tratto malinconico, e tragico.

“Sfida all’OK Dakar” è un caleidoscopio di situazioni dolorose e divertenti, tenute assieme dalla passione, dalla voglia di lottare e dal potente aggregante della comicità.

Dell’ironia Marcacci fa un uso sapiente, picaresco a volte, altre segnale di un intimo ripiegamento dell’io nei propri abissi.

Ed è la malinconia il sentimento spesso richiamato:

“… mi venne da pensare che l’unica grande legge che regola l’universo sia la malinconia. Una sorta di nostalgia per ciò che si è perduto. Saudade direbbero i portoghesi, o meglio ancora l’appocundria napoletana […]. O forse, chissà, abbiamo solo bisogno di pentirci di tutti gli errori compiuti, cercando conferme per le cose giuste fatte e sentirci, così, la coscienza a posto.”

E questo ritmo sinusale di sottofondo che a tratti assomiglia al lamento di tristezza a tratti al riso, si dipana in un meccanismo proustiano, per cui la malinconia è uno stato necessario alla ricerca interiore. Lo stesso testo suggerisce nella sua impostazione (Io tesi, antitesi e sintesi) l’idea di percorso di ricerca, un ciclo personale evolutivo che trova nei fatti raccontati (la gara oltre ogni limite, in tarda età per la quale probabilmente non è nemmeno così ben allenato) solo il pretesto narrativo.

Nella vicenda si alternano le voci, i caratteri (odiosi, gradevoli o funambolici) di un’umanità smarrita, che si lascia andare definitivamente o cerca con convinzione occasioni di riscatto. Eugenio Bollini, personaggio tratteggiato con sensibilità, sta in quest’ultima parte di mondo. Nonostante gli errori, le bastonate della vita e le circostanze sfavorevoli conserva gli anticorpi del vincente, accetta una sfida più grande di lui e la porta a termine superando paure e ostacoli assortiti.
In uno sport e in un mondo dopato, il vecchio ciclista espone nel deserto africano la sua credibilità per qualcosa che non ha prezzo: la famiglia, l’amore per i propri figli, l’onestà.

La potenza di questo romanzo sta nell’equilibrio ben portato tra sospensioni dell’incredulità e fotografie nitide di una realtà dolorosa, che chiama all’appello le difficoltà della vita tutte, la morte, la crisi, il disfacimento dei rapporti d’amore e i costumi di una società alla deriva.

Eugenio Bollini è un antieroe di cui è possibile vedere le forme dell’anima, di sentire l’affanno mentre corre e di avvertire le lacrime di un pianto nascosto.

Un libro da tenere con sé anche dopo la lettura e ogni tanto riprendere per stemperare lo spleen magari chiedendo a Bollini, se ha voglia di accompagnarci in una pedalata lungo il fiume, e fare due chiacchiere su come crescono i nostri figli mentre accarezziamo i sogni.

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Sfida all’OK Dakar: Eugenio Bollini l’antieroe che tocca l’anima

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