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La scatola nera del traduttore: postfazione di M. Pezzella a “La terra sull’abisso

La terra sull’abisso | George R. Stewart, Del Vecchio editore, 2022 traduzione di Monica Pezzella

La terra sull’abisso

L’idea che esista una scatola nera del traduttore induce subito a pensare alla traduzione come a un viaggio. Per chi, come me, non ha studiato una lingua straniera attraverso un percorso universitario e dunque per chi, come me, non ha familiarizzato con un linguaggio diverso dal proprio tramite lo studio delle forme e delle tecniche che organizzano il senso in sistemi di parole – le strutture grammaticali e sintattiche, per esempio; o la denominazione dei modi e dei tempi verbali – la lingua, e in particolare la letteratura, è tutta ridotta (o estesa) alla sola percezione del senso e del ritmo. Una mera questione di intuito e di orecchio; più simile all’interpretazione di un tema musicale che a quella di un testo. La mia esperienza mi ha insegnato a non considerarlo un limite; soltanto un approccio diverso, una rotta non convenzionale per arrivare al medesimo approdo.

La scatola nera del mio viaggio ha dunque questa forma un po’ sghemba, poiché è plasmata per contenere i segreti di un metodo poco convenzionale e, direbbe qualcuno, poco ortodosso. Saranno pochissime le informazioni che riguardano la lingua in senso stretto, gli etimi, le scelte puramente tecniche, il confronto con l’occorrenza di un termine in altri testi e contesti.

A ciò va ad aggiungersi la particolarità del romanzo di George R. Stewart e la coincidenza storica che lega il momento del concepimento dell’opera da parte dall’autore al periodo in cui è toccato a me traslare il romanzo in un’altra lingua profondamente influenzata da un’altra epoca, distante come sempre accade, ma in questo caso incredibilmente simile: un’epoca, la nostra, in cui il romanzo profetico di Stewart trova con perfetto tempismo la sua attualizzazione.

Trattandosi, La terra sull’abisso, del racconto immaginario di una pandemia, forse la sfida più grande è stata tradurre il romanzo qui e ora, all’apice cioè di un’altra pandemia – il Covid19 – questa, reale. La sfida consisteva nel lasciare che l’opera di Stewart restasse nel suo tempo. In senso letterale, la sfida stava per esempio nel non farsi tentare dal tradurre l’evento catastrofico che si abbatte sul mondo di Ish – evento che nell’originale è denominato alternativamente the great disaster, epidemic, plague – con il termine “pandemia”, mai utilizzato dall’autore e, per contro, oggi onnipresente e predominante. Questa coincidenza tra gli eventi narrati da Stewart in un libro fantastico e gli eventi in corso nel mondo reale e attuale mi ha sollevata di peso e mi ha piazzato davanti a un immenso, se non infinito, mosaico. Cosa vi era rappresentato? La ciclicità della Storia e, dato davvero strabiliante, la ciclicità delle reazioni umane in rapporto a essa. Tali “riflessi” si notano chiaramente, per esempio, nei titoli dei giornali, nei messaggi radio che l’autore immagina vengano diffusi dalle autorità, nelle emozioni (assai contrastanti e varie) che la notizia del disastro suscita negli individui, nelle strategie di adattamento che prima i singoli e poi le piccole comunità adottano per riabilitare una società di cui non sanno più fare a meno; soprattutto, tali “riflessi” si notano nel trauma. L’esperienza traumatica della “pandemia” annientatrice dell’umanità – che è giusto definire “catastrofe”, definizione non a caso più vicina all’immaginario e al lessico biblici di cui l’opera è pregna che non a quelli odierni della comunità scientifica – è resa intenzionalmente dall’autore attraverso la reiterazione quasi estenuante di determinate parole. Reiterazione che rende il senso di angoscia incalzante, lo shock mai superato – e dunque ripetuto incessantemente anche in forma linguistica – che opprime i pensieri del personaggio principale (Ish). Pur essendo il romanzo narrato in terza persona, di fatto il cosiddetto “pensato” del protagonista è onnipresente, anche laddove non virgolettato, tanto che la terza persona narrante è assimilabile a una prima. È per questo motivo che, all’atto della traduzione, ho avvertito la forte necessità di adattare il lessico del narratore al parlato del protagonista: le stesse manie, ossessioni, ripetizioni, denominazioni: il narratore, apparentemente onnisciente, aderisce alla natura di Ish.

