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Rubrica 2078 Fifth avenue
La rubrica prende il nome dalla strada in cui vissero i fratelli Collyer noti per aver accumulato un notevole quantitativo di oggetti, tra cui libri e giornali, è un pretesto narrandi per immaginare di avervi trovato libri di autori, che sebbene lontani nella memoria, hanno fortemente contribuito alla letteratura nazionale e poterne raccontare ancora.

a cura di Davide Morganti


Quando la pioggia batte contro i vetri mi viene da ridere, ho il solletico su tutto il corpo e mi gratto, un vero tormento; anche ieri pioveva, anche ieri ho cercato qualcosa con cui scorticare la schiena e per farlo ho trovato il volume “Le notti di Mosca, riposa in pace caro compagno” di Pietro Antonio Zveteremich, grande traduttore dal russo che nel 1971 sotto lo pseudonimo di Vlas Tenin pubblicò questo porno-politico-romanzo provocando l’ira dei sovietici che lo considerarono una menzogna contro l’Urss; il libro era infatti scritto in russo e tutti per molti anni credettero che a scriverlo fosse stato un dissidente. Zveteremich, che poi lo trascrisse in italiano, aveva voluto ritrarre la corruzione del sistema di Brežnev, l’orrore di quei giorni grigi come la cenere, tristi; non era un bel luogo la Russia, c’era sporco ovunque, la gente camminava per le strade in cui, anche con il sole, pareva di sprofondare quasi ci fosse il fango, tanto fango che impediva i movimenti. Non è comunque un libro memorabile, lo stile appare affannoso e poco curato, però ha guizzi meravigliosi quando narra di una sgangherata banda che organizza funerali nei cimiteri per gli uomini illustri del sistema sovietico, andando a titillare la vanità di politici di nessuna qualità.

“Voi, Gleb Vjačeslavovič, disse Marina, spesso parlate dei russi, della Russia, come di qualcosa di speciale. Perché? Questo considerarci speciali non è un paravento per ogni mediocrità, stupidità, mostruosità? Giustifica nello stesso tempo lo zarismo, la rivoluzione, lo stalinismo, Chruščëv, l’ottuso despotismo dell’attuale direzione la nostra passività. Forse c’è anche una verità in questo, ma il suo odore è cattivo in tutti i sensi”.

Non piove più, ma dalle grondaie l’acqua cade ancora, che fastidio, per fortuna da qualche parte ci sono pile di libri che stanno crollando e il loro rumore copre tutto. Comincio a odiare i libri, i libri non servono a nulla, hanno solo reso l’uomo un infelice; chissà le loro pagine quante parole contengono: miliardi miliardi e miliardi che mi fanno sentire un minuscolo, insignificante archivista. C’è molto erotismo nel romanzo di Zveteremich, è la parte più debole, vuole essere sensuale, provocatoria ma, come spesso succede al sesso, è solo noioso; il meglio il critico nato a Colonia nel 1922 lo dà quando descrive i papaveri del regime sovietico di fronte alla loro futura morte gloriosa da rendere pubblica con un funerale di Stato finto come l’Urss, che già negli anni Settanta si stava sgretolando mentre le bandiere con la falce e il martello sventolavano in tutta Europa.

“No, bastonate e ceppi; il potere, sia zarista o sovietico, che si immischia in tutto e frena e rovina tutto, pauroso in primo luogo della stessa sua gente. E soffoca i nostri e fa vivere tutta la Russia in un regime da colonia militare. Il soldato non può pensare ad alta voce, non può dire ciò che pensa, ahi se pensa!”.

Non ricordo quasi più nulla di quel periodo, sono chiuso da così tanti anni da aver smesso di contare il tempo, che forse fuori non ho mai realmente vissuto. Zveteremich consegnò a Feltrinelli Il dottor Živago di Pasternak, dicendogli di pubblicarlo perché era un capolavoro ma il mondo non sa più nulla di questo studioso italiano. Pasternak, forse, gli fece venire voglia di scrivere un romanzo, anche se in Italia non legge nessuno e nessuno se ne accorse. “E loro [i marescialli] invece avevano bisogno che il Cosmo, la cui infinità è inimmaginabile per le loro anguste fronti (manca ormai l’aiuto divino), fosse costellato da bandiere rosse”. Sarei voluto andare ai funerali di questo intellettuale comunista che, per sicurezza di esser sepolto, è morto nel 1992 a Roma, tre anni dopo la caduta del muro di Berlino, deciso a non fare la fine di un qualunque compagno russo. “Così quando muore un cittadino sovietico, specialmente a Mosca e nelle grandi città, non tanto o per lo meno non solo da questo incidente sono angustiati i suoi parenti e amici quanto dalle terribili prove che essi dovranno affrontare affinché la salma possa lasciare la casa o l’ospedale e trovare degno asilo in una tomba o in un colombario. Si tratta di un’impresa che, per le fatiche e la difficoltà che presenta, regge il paragone soltanto con l’impresa di procurarsi un alloggio singolo d’un paio di stanze”. Purtroppo nel 1992 ero già qui, a catalogare l’infinito.

 

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Vintage: ricordo di Pietro Antonio Zveteremich

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