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La terra sull’abisso

La terra sull’abisso | George R. Stewart
Del Vecchio editore, 2022
traduzione di Monica Pezzella

di Paolo Risi

Il suo nome è Isherwood Williams, ma d’ora in poi si farà chiamare Ish. Una contrazione, un modo per quantificare l’essenza. È uno studente in procinto di laurearsi e di punto in bianco si ritrova in un mondo mutato, in cui la presenza umana è un dettaglio, una variabile dipendente da un ordine ignoto.

La vita “ordinata” di Ish si sgretola in un giorno qualunque: su un dato territorio – luogo su cui è incentrata la sua tesi di laurea in Ecologia – sta effettuando delle ricerche sulle relazioni presenti e passate fra l’uomo, gli animali e le piante dell’intera regione. È da solo, intento a osservare e ad analizzare la natura, fino a quando, su un sentiero roccioso, viene morso da un serpente. Con sé non ha medicinali e il veleno comincia a produrre i suoi effetti, eppure Ish, supportato dalla sua indole riflessiva, non si fa prendere dal panico. L’offesa del serpente, seppur dolorosa, possiede ancora i caratteri della purezza: dopo la guarigione, il ragazzo percorrerà la strada del ritorno, e negli scorci di paesaggio che si susseguono avrà modo di elaborare quanto è avvenuto al di là del deserto, nelle città e lungo le vie di comunicazione.

Lo avvolge un silenzio irreale e la visione di un cadavere sul ciglio della strada, la faccia occultata da un brulicare di formiche, è uno dei primi fardelli portati in dote dal nuovo mondo. A seguire la rivelazione, strillata a caratteri cubitali sulla prima pagina di un giornale: sugli Stati Uniti si è abbattuta un’epidemia senza eguali nella storia, che si diffonde molto rapidamente e non da scampo. Ish si sente perduto, prende in considerazione la possibilità di suicidarsi, ma è solo un’incrinatura momentanea; come d’abitudine si affida alla sua sete di conoscenza, al piacere dell’analisi. A intervalli più o meno regolari si connette a un patrimonio di letture ed elaborazioni filosofiche; nel romanzo queste digressioni, sorta di approfondimenti, vengono riportati in caratteri corsivi, e rappresentano la via di Ish verso la comprensione.

Ma come il deserto ha ceduto davanti all’uomo con estrema lentezza, con altrettanta lentezza adesso ne cancella le tracce. Forse tra un migliaio d’anni le punte di selce ci saranno ancora, sparse nelle sabbia, e le colline recheranno ancora i segni del piccone. L’aria è secca, non c’è umidità; persino le rotaie d’acciaio resteranno. E i cavi di rame, immortali. Questo è il deserto, la natura selvaggia… dà a poco a poco, e a poco a poco riprende.

Ish battezza il caos: d’ora in avanti si chiamerà La Grande Catastrofe, e ai sopravvissuti toccherà di smuovere macerie e categorizzazioni per individuare spiragli di luce. Non c’è estinzione completa, osserva Ish, ma è inderogabile adeguarsi, archiviare il passato per non essere inghiottiti dalla Morte di Ritorno, dal prosciugamento dell’anima. Restano pochi oggetti: una station-wagon destinata a impantanarsi, un martello che riverbera la volontà di agire, e nel girovagare in cerca di cibo e di suoi simili Ish incrocia il cammino di una cagna, a cui dà il nome di Principessa.

Sgomento e stupore si accavallano, nell’incontrare le antiche vestigia soffocate da ciò che è selvatico; anche le residue tracce di civiltà, rarissime, vanno contestualizzate: un orto appena sarchiato, opera che nell’abbandono generale appare mirabile, introduce alla presenza di una piccolissima comunità, che però fin da subito appare impenetrabile, stretta attorno ai precetti della diffidenza. Non resta che riconoscersi in quanto straniero, quindi attraversare frontiere, cogliere opportunità, pianificare la sopravvivenza, e dopo una lunga ricognizione Ish fa ritorno a casa, anch’essa espressione della Grande Catastrofe, focolare spento, solo mura e suppellettili, i suoi genitori scomparsi nel gorgo del contagio.

L’enormità del fatto – l’elaborazione dello studente di ecologia non può che essere parziale – emerge come rimescolamento della sovranità, del primato, del dominio di una specie sull’altra: i non umani prendono il sopravvento, a ondate (cani-topi-insetti-bovini-ovini…), mentre le manifatture e la rete tecnologica si deteriorano fino al collasso (mancanza di luce, di acqua, di tutela dalle avversità).

Il nulla è l’ultima tappa prima della rifondazione. Essere solidali, approfittare – benevolmente – l’uno dell’altro. Ish incontra Em, una donna di qualche anno più grande di lui, e se ne innamora. Dai gesti quotidiani, con Em che fa valere la sua eccezionale forza d’animo, si sviluppa la volontà di progredire, di garantire la conservazione della specie. La donna diventerà la Madre delle Nazioni, e dalle fondamenta – la solidità di Em, la perseveranza di Ish – i fautori del nuovo mondo stabiliranno principi, ritualità e regole di convivenza. Nel corso degli anni la comunità accoglierà persone (dapprima Ezra, il disincantato, e poi George, l’empirico, persino la “problematica” Evie) ed elaborerà una sua dimensione spirituale, un ideale arcaico che non mancherà di integrare tabù e capri espiatori.

Pubblicato nel 1949, “La terra sull’abisso” è un racconto a gittata universale: anche grazie alla traduzione accurata di Monica Pezzella si allunga fino al presente, parlandoci di emergenza climatica, di fragilità degli ecosistemi, di antropocentrismo, di ciò che riteniamo essere basilare ma che invece è cognizione incerta, civiltà sul baratro del tempo. Ish rispecchia le nostre forme di adattamento: a fatica ripete il mantra dell’appartenenza (“io ero… – cominciò. Ma si corresse, perché non c’era alcuna ragione per usare un verbo al passato. – Io sono un americano”), per poi individuare negli elementi naturali la congiunzione fra l’uomo e il dono trascendente. Ish si purifica, nei suoi ultimi giorni di vita, riconosce la grandezza di Em, il suo coraggio, e rievoca con indulgenza – attraverso una pressoché simbiotica voce narrante – il proprio cammino: “aveva fatto molti errori, ma altre volte aveva fatto la scelta giusta, e comunque sempre – o almeno in linea generale – ci aveva provato. La Grande Catastrofe lo aveva costretto a recitare un ruolo al quale non era preparato, tuttavia era riuscito a compiere determinate azioni e aveva vissuto, così credeva, in modo non disonorevole.”

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