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Un’elegia tra “destino e roccia”
commento a La bellezza al suo apparire di Raoul Precht (Arcipelago Itaca, 2024)


di Gabriele Belletti

Sin dall’incipit di questa sua ultima opera Raoul Precht riconosce e nomina gli oggetti della sua poetica, mitici quanto terreni. Egli imbastisce un’elegia dove il personaggio principale è una materia che si fa territorio, Matera, e dove il tempo implacabile rintocca le vicissitudini, la dialetticità intrinseca del canto («l’immutabilità nel tempo / che va, fugge e resta implacabile», 1, vv. 6-8). Il Caso crea la «combinazione» (2, v. 3) coi suoi alleati – i «flutti» (2, v. 5), il «vento», la «pioggia» (2, v. 6), il «pieno» e il «vuoto» (3, v. 7) – e governa i «sedimenti» (2, v. 5) che ne derivano. Così, da una genesi geologica si propaga una storia, una «geometria» (3, v. 8) palpitante di proliferazioni che solo dopo diversi millenni («già da millenni il mare era arretrato», 7, v. 1; «un fondale / che da un milione d’anni non è più marino», 53, vv. 5-6) ospiterà una forma urbana e umana. Quella di Precht sembra in tal senso, sin dalle prime liriche, una voce che mette le sue radici nel mantello, inteso sia come porzione terrestre, ma anche come luogo poetico da cui far affiorare le parti nascoste di un immaginario latente – si rilegga in tal senso Oda a la flor azul di Pablo Neruda («De dónde, de qué fondo / tu rayo azul extraes? / Tu seda temblorosa / debajo de la tierra / se comunica con el mar profundo?»).

Un essere «assorbito / dal buio là in basso» (10, vv. 4-5) riemerge «alla stanca luce» (10, v. 5) «con cautela» (20, v. 7), quasi il canto attraversasse – accogliendone tanto le ombre quando le luci – strati geo-gnoseologici di una caverna platonica. Ad indirizzarlo un movente costante («avanzare costanti è la consegna», 22, v. 1) in cui la geometria naturale è modello («seguendo / la geometria del ragno», 22, vv. 3-4) e la vita la posta in gioco («la posta in gioco non è solo il banale progresso / ma la vita», 23, vv. 5-6). Una dinamica che porterà alla visione della città protagonista, «d’incommensurabile bellezza» (59, v. 3). L’io, infatti, fa dei suoi propri occhi gli strumenti primi per imbastire un simile percorso, capace di equilibrare partecipazione immaginativa e rigore descrittivo.

Il poeta è dunque il soggetto esploratore attraverso il quale la città riesce a rivelarsi in una dialettica di «destino e roccia» (38, v. 1), di sacro e profano («una passione / profana, un senso di familiarità un po’ insolente / con il divino», 51, vv-5-7). Ci si affida al ritmo della poesia per ricostruire la vita della città anche davanti agli occhi del lettore, facendo emergere con urgenza un ideale. Trattasi di una vera e propria propensione al bene, esposta quasi con intento pedagogico. Chi ri-costruisce ed esplora la città col canto, infatti – pur non ignorando la presenza del male («il male non sarà certo ignoto», 54, v. 7) – è dalla parte di un bene naturale sparso nel paesaggio. Animali e vegetali – l’acacia (33), la colomba (34) e «il ricamo di un ragno» (36) – sono i principali portatori di tale ideale – come riferisce anche Precht nella Nota dell’autore, esplicitando il riferimento al Corano. Essi sono riconosciuti come scudi simbolici del meraviglioso e del sacro, assecondando una poetica degli oggetti scelta per allestire una mappatura – per quanto momentanea, frammista e mobile – capace di restituire una presa di posizione.

