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matteo meschiariAbbiamo intervistato Matteo Meschiari, autore di Artico Nero, Exorma 2016, recensito da ZEST qui.

di Paolo Risi

Nel tuo libro racconti un Grande Nord dimenticato. Terre e popoli che si estinguono in un processo che appare irreversibile. Ma parli soprattutto di donne e uomini ingannati, sfruttati da chi detiene il potere economico e politico. Come hai costruito le storie che compongono ARTICO NERO? Sei partito da testimonianze, documenti, da suggestioni personali poi elaborate?
Questa sarà una risposta un po’ noiosa, ma la tua domanda mi dà la possibilità di chiarire una volta per tutte la mia posizione di studioso e scrittore. Sono un antropologo, scrivo saggi a contenuto antropologico, e scrivo anche fiction e poesia. Questo, nell’accademia, è tollerato, a patto di non far troppo lo scrittore quando ti occupi di antropologia. Alcuni miei colleghi sono convinti che la loro disciplina (io preferirei definirla “indisciplina”) sia una scienza in senso stretto, ma per molte ragioni, non ultima quella epistemologica, sarebbe più saggio parlare di “sapere”, anzi, di “saperi antropologici”. L’unica regola aurea che può dirsi “scientifica” in antropologia è quella di “andare a vedere” le cose o, come si dice, fare ricerca sul campo. Ma, ahimè, a volte il campo non c’è, semplicemente perché non esiste più. Ci sono mondi che appartengono ormai solo al passato. Culture che si sono estinte come le specie. Restano solo testimonianze indirette, raramente dirette, comunque frammentarie e non più verificabili. Per fare un esempio, i Pigmei studiati da Leo Frobenius o da Colin Turnbull non esistono più. Oggi vanno a caccia col GPS. Secondo il dogma della ricerca sul campo io, in quanto antropologo, potrei parlare solo dei Pigmei di oggi, mentre dovrei prudentemente tacere sui Pigmei di ieri. Be’, io semplicemente non ci sto, perché penso che i saperi antropologici abbiano diritto di parola anche laddove il campo non è più raggiungibile. Proprio per questa ragione ho scelto di basare Artico nero su sette storie di luoghi, popoli e culture in una fase della loro storia che non possiamo più conoscere direttamente. I Sami nell’Ottocento, I Nenet durante gli Zar e i Soviet, gli Inuit groenlandesi durante la Guerra Fredda, gli Ahiarmiut negli anni ’50, i Ciukci negli anni ’90 del Novecento. Il punto è questo: loro, quelle persone, erano là, hanno vissuto storie a volte terribili che raramente qualcuno si è preso la briga di raccontare al lettore non specialista. A volte gli antropologi erano presenti alla tragedia, a volte non c’erano. Ci sono allora vecchi volumi di viaggio. Vecchie fotografie. Vecchi rapporti militari o di polizia. Vecchie interviste su carta, su nastro magnetico, su pellicola. Vecchi documenti insomma che nessuno può più andare a verificare direttamente confrontandoli con i fatti. Perché i fatti appartengono al passato. Ora, l’antropologo-scienziato si ferma qui e chiama scienza la sua rinuncia a parlare. L’antropologo-scrittore si spinge invece dove in teoria non dovrebbe spingersi. Come? Certo non inventandosi le cose allegramente, ma aiutando il lettore a immaginare, a vedere ciò che nessuno può più conoscere dal vero. Ecco come la scrittura narrativa, la fiction dei dettagli, delle atmosfere, dei contesti, possono aiutare a fare antropologia. Io ad esempio sono partito da documenti reali, seriamente vagliati, mai alterati o manipolati per fare dir loro quello che non dicono. Ma scrivendo ho cercato di seguire il progetto di visibilità di cui parlava Calvino nelle Lezioni americane. Antropofiction per me significa questo: non inventare dati antropologici che non esistono, ma conferire a quelli che si conoscono una visibilità e un’organizzazione narrativa.

