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book-436507_960_720Nel precedente articolo di questa piccola rubrica ho parlato di ritmo in relazione alle due componenti fondamentali della poesia: forma e contenuto. Parlando della forma avevo suggerito che il testo poetico è e deve essere considerato non un atto privato e intimo ma collettivo, sociale. A Udine in queste settimane Francesco Tomada ed Enzo Martines stanno portando avanti un ciclo di incontri dal titolo “La poesia non fa paura” e una delle cose che più mi hanno colpito è il ritornare, incontro dopo incontro, di una definizione molto simile a quella che ho data: “la poesia è sempre un atto politico”. Certo bisogna attingere al significato etimologico di “politica” per poter veramente capire questo punto d’arrivo (una destinazione in fondo, per il poeta) del significato di poesia. Politica deriva dal greco “politikè” che sottointende “tèchne” e ha sostanzialmente il significato di “arte che attiene alla città”. Anche la politica quindi, pur se oggi va in tutt’altra direzione, è un atto collettivo e possiamo considerare le due definizioni (“atto collettivo” e “atto politico”) come sinonimi all’insegna della medesima intenzione.

Personalmente non credo nel pessoiano “il poeta è un fingitore” perchè se parliamo di messaggio della poesia dobbiamo comprendere che scrivere ha una sua responsabilità enorme. Il testo scritto rimane, dice non solo di noi (che è il meno) ma dice e dà qualcosa agli altri. Non basta dare una bella forma al testo senza avere nulla da dire (anche se qualche esempio l’avrei da proporre in questa direzione) così come non basta avere qualcosa da dire senza saperlo dire nella giusta maniera (che è la maniera più facile per la comprensione del lettore, per il suo incontro). E il “cosa ho da dire” attinge inevitabilmente a quella sfera umana che è l’esperienza. Ma anche l’esperienza non basta se non è passata attraverso il filtro di una onesta riflessione e di una altrettanto onesta maturazione umana e infine attraverso quello strettissimo collo di bottiglia che è la domanda: “quello che ho da dire può essere utile agli altri?

In fondo quest’ultima domanda è la questione che sta al centro e risolve il problema di cosa scrivere in poesia. Perchè al mondo siamo veramente moltissime persone e se tutti dicessimo semplicemente ciò che ci emoziona, o raccontassimo le nostre vite private, cadremmo nel giro di pochi giorni in depressione comprendendo quanto siamo tutti così banalmente uguali. Noi pensiamo d’essere unici (uno dei casi più ecclatanti di finta unicità di fronte al bisogno di vera unicità è l’amore) ma in realtà siamo un’omologazione naturale, quasi una copia che si ripete con minime variazioni. Nulla è nuovo, tutto è sempre uguale, possiamo addirittura prevedere cosa faranno e cosa proveranno i nostri figli e i figli dei nostri figli. Ma è anche vero che nella storia della letteratura esistono casi di uomini e donne che hanno creato dei punti fermi che travalicano questa omologazione, che vanno oltre. Proprio perchè sono riusciti a trovare un significato, o almeno una domanda, all’interno delle loro esperienze. Poeticamente si direbbe che sono riusciti a fare della loro vita una metafora.

Viene da sé che in questa dimensione dello scrivere poesia bisogna fuggire come la peste l’emozione. Anche in questo caso sono solito dire che se un lettore vuole cercare emozioni può andare a guardarsi un bel film al cinema perchè l’emozione non è il fine della poesia. Ne è un effetto collaterale come il naso che cola per un raffreddore o come le gambe ben tornite di una donna che per un qualche motivo è costretta a camminare diverse ore al giorno. Ma il punto non è l’emozione perchè questa non è metafora. L’emozione non dice una vita, e tra cinquecento anni se qualcuno leggerà i versi di oggi non cercherà emozione ma storia, esperienza, un messaggio importante che descriva l’uomo odierno. Per questo bisogna considerare il testo scritto da una parte come un atto estremamente collettivo dall’altra come un atto di grandissima responsabilità.

E come identificare questo “cosa ho da dire?”. In realtà è molto più semplice di quanto sembri. Perchè l’essere umano non è un essere prettamente filosofico se non nella sua sfera razionale che all’interno della complessità della sua costituzione rappresenta ben poca cosa. L’essere umano è un macrosenso che percepisce e analizza il mondo in maniera ampliata oltre la sua capacità di comprensione (che è limitata dalla razionalità) e per questo lo supera (e spesso lo distrugge). Basti pensare a quando “sentiamo” delle cose a noi vicine, a noi care, senza capirne o identificarne direttamente il motivo. Così in poesia. O basti pensare che la storia umana molte volte è andata avanti (o si è fermata per lunghi periodi) non per scelte del pensiero ma per atti derivanti da visionarietà considerate folli. Queste visioni derivavano dalla sfera sensoriale più primordiale che è all’interno di tutti noi. E alla quale attinge e deve attingere la poesia per comunicare “veramente” qualcosa di importante. Sapendo che ciò che più è importante è semplicemente ciò che più è umano.

In una bella intervista su l’estroverso una cara amica, Giovanna Rosadini, ha recentemente detto:

“La poesia è il luogo della rivelazione e della discontinuità rispetto all’ordinario e al quotidiano in cui siamo immersi, e agiamo per lo più irriflessivamente. Riallacciandomi a quanto detto sopra, la poesia (ben più della prosa, e analogamente ad altre forme d’arte, come la pittura o la musica) è, in buona sostanza, il frutto di un’epifania, dell’irruzione nel tessuto della vita di qualcosa che ci fa sussultare, che ci risveglia e riconnette alla nostra verità più autentica e profonda. Improvvisamente, vediamo e sentiamo in modo più acuto ed efficace, abbiamo la percezione di un potenziamento sensoriale che ci permette di cogliere qualcosa di mai avvertito fino a quel momento, che coincide con l’essenza del nostro sentirci pienamente vivi. In questo senso, indubbiamente, la poesia è movimento, anzi sommovimento, frattura di una continuità acquisita, guizzo conoscitivo che si afferma surrettiziamente, emersione e simultanea traduzione, e chiarificazione, di un fino a quel momento inespresso, inconscio contenuto”.

Ed è proprio un testo di Giovanna, sempre tratto da questa intervista su l’estroverso, che mi dà modo di mostrare un messaggio destinato a restare nel tempo: “Non lo sappiamo, se la partenza non sia / in realtà un ritorno, e la verticale dei legami / recisi (sapore di zolla ancestrale, profili / all’orizzonte di un gesto, incisi: e il padre, / i padri) non ci aspetti in altre riannodate / sembianze all’arrivo del viaggio. Non sappiamo / quanto lungo il tempo dell’abbandono, quale / precisamente sarà l’arrivo, se mai ad uno / giungeremo. Conosciamo solo la necessità. // Saremo noi, se ci sapremo riconoscere, / la terra promessa.

Alessandro Canzian

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Dialogo 2: sul cosa dire in versi

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