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IL PROBLEMA DEL TRADURRE | Emilio Mattioli
a cura di A. Lavieri
Postfazione di Franco Buffoni
Mucchi 2017

 

Quando, nel 1965, Emilio Mattioli pubblica «Introduzione al problema del tradurre», gli studi italiani dedicati alla traduzione annaspano ancora, con Croce e Gentile, nelle sabbie mobili dell’obiezione pregiudiziale: il metodo della nuova fenomenologia critica applicato ai processi traduttivi inaugura, lontano dalla pigrizia dei luoghi comuni, un esercizio critico che sarebbe durato più di quarant’anni.

Riuniti per la prima volta in volume, questi saggi di Emilio Mattioli disegnano il percorso di una traduttologia viva, proteiforme, nel movimento euristico del linguaggio: «Imparare a convivere con la provvisorietà non è una rinuncia, ma una conquista, significa infatti riconoscere alla traduzione una partecipazione profonda e una funzione nell’àmbito della vita dell’arte e aprirsi ad una comprensione non pregiudicata di questa attività, la cui centralità è fortemente presente nella coscienza culturale del nostro tempo tanto da configurarsi come un punto di riferimento per il riassestamento in atto dei saperi».

per concessione della casa editrice leggiamo la postfazione di Franco Buffoni

Postfazione
Per Emilio

Negli anni tra l’86 e l’89 – in cui avrei dovuto pubblicare producendo titoli per conseguire l’ordinariato in anglistica – seguii virtualmente un dottorato di ricerca in estetica con Emilio Mattioli; un dottorato senza borsa, sia chiaro, ero già associato, un dottorato senza l’ufficialità, ma il mio impegno fu totale. Poi l’ordinariato in anglistica me lo diedero lo stesso.

Avevo capito che la sintesi tra le due branche del mio operare – la scrittura poetica come poeta di lingua romanza, quindi con metrica quantitativa, e la concentrazione come traduttore da lingue con metriche accentuative – stava nella teoria della traduzione. Dunque nella filosofia estetica. Avevo capito che quel nutrimento mi era essenziale per continuare. Così vissi il secondo periodo filosofico della mia vita, dopo quello giovanile «inglese» dedicato alla coniugazione del diritto alla filosofia. Avevo capito che quel dottorato in estetica – a quasi quarant’anni di età – mi avrebbe dato l’impostazione teorica di cui avevo un essenziale bisogno. Difatti ancora me ne nutro. Da quel dottorato è discesa la teoria della traduzione che, dopo la morte di Emilio, ho continuato a trasfondere nella rivista Testo a Fronte e nel volume pubblicato da Interlinea Con il testo a fronte.

Non sono uomo da un solo maestro, ne ho avuti diversi nelle varie fasi della mia crescita. I primi furono Carlo Bo e Claudio Gorlier in Bocconi. Quindi Giovanni Raboni. Infine Emilio Mattioli e Allen Mandelbaum. Mattioli a sua volta era il primo allievo di Luciano Anceschi e contribuì a rinvigorire la mia discendenza anceschiana in campo estetico. «Rinvigorire» perché Anceschi lo avevo frequentato a Milano negli anni settanta con Antonio Porta, quando il Verri riprese le pubblicazioni. Ma fu solo attraverso Mattioli che potei recuperare in toto il pensiero anceschiano.

Approfondendo con Emilio – e con Anceschi che era ancora vivo – le tematiche relative alla traduzione dal punto di vista teorico, potei chiarire a me stesso gli snodi fondamentali in ottica estetico–filosofica di quella scienza che poi si sarebbe chiamata traduttologia. Al Convegno «La traduzione del testo poetico», che organizzai a Bergamo nel 1988, Mattioli e Mandelbaum ebbero un ruolo centrale, e l’anno successivo nacque Testo a fronte.

Se l’incontro con la scuola neofenomenologica anceschiana, sul piano teorico, era già avvenuto negli anni settanta, dalla collaborazione con Mattioli vennero gli approfondimenti e le ricadute pratiche. Perché con Testo a fronte non si mirò affatto a cancellare le grandi eredità formalistiche del novecento, ma a coniugarle con istanze di tipo estetico. Così in Italia la traduttologia nacque da due fondamentali sorgenti, sinteticamente riconducibili alla linguistica teorica e alla filosofia estetica: le radici in Humboldt e Baumgarten. Mattioli già in precedenza aveva accostato i concetti di poetica e di intertestualità. Testo a fronte per i primi dieci anni si sviluppò su quell’asse. Dopo la morte di Emilio, seguendo il suo magistero, la coniugazione si ampliò da due a cinque concetti: poetica, intertestualità, ritmo, movimento del linguaggio nel tempo e avantesto. Di una «ritmologia», per altro, si era già discusso con Emilio in uno degli ultimi convegni a cui potette partecipare – Il ritmo del linguaggio. Poesia e traduzione – che organizzai a Cassino nel 2001.

Per esemplificare semplicemente il senso del nostro comune lavoro potremmo prendere le mosse dalla que-stione della ritraduzione: perché diamo per accettato che sia «lecito» ritradurre? Perché riteniamo che ogni generazione voglia avere il proprio Goethe, il proprio Dante, il proprio Shakespeare in grado di parlare nella lingua let-teraria di quella generazione. Perché diamo per scontato che questo sia «lecito»? Perché sappiamo che la lingua è in movimento nel tempo, che il nostro italiano è costante-mente in trasformazione.

