I COMANDAMENTI DELLA MONTAGNA - Michele Nardini
Barta edizioni 2019
Sant’Anna di Stazzema, teatro di una delle più efferate stragi della Seconda guerra mondiale, 560 vittime tra donne, anziani e bambini. Ma anche Seravezza, Gualdo, Massarosa, Valpromaro. I paesi e i boschi dell’Alta Versilia, alle pendici delle Apuane, sono lo sfondo del nuovo romanzo di Michele Nardini, I comandamenti della montagna, che Barta pubblica in occasione del settantaquattresimo anniversario della Liberazione. Il volume, in stampa per il 25 aprile e nelle librerie dal 2 giugno, racconta le vicende di un gruppo di partigiani nell’estate terribile del ’44, con le truppe nazifasciste impegnate a fortificare la Linea Gotica, ultimo baluardo che separa l’Italia occupata dalla parte della penisola già in mano agli alleati, e a punire con crudeli rappresaglie le popolazioni civili che offrono supporto e rifugio ai ribelli. Guidati dal giovanissimo Davide e aiutati da don Angelo, un prete allontanato dalla Curia per aver protetto un fuorilegge, volontari di ogni età, ceto e fede politica dovranno affrontare nemici esterni e traditori, mercati neri e neri assassini, tenendosi stretta la fiducia dei civili e ancor più vicina la propria umanità dinanzi alla rabbia e all’orrore, mentre la guerra si frantuma nei rivoli di mille azioni di guerriglia. In quell’ultima estate violenta, con la natura a fare da silenzioso coprotagonista, si fronteggiano buoni e cattivi: gli eroi che hanno sacrificato tutto e i più spietati carnefici, ognuno con la propria voce, coraggiosa o disperata, tragica e terribile, sempre indimenticabile.
L’autore. Michele Nardini, giornalista, lavora per la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, dove cura la comunicazione e crea contenuti multimediali, e collabora con La Nazione di Viareggio. Ha scritto un libro, Charles Bukowski al cinema. Storie di sbronze e di pop-corn (Giovane Holden, 2014). Ogni 12 agosto va a Sant’Anna di Stazzema.
Per gentile concessione di autore e casa editrice vi proponiamo la lettura di tre ESTRATTI
Pag. 43-45
La notte trascorse lenta e indefinita e, appena il buio si esaurì dentro i primi bagliori dell’aurora, Davide si lasciò alle spalle la marginetta e ripartì. Camminò con un passo a tratti impetuoso, a tratti prudente, maledicendo i lunghi tratti in cui non trovava uno sputo d’ombra e il calore del sole sembrava un coltello che affondava tra i suoi affanni. Camminò quasi un altro giorno intero lottando contro i crampi di fame e contro la gola arida e assetata, poi, verso metà pomeriggio, tutto scarmigliato, con la veste madida di sudore, i calzoni sudici e mezzi strappati, allo stremo delle forze arrivò nei pressi di un casolare.
Non si affacciò subito, rimase in disparte, protetto dal bosco che si spingeva fino a pochi metri dall’ingresso principale. Se la ricordava proprio così, la Casa Bianca. A prima vista pareva quasi un rudere abbandonato che rifletteva i colori cangianti del bosco: la chiamavano bianca proprio per questo, perché le sue pareti di pietra arenaria sembravano liquide e inconsistenti, d’un colore assente. Non aveva prati né davanti né dietro, sbucava all’improvviso, al delimitare della svolta di un sentiero poco battuto. Ma non era facile da raggiungere perché lontana dalle mulattiere e dalle carrarecce che attraversavano quei monti.
Fino a qualche mese prima era stata abitata da una famiglia di contadini, poi i gruppi ribelli l’avevano usata come base di riferimento perché era un posto sicuro, distante dalla Linea Gotica e ai margini delle zone calde flagellate, in quel periodo, dagli scontri con i nazifascisti. Dal terrazzo al primo piano, poi, era possibile dominare gran parte della valle del Lucese, ai piedi del Prana, l’ultima vetta rilevante delle Apuane, inconfondibile per il suo lungo dorso. Dalle recenti notizie che aveva ottenuto, la Casa Bianca era controllata da una piccola brigata, legata al Comitato di liberazione: una ventina di ragazzi, tutti della zona, capaci di muoversi con disinvoltura e autonomia tra i sentieri delle montagne.