In una tessitura di canto umano e natura («fili che si perdono tra le rocce / come a collegare fra loro epoche remote», 40, vv. 3-4), riprendente alcune istituzioni zanzottiane, si procede «a colpi di associazioni e folgorazioni» (Nota dell’autore), perlustrando «senza una meta» passaggi e stratificazioni – perché «a contare non è che il tragitto» (41, v. 3). Le immagini si fanno allora varchi dimensionali di cui il cantore Precht si avvale per muoversi negli strati del paesaggio, tra «nicchie», «anfratti», «balconi» e «resti vari» (41) e che permettono di incrociare personaggi appartenenti a diverse ere – da santi a governanti – in esso incastonati («dalle tenebre del nubifragio / emerge una figura leggermente claudicante», 45, vv. 1-2). L’unico che resta indenne e immutabile, come suddetto, è il tempo, dimensione / facoltà che plasma il mondo della vita e della città e dispensa inevitabili «mutamenti» (41, vv. 6-7), anche metereologici («ma la tempesta adesso si scatena», 44, v. 1). È compito del poeta cantare i cambiamenti che provoca e gli strati che accumula o salva dall’«oblio» (52, v. 7), siano essi millenari o esposti alla dimensione presente. Non vi è infatti solo il tornare alla luce, ad un certo mondano splendore, dei resti e delle rocce, ma anche l’esaltazione di un meno lontano passato, fatto di palazzi ristrutturati e nuovi colori («uno dei palazzi antichi / recuperato come tanti altri alla vita, / consacrato alla primavera e alla rivolta, / alla gioia e a cromatiche esplosioni», 43, vv. 5-8).

Mi pare, quella della nuova raccolta di Precht, una poetica devota all’immagine, in un senso felice e positivo, proprio perché implica un guardare-esplorare stratificato che, partendo da una superficie figurativa ricalcante fedelmente roccia e Mater(i)a, intraprende un viaggio nei piani interconnessi della città / civiltà. Solo riconoscendo l’inevitabile costruzione del tempo, è possibile cantare questa elegia di sconfitte e meraviglie. La voce, dal canto suo, percorsa la vicenda della città fino ai rintocchi dell’attuale in cui essa stessa vive, abita, approda a delle verità escatologiche: lo sguardo che la traina non sarà «mai sazio» (59, v. 5) e la fine del suo compito sarà sempre temporanea, soggetta anch’essa al tempo («mentre di pace e silenzio già s’ammanta la roccia, / e altro non si può se non tacere», 60, vv. 7-8).

 


da: La bellezza al suo apparire, Arcipelago itaca, 2024

Elegia per Matera

(…)

4

dopo l’ingresso nell’antro, spaurito
agli scherani della parte avversa si celava
Muhammad, prefigurando quell’istante nel tempo
immobile e indifferente in cui calpestare un ramo
spostare un ciottolo a perderlo sarebbe bastato;
buia grotta fredda lugubre, ma unico nascondiglio
nell’intrico di cunicoli fenditure budelli d’un mondo
fatto di tagli e piani sovrapposti

5

tremante si nascondeva, badando
a sopprimere rantoli e lamenti
colpito o no che fosse, ferito nell’anima
provato nel corpo, si sarebbe fatto aria
roccia, fango, se solo gli fosse stato concesso
e se eccessivo chiederlo non gli fosse sembrato
metamorfosi da ogni fuggiasco impetrata
tradimento della fisicità;

6

perché non c’è dubbio: meglio si sta
trasformati in vento, magari in stalattite
che si forma goccia a goccia senza premura
distillata come acquavite dalle rocce
bene si sta dimenticati dal mondo e nel mondo
rifiutando di svolgere il ruolo assegnato
meglio se relegati in un cantuccio
o prendendo le sembianze d’un sasso

(…)

33

per gli scherani l’acacia non nutre
troppe simpatie, ma le manca il potere di fermarli
di convincerli a volgere altrove lo sguardo
insidioso; l’albero deve allora arrendersi
benché frema ancora, tentino i rami
l’ultima resistenza, ma uno spiraglio di luce
adesso s’intravvede e gli inseguitori nella ricerca
insistono, tutt’altro che dissuasi

34

ma quando circospetti il piede posano
nel viluppo vegetale, ecco che proprio nel punto
da dove vorrebbero prendere lo slancio
per penetrare nella grotta il passaggio è impedito
dal nido d’una colomba che cova
ennesimo segno per chi i segni sa leggere
seconda meraviglia e per i semplici seconda prova
dell’impossibile che tronca il dubbio

35

ed è salvo per un puro miracolo
il fuggitivo, per l’azione del ragno che la sua tela
ha tessuto, quando e dove non si saprebbe dire
ma a regola d’arte se è vero che i persecutori
nel rimarcarla concludono che giammai
uomo mortale avrebbe potuto evitarla
o entrando nella grotta lasciarla intera, perfetta
senza il minimo segno d’effrazione…

(…)


Sito dell’autore:  https://www.raoulprecht.com/

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Un’elegia tra “destino e roccia”

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