Mattioli insistette moltissimo perché incontrassi Friedmar Apel. L’incontro avvenne a Mondello, in un seminario organizzato dal Goethe Institut. Emilio, che tanto l’aveva propiziato, però non era presente: il periodo scelto, a ridosso delle vacanze pasquali, gli permetteva di staccare per un paio di settimane da quei continui massacranti viaggi. Ma il contatto con Apel avvenne in suo nome e fu molto fruttuoso sia per me sia per la rivista.

Il passaggio concettuale che compiamo con il concetto di Sprachbewegung è infatti volto a includere in questo movimento del linguaggio anche il testo scritto nella lingua di partenza. Quel classico antico o moderno che andiamo a tradurre si sposta anch’esso nel tempo. Non solo «diviene» la lingua d’arrivo, diviene anche quella di partenza, perché nei decenni, nei secoli, le strutture sintattiche e grammaticali che reggono quel testo sono andate modificandosi, così come i valori semantici, la pronuncia. Come si può pensare che quel testo sia rimasto lo stesso? E qui interviene il concetto di traduzione come incontro «poietico», come incontro di poeti-che. Se tradurre letteratura porta alla realizzazione di un incontro tra la poetica del traduttore e la poetica del tradotto, questo incontro – che avviene in un punto x del tempo e dello spazio – è unico e irripetibile, perché unico e irripetibile è lo stato delle due opere e delle due lingue che in quel momento si incontrano.

Si potrebbe parlare anche di traduzione come Über-leben, come Afterlife di un testo. Al riguardo c’è un’illusione da cancellare: l’idea che la traduzione possa costituire la riproduzione di un testo. Anzitutto perché – e qui Emilio proprio docet – non è mai trasmissibile soltanto un contenuto prescindendo dalla forma; quindi perché significherebbe porsi in una posizione ancillare nei confronti del testo di partenza, laddove l’obiettivo è quello di raggiungere un risultato estetico autonomo. E non si raggiunge l’autonomia estetica attraverso una riproduzione, ma attraverso un incontro tra poetiche: un incontro tra pari. È dunque banale e concettualmente insulso, cercare di arrivare a «riprodurre» il ritmo dell’originale, quando invece si tratta di far fuoruscire – da quell’incontro poietico coniugato con gli altri elementi citati – un respiro dell’opera adeguato alla lingua d’arrivo in quel momento della sua evoluzione.

Un altro incontro fondamentale avvenne a Monselice: lì c’eravamo tutti. Buffoni, Mandelbaum, Mattioli schierati in ordine alfabetico dietro un massiccio tavolo di noce, con Gianfranco Folena che esaltava l’intuizione, il coraggio, le basi teoriche di Testo a fronte. Emilio sorrideva beatamente, come di rado gli accadeva: solo quando era davvero intimamente soddisfatto. Parlammo di Valéry traduttore delle Bucoliche e di Giorgio Orelli traduttore di Goethe: cioè di quelle che Meschonnic definisce les traductions–texte. C’est à dire: ciò che dovrebbe essere idealmente la traduzione.

E qui posso introdurre nella riflessione il concetto di avantesto. Perché è vero che l’Ulisse di Joyce esce nel 1922. Ma il 22 non rappresenta un momento d’inizio, bensì un punto d’arrivo. Nel ’22 giunge infatti a compi-mento un lungo processo che ha portato alla formazione di quel testo. A noi interessa quel processo nella sua interezza. Per un traduttore di letteratura poter accedere agli avantesti – cioè a tutto quel materiale che precede la prima edizione a stampa di un’opera – è utile perché significa poter visionare il processo di germinazione di un testo: quello che Pareyson definisce il processo di «formatività». Solo un ingenuo può affermare che Shakespeare non cambia e rimane fermo nel tempo, mentre le traduzioni cambiano.

Quando nacque Testo a fronte i traduttori in università non erano visti benevolmente: penso a Roberto Sanesi, a Maria Luisa Spaziani, che ai concorsi veniva-no regolarmente bocciati. Lo stesso Mario Luzi ebbe la cattedra a sessant’anni perché le sue traduzioni non era-no valutate come «titoli». L’incontro con Emilio – che personalmente non traduceva – mi permise di nobilitare concettualmente il mio lavoro, e quello di tante altre persone. È la ragione per cui continuo ad impegnarmi nella direzione di Testo a fronte, rammentando sempre ai più giovani che mentre parliamo di traduzione in realtà stiamo parlando di poetica; così come – quando parliamo di politica – in realtà stiamo parlando di etica.

Chiudo su questo punto perché mi permette di ricordare l’ultimo incontro con Emilio, avvenuto a Modena in occasione del convegno Guandalini-Delfini. A pranzo sedevamo accanto e ad un tratto, sollevando il capo verso la Ghirlandina, Emilio ricordò il suicidio di Formiggini, con le tasche piene di banconote perché non si potesse dire che si era tolto la vita per ragioni economiche. «Formiggini contro il fascismo come Jan Palach contro i sovietici a Praga», sussurrai. Emilio appoggiò per un attimo la mano sulla mia e mi accorsi che piangeva.

Franco Buffoni

P.S. Non so dove siano finite le lettere che nell’arco di un ventennio scrissi ad Emilio Mattioli. Le decine e decine di lettere che Emilio mi scrisse sono tutte ben conservate presso il Centro Manoscritti dell’Università di Pavia a disposizione degli studiosi.

 

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