Davide si sfilò gli occhiali e soffiò sulle lenti sporche. Sentì le gambe cedere, stravolte dalla fatica. Nella mente ancora flash improvvisi: l’assordante boato degli spari, il cotonificio assediato, la polvere dentro gli occhi, il corpo senza vita di Giovanni, la discesa rovinosa verso il torrente Frigido E poi Tito che, malgrado la ferita, combatteva accanto a loro.
Inforcò di nuovo gli occhiali e si diresse deciso verso la Casa Bianca.
Pag. 47-48
Di lui le era rimasta solo la foto che teneva appesa sopra il letto. Ogni sera, prima di coricarsi, guardava quell’immagine in bianco e nero e con la mente tornava al giorno in cui era stata scattata. Lei, bionda, con una fascia bianca sui capelli sciolti, a cavalcioni sulla schiena di lui, un ragazzo con grossi occhiali e quell’espressione un po’ svanita di chi sembra sempre fuori posto. Un prato verde e sullo sfondo le montagne, un tempo lo scenario della loro storia d’amore e adesso il luogo che li teneva separati.
Le mancava, il suo Totò. Ormai lo chiamava così, con il soprannome che gli avevano dato in famiglia. Derivava dalle prime sillabe che aveva pronunciato quando era bambino: to-to. Quello era anche diventato il suo nome di battaglia e lo aveva scelto così, quasi per gioco. Elvira avrebbe voluto seguirlo su per le montagne, nei suoi spostamenti da ribelle, per stargli sempre vicino.
Non poteva, almeno non tutti i giorni. Doveva badare a Riccardo, il loro primo figlio, nato poco meno di un anno fa e catapultato senza colpe in quella maledetta guerra. Allora si limitava a piccoli compiti di staffetta, come garantire i rifornimenti di cibo e provvigioni o favorire i contatti tra i combattenti delle montagne e i Comitati giù a valle. La sera poi tornava nel paese dove era sfollata la famiglia e badava al piccolo.
Due colpi sordi e violenti alla porta.
Elvira balzò nel letto sorpresa. Non fece in tempo a riordinare le idee che altri due colpi riecheggiarono nella casa. Era notte ma, dalla strada, percepiva rumori e voci concitate. Si alzò e coprì le spalle nude con una lunga sciarpa. Riccardo invece dormiva. Un minuscolo fagotto avvolto dalle coperte. Da quando erano rimasti soli, era solita farlo dormire accanto a sé, con un lungo cuscino sul bordo del letto a prevenire una caduta.
Si diresse assonnata e preoccupata verso la porta.
«Chi è?», chiese rendendosi subito conto dell’inutilità della domanda.
«Aprite la porta, presto!».
Era una voce straniera, che strascicava le parole in un tentativo mal riuscito di imitazione. Elvira titubò qualche istante, incerta sul da farsi. Tornò in camera e sistemò il letto in modo che Riccardo non potesse scivolare. I colpi alla porta si fecero più insistenti.
«Arrivo», gridò con voce tremolante.
Pag. 270-273
ESTRATTO DA MEMORIALE – Agosto 1944
La cinghia vibra in aria e poi scende veloce, schioccando sulle mani del vecchio inerme. Un rumore secco, come lo schiaffo sulla guancia di un bambino. Il vecchio si morde le labbra ma non si scompone, continua a tenere lo sguardo alto e cerca gli occhi dei suoi aguzzini. È umiliato, seminudo e sprigiona odori rivoltanti, ma vuole guardarci in faccia. Siamo in quattro nella cella buia, senza finestre: il vecchio, un ragazzo, Ignazio e io. L’aria è irrespirabile, sa di chiuso e di escrementi umani.
Respingo il conato e osservo la scena: Ignazio è a suo agio nella parte del boia, lo intuisco dal lieve sorriso che si insinua nella sua espressione mentre la cinghia torna in aria e precipita sulle mani del prigioniero. Mi convinco che no, non è il rumore dell’impatto del cuoio sulla pelle a impressionarmi; non sono neanche gli occhi freddi e impietriti di chi ha perso ogni speranza. Ciò che mi sorprende sono le mani del vecchio, apparentemente prive di consistenza, che si piegano a ogni colpo, come se dentro non ci fosse rimasto niente. Nessun osso, nessuna articolazione: solo sostanze molli, disarticolate.
Mani come sacchi di farina mezzi vuoti.
Accanto a lui il ragazzo, occhi neri, riccioli ambrati, vestiti laceri, sussulta a ogni colpo inferto. Immagino che sia suo nipote. Nel suo sguardo sospeso, quasi incredulo, riconosco la disperazione. Quando Ignazio vibra in aria la cinghia e la fa cadere sulla testa del vecchio, i nervi del ragazzo saltano. Le sue grida devastano i timpani, rimbombano sui muri della stanza. Il fascista gli porta la pistola alla bocca.