Perché hai scelto di parlare del Grande Nord, delle sue genti, delle relazioni e degli interessi che si intrecciano in quei luoghi? C’è un motivo particolare che ti ha spinto a farlo?
C’è uno strato di motivazioni più antiche che rimontano addirittura all’infanzia. Letture. Film. Vecchi libri illustrati che tiravo giù dalla libreria di mio padre e sfogliavo seduto sul pavimento. Poi c’è lo strato degli studi accademici, ma sempre con un certo grado di eclettismo dissidente. Jean Malaurie, spesso criticato dagli antropologi-scienziati (anche se poi è a lui che il grande Lévi-Strauss affidò la pubblicazione di Tristi tropici…) mi ha messo in testa un’idea che trovo brillante: se vogliamo capire come viveva Homo sapiens sapiens nel Pleistocene dobbiamo guardare alle culture dell’Artico. L’era glaciale aveva trasformato l’Europa in un complesso mosaico di paesaggi artici e subartici: scudi glaciali, tundra, taiga, foreste di conifere, deserti gelati, mari freddissimi, permafrost. E poi renne, salmoni, foche, orsi. L’uomo cacciava con tecniche molto simili a quelle sopravvissute fino a qualche tempo fa nell’Artico, viveva in capanne praticamente identiche, costruiva oggetti così simili a quelli recenti che solo il carbonio 14 può decidere quali vengono dal Paleolitico. Così, visto che tra le altre cose studio l’arte preistorica, ho cominciato a leggere molto su Sami, Inuit, Yupik, Jakuti e Nenet per immaginare meglio la vita e il mondo dell’uomo di 40.000 anni fa. Infine, come ultimo strato, c’è quello delle preoccupazioni ecologiche che condivido con alcuni milioni di persone, dal momento che il consumo indiscriminato (ma anche regolamentato) dei combustibili fossili sta letteralmente distruggendo culture, ecosistemi, specie, paesaggi, vite.

Qual è il modo adeguato per raccontare i popoli dimenticati, per farlo con rispetto? Verso la fine del tuo libro accenni al volume fotografico e all’operazione commerciale “Before They Pass Away” di Jimmy Nelson, in cui vengono presentate (con finalità estetiche che prescindono dalla realtà) oltre 30 “tribù” del pianeta che stanno per scomparire, fra le quali alcune dell’Artico.
Nell’Ottocento Nelson sarebbe stato un tipico sostenitore dell’imperialismo coloniale britannico. Il suo approccio neocoloniale produce una sorta pornoetnografia quasi unica, tranne forse per le fotografie africane dell’ex-nazista Leni Riefenstahl. Ma non voglio scivolare qui nel pistolotto moralista. Nelson ci insegna qualcosa di molto sottile: il colonialismo ha raffinato incredibilmente le sue tecniche, ha assimilato le strategie neoliberiste e neocapitaliste, si è mescolato al glamour e al trendy, adottando un linguaggio ibrido tra pubblicità e reality che scivola sui nostri palati mediatici come velluto. Ci lasciamo affascinare dalle fotografie “etniche” di Jimmy Nelson e di Steve McCurry, e mentre i nostri occhi si appagano di bellezze esotiche (non troppo diverse dalle vecchie cartoline di “veneri negre” provenienti dalle colonie italiane e francesi), sottotraccia passano in giudicato dei modi della percezione dell’altro che approfondiscono il solco tra cultura egemonica e culture subalterne.