Si discute in maniera molto accesa circa la necessità di attualizzare il linguaggio di testi che appaiono ormai, nella forma, inattuali. Lo si fa sia per quanto riguarda gli originali inediti nel nostro Paese sia in relazione a eventuali traduzioni precedenti della stessa opera. È stato, quest’ultimo, il mio caso. La terra sull’abisso, che George R. Stewart scrisse nel 1949 fu già tradotto in italiano, circa quarant’anni più tardi, da Gianluigi Zuddas per l’Editrice Nord. Ho dovuto quindi pormi la questione: quanto tenere conto di questa preesistente opera di transazione, per di più già molto nota ai lettori? La risposta che mi sono data è stata: zero. D’altro canto, io sono il frutto del mio tempo, contengo in me gli intermediari tra quel tempo e questo, il che mi consente in maniera del tutto spontanea di riconoscere e valutare il limite da non oltrepassare per non alterare lo scarto degli anni trascorsi tra me e l’autore. Il rischio dell’attualizzazione del linguaggio è quello di attualizzare per riflesso anche l’immaginario di un’epoca e di una cultura collocate altrove nel tempo e nello spazio; contaminare le categorie mentali allora concepite e concepibili; aggiungere o sottrarre elementi rispettivamente inverosimili/anacronistici o più o meno caratterizzanti (un fonografo a manovella o a pile rischia di diventare un banale giradischi per facilitare la comprensione del lettore contemporaneo, neutralizzando il sapore spazio-temporale della storia). Messo già in conto questo rischio, dunque, ho preferito non immaginare neanche il grado di “allontanamento” dall’originale che avrebbe comportato il tener conto di una traduzione eseguita negli anni Ottanta/Novanta, inevitabilmente contaminata non solo dall’immaginario ma anche dal metodo di traduzione dell’epoca; un metodo che in molti casi – e in questo di sicuro – prediligeva un risultato piuttosto infedele rispetto all’originale.

Già solo la lingua di per sé, intensa cioè unicamente come simbolo al di là del significato, riflette – fa letteralmente risuonare – un’aria, un’epoca, uno stadio dell’umanità che non intendevo oltrepassare. Vale lo stesso per i luoghi, le unità di misura, alcune frasi idiomatiche cui a parer mio non necessariamente bisogna trovare un corrispettivo nostrano affinché risultino a noi comprensibili. In questo caso, il rischio – l’atto di violenza – non è attualizzare l’originale, ma decontestualizzarlo: italianizzarlo; ahimè, ancora una volta per andare incontro a un lettore che si tende a considerare meno arguto di quel che è in realtà e al quale, così facendo, si preclude la possibilità di esplorare nuovi orizzonti, particolari sconosciuti, che necessitano di uno sforzo intuitivo o documentale, ma proprio per questo “da scoprire” tramite la lettura.

Nell’atto del tradurre esistono soltanto l’autore, il traduttore e i rispettivi due mondi/tempi che la traduzione ha il dovere di ricongiungere: farli incontrare, fargli fare le presentazioni, fargli fare conoscenza, lasciando però che, nel momento in cui essi si stringono la mano e si scambiano uno sguardo di intesa (“ci siamo capiti”, si diranno), restino due “individui” diversi; soprattutto, che il primo resti sé stesso, inviolato per quanto possibile.

Per finire, capita a volte che in quest’atto di conoscenza reciproca tra opera originale e versione tradotta, si trovi coinvolto personalmente anche il traduttore, come un ospite inatteso rimasto incastrato un po’ in ombra sulla scena. Con una formazione in ambito archeologico e storico-religioso, mi sono ritrovata ospite inatteso tra due illustri saggi che dialogavano di antropologia, scienze naturalistiche, teorie evoluzioniste, rapporto uomo-natura/uomo-storia/uomo-dio/uomo-morte, in una pioggia di meravigliose citazioni bibliche; e più volte, da non credente, mi sono domandata: ma tu, libro di un certo George R. Stewart che in tanti, in tantissimi conoscevano, forse tutti i lettori più curiosi tranne me; tu, dimmi: come hai fatto a trovarmi e, attraverso la traduzione – che è giusto un pizzico più della lettura poiché induce non solo ad assimilare il concetto ma anche a sezionarlo, penetrarlo e riviverlo, che lo si condivida o meno – come hai fatto, insomma, a trovare proprio me e accompagnarmi in un viaggio che avevo in programma da tanto, tanto tempo?


 

Monica Pezzella: nata a Scafati (SA) e vive a Roma. Ha studiato archeologia orientale e poi editoria. Traduttrice e editor, ha collaborato tra gli altri con Nutrimenti, LUISS University Press, Fabbri, Elliot, Ponte alle Grazie, Rizzoli. Alcuni dei suoi racconti sono apparsi su Nazione Indiana,TerraNullius, Suite Italiana, Retabloid e altre riviste. Nel 2019 ha fondato la rivista online Sulla quarta corda – rivista di scrittura verticale e nel 2020 ha esordito con il romanzo “Binari” (TerraRossa edizioni).

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