«E se ti ammazzassi?», gli sussurra in un orecchio.
Il ragazzo si zittisce di colpo, barcolla e trattiene a stento le lacrime che si addensano nelle orbite degli occhi. Il vecchio prova a difenderlo, ma uno spintone lo fa cadere a terra.
«Ora tocca a te». Ignazio mi passa la cinghia. Il contatto con il cuoio mi spaventa, sembra pelle viva strappata di dosso a una persona. Ma è solo un attimo. Subito dopo, un senso di dominio, di onnipotenza. Stringo forte nella mano la cinghia e provo un brivido di piacere mentre i due torturati vengono bendati.
Non ho mai colpito una persona inerme. Lo vedo davanti a me, lo sguardo perso, il corpo che sussulta in preda alla paura, ma non provo pietà. È una sensazione strana ma non ho sensi di colpa, non ho più remore né vergogna di me stesso. Il primo colpo gli arriva sull’addome, ma mi accorgo subito di non aver infierito. Il vecchio reagisce con un’espressione quasi di sollievo. Se ne accorge anche Ignazio, che mi è accanto e vorrebbe guidare i miei colpi.
«Così non fai male neanche a una bambola», sospira divertito.
Non capisco perché siamo qui, perché ce la stiamo prendendo con due persone all’apparenza innocue. Un vecchio e suo nipote. Sembrano tutto fuorché spie, collaborazionisti, traditori.
«Riprova», mi sprona Ignazio.
Il secondo colpo cade con più veemenza, all’altezza del petto. La cinghia si colora di rosso, il vecchio allunga le mani d’istinto ma non può evitare il terzo e il quarto colpo, sciabolate tremende sulla sua pelle che formano solchi di sangue. Ci ho preso gusto, finalmente. E i colpi cadono uno di seguito all’altro al punto che rinuncio a contarli. Il vecchio crolla a terra, non ha più forze per resistere. Un singulto anticipa il conato di vomito che si disperde sui suoi vestiti, sul pavimento. È in totale balia della mia ferocia. Mi avvicino, in modo che senta il mio alito di sfida. Lo prendo per i capelli e lo sollevo da terra. Il suo corpo ha un effimero sussulto, lancia un grido che subito reprime, poi le gambe cedono e si affloscia su sé stesso. Sento il suo respiro annaspare e affievolirsi, è rannicchiato, ha perso i sensi e la dignità.
Ignazio incita la mia fame. «Adesso è il turno del ragazzo».
«Lui però lo voglio vedere negli occhi», dico con una tranquillità che spaventa pure me.
Ignazio gli strappa la benda, il ragazzo alza le braccia d’istinto e le piega davanti al volto, per proteggersi. Mugola qualcosa d’indefinibile e indietreggia gattoni verso l’angolo della stanza, tremante e scomposto. Io avanzo con calma, assaporando tutta l’eccitazione del momento e convincendomi che la tortura si regoli su una semplice equazione matematica: maggiore è il terrore disegnato sul volto del torturato, più cresce l’ebbrezza del boia; più grande è la manifestazione d’inferiorità della vittima, maggiore è il senso d’onnipotenza del torturatore.
Lo colpisco a ripetizione, sul viso, sul collo, lungo il corpo. Sento la sua carne spaccarsi, vedo il sangue che schizza via lontano, sento il suo dolore e un altro brivido attraversa la mia sete.
La frusta non basta più. E allora dalla tasca estraggo un coltello a serramanico. Voglio che il ragazzo mi guardi, che non mi stacchi gli occhi di dosso.
«Hai mai provato il dolore della lama che apre la pelle?», gli sussurro in un orecchio.
Il ragazzo mi sviene tra le mani. Quando si riprende, ha il coltello appoggiato sotto l’occhio.
«E se te lo cavassi, se te lo facessi saltare via?».
Premo di più e sento la lama che si apre un solco. È qualcosa di irrefrenabile quello che mi spinge, come se tutta la rabbia ingoiata e lasciata a fermentare trovasse finalmente sfogo. Non importa chi ho di fronte, quali siano le sue colpe: ciò che conta sono le sue grida, è il rivolo di sangue che scende dal suo viso e cade sui vestiti, il suo dolore che mi diverto a stuzzicare. La lama non affonda, rimane in superficie. Sfigura ma non recide. Per lasciare in modo indelebile un segno che non si rimarginerà.