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foto di Enzo Eric Toccaceli

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Intervista di Alessandro Canzian a Rosaria Lo Russo

Come definiresti la Poesia? A cosa serve?

La poesia storicamente è sia un’azione teatrale che una forma letteraria: impossibile quindi darne una definizione valida per tutti perché si tende ancora a distinguere come vicendevolmente escludentesi queste caratteristiche, che invece connotano entrambe e insieme il fatto poetico: non esiste poesia performativa vs poesia lineare; la poesia esiste e consiste in queste due epifanie storiche contemporaneamente. La poesia si fa all’incrocio fra la parola come voce e la parola come linguaggio. Di sicuro una bella poesia è tale perché ha ritmo: all’incrocio fra suono, ritmo e contenuti letterari la poesia si fa. Chi sente la poesia, chi la fa, o scrivendo o dicendola ad alta voce, sa che si tratta di un fenomeno di intenzione, intonazione e ritmo: ogni fonema, ogni sillaba ha lo stesso valore del significato espresso, perché vi allude, continuamente. Il ritmo poetico intonato favorisce, come voleva Aristotele molti secoli fa e come vale tuttora, la catarsi, la liberazione etico estetica dell’individuo e delle masse. Altrimenti la poesia diventa poetese, un banale, offensivo e sterile gesto narcisistico-onanistico, che oggi va per la maggiore. La poesia induce la catarsi, una qualche liberazione dal male.

Come definiresti invece la TUA Poesia?

In sintesi un teatro dal vuoto. Distinguendo, sempre in sintesi, in due periodi la mia produzione, il primo, che va dalla fine degli anni Ottanta alla fine degli anni Novanta del secolo scorso è un tentativo poematico di parodiare (nel doppio senso di cantare di nuovo e di rovesciare il senso) la tradizione poetica nostrana basata sulla netta distinzione tra l’Io e il Tu. In questo teatro di guerra la mia azione è succeduta a quelle di Amelia Rosselli e Patrizia Vicinelli, e ha trovato varie sororità nell’ambito della cosiddetta poesia femminile, che in quanto tale non esiste, ma quanto a tematiche esiste e ha ancora molto da dire. Per questa fase rimando alla mia autoantologia Poema (1990-2000) edito da Zona nel 2013. La produzione 2.0 abbandona la mitopoiesi pronominale, e tutto l’universo che connota tale mitopoiesi – ma senza dimenticarla affronta la catastrofe dell’eterno presente di Morte a cui il crollo delle Torri Gemelle ha dato simbolico avvio. Dei modi stilistici direi che la prosopopea pseudomonologica è il preponderante. Se negli anni Novanta la mia poesia cantava, negli anni 00 la mia poesia dice. Ma si tratta sempre di un teatro di guerra. I libri che testimoniano di ciò sono Crolli (Le Lettere, 2012) e Nel nosocomio (Effigie, 2016).

Che consigli daresti oggi al poeta esordiente ma anche al poeta che lavora già da qualche anno?

Di leggere il più possibile e di tutto, di leggere più che di scrivere, di leggere per evitare di scrivere, il più possibile. Di non scrivere se non in condizione di estrema necessità di farlo. Di non accontentarsi della prima stesura. Di ascoltare prima di parlare, ascoltare i suoni e i rumori del mondo, ascoltare tanta musica. Di non pubblicare a pagamento. Di far leggere, prima di pubblicare, il suo testo, ad un manipolo variegato di poeti che stima e rispetta. Di avere rispetto del potere e del valore della parola scritta. Di rendersi conto che scrivere poesia non è un modo per piacere e per piacersi, tutt’altro, è un modo, molto spesso, per dispiacere e dispiacersi, vergognarsi. Tutti i grandi artisti e poeti che ho conosciuto provano un senso di “vergogna”, cioè di pudore profondo, verso quello che scrivono e ci pensano più e più volte prima di pubblicare o declamare o esibire o esibirsi.


Questa è una poesia tratta da Nel nosocomio:

Attente ragazze, la sposa cadavere è il cartone
animato nel cui sequel ancora un po’ tutte
si casca. Da ragazza mi vestivo sempre tutta
di verde, tutta, ogni gadget, ogni particolare.
Un giorno partii per girare vestita da sposa
tutta l’europa orientale in autostop, perché ero
nipote di un celebre artista, quello della merda
d’artista, per dirvela tutta, e volevo volevo destare
anch’io altrettanto scalpore. Ma appena arrivata
a destinazione mi ha caricato su un tipo un po’ los-
co – quel che volevo! – e invece di incazzarsi con me
come speravo, lui si è semplicemente fermato
per strada e ovviamente mi ha stuprato e ammazzato.
A questo proprio non ci avevo pensato ma è andata
cosí, e ovviamente già nessuno piú si ricorda di me.
Ogni sposa di bianco vestita sposa la morte, ogni
sposa in abito bianco è, essa stessa, la Morte
che dice il fatidico sí alla Vita. E’ una storia che deve
avere a che fare col mito della verginitá come bene
supremo occidentale, infatti anch’io, che non ne
avevo l’idea essendo una biondina americana dall’aria
volgarmente angelicata come tutte le biondine ame-
ricane, mi metto in testa di fare l’ar-
tista e voglio le foto di nozze sul lago, anzi impongo
al fotografo, per fare un wedbook veramente spe-
ciale, di fotografarmi mentre entro nel la-
go con l’abito bianco ed il velo. Forse pensavo
ad ofelia, non so, non ho molto studiato, ma in
un attimo il lago mi ingoia e finisco nel web.
Attente ragazze che insistete a sposarvi vestite
di bianco e con la testa in una nuvola di tulle a strasci-
co solo apparentemente leggera. Vestite da spose
si muore! Le suore l’hanno sempre saputo e anzi ardente-
mente voluto perché chi si vuole sposare il signore
vuol dire che vuole morire, vuole dolce-
mente ed inesorabilmente decidere di morire da sé.
Mentre noi credevamo solo di fare le splendide.
Mentre noi volevamo solo fare spettacolo.


 

 

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Rosaria Lo Russo |Sulla Poesia

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