Cosa intendi quando parli di “costruzione scientifica dell’Altro”? È un concetto che mi sembra attualissimo, che si lega alle strategie colonialiste, all’esercizio del travisamento attuato in ogni epoca; e poi c’è il discorso che riguarda la neve, gli innumerevoli modi per identificarne la consistenza
Vedi, l’antropologia “scientifica” è nata nell’Ottocento per informare le potenze coloniali su cosa avrebbero incontrato in terre lontane: insomma, conosci e governa. Poi si è quasi subito riscattata prendendo le parti dei Nativi. Ma i saperi che ha elaborato continuano a essere delle armi a doppio taglio. Se conosco bene le dinamiche identitarie e quelle della costruzione dell’alterità posso anche decidere di usarle non per difendere i diritti dei più deboli ma proprio per rassodare il potere costituito, per inventare il “verisimile”. Quella dei nomi della neve è una piccola grande bufala che va in questa direzione, e tuttavia continua a circolare anche nelle aule universitarie. Per esperienza so che non c’è mai nessuno capace di citare le fonti, o perché non le conosce o perché, anche se le conosce, preferisce salvare l’aneddoto in quanto “istruttivo e bello da raccontare”. Quanti sono i nomi della neve? E chi lo sa… Poco fa abbiamo parlato di Nelson. Si potrebbe parlare qui di tutti quei furbi affabulatori che ci hanno raccontato la bellezza del rapporto uomo-natura presso i Nativi americani, in Oceania, in Amazzonia, e che dipingendo alcuni gruppi con parole di selvatichezza intatta ammettevano e addirittura sostenevano la ghettizzazione, l’apartheid, il genocidio etnico di altri gruppi. Come Forrest Carter, che pubblicò nel 1976 The Education of Little Tree, un bestseller autobiografico in cui raccontava i suoi anni d’infanzia con i nonni Cherokee nelle montagne del Tennessee: legame spirituale con la Terra, vita semplice nei boschi, il Nativo americano come risposta etica a Vietnam, Watergate e Walmart. Un successo inossidabile fino al 1991, quando si scoprì che Carter, ormai considerato un guru New Age, era anche stato il ghost writer del governatore segregazionista George Wallace e che, a metà degli anni Cinquanta, aveva perfino fondato un klavern del Ku Klux Klan. Così l’immagine del buon Selvaggio serviva a rifondare i valori di una società bianca che tra anni Sessanta e Settanta del Novecento sentiva vacillare la fede nel progresso e tremava al venir meno di un vasto sistema di privilegi e di potere. Insomma: innalzare il “Pellerossa” per cancellare il “Negro”. Ecco. Di questo sto parlando. Non dobbiamo fermarci a Orwell e all’invenzione mediatica del nemico o agli esotismi di Said. Il neocolonialismo ha vie di persuasione davvero molto raffinate e subdole.

Cosa pensi non si sia ancora fatto per favorire una coscienza sostenibile collettiva?
Ogni volta che si sente usare il termine “sostenibile” bisognerebbe chiedersi “sostenibile per chi?”. È un po’ come dire che il ladro deve convincersi a rubare un po’ meno così potrà rubare un po’ più a lungo, che si tratti del neoliberista bianco rispetto ai Sud del mondo o di Homo sapiens sapiens rispetto all’intero pianeta. Mi spiace ma il mio libro è davvero nero, nel senso che mi sembra ormai incontrovertibile: abbiamo passato il punto di non ritorno. In questi giorni Žižek ha scritto un pezzo molto convincente che spiega perché mangiare biologico, andare in bicicletta, fare raccolta differenziata e montare pannelli solari non ritarderà di un secondo l’apocalisse ecologica che ci sovrasta. Anzi, questi palliativi, tipici della buona o della cattiva coscienza della borghesia neoliberista occidentale come di certa sinistra radical chic, contribuiscono a rafforzare l’atmosfera di negazionismo che circonda il problema ambientale: illudendo l’individuo sulla sua capacità di incidere effettivamente sulle cose, lo distolgono dalla consapevolezza dell’unica azione possibile che ci resta, quella di creare una ormai molto improbabile rete sovranazionale per prendere misure davvero radicali prima del collasso. Ma Jared Diamond ci insegna appunto che l’uomo tende ad accorgersi del disastro quando ormai non c’è più niente da fare…

L’antropocene ha prodotto un default ambientale ingovernabile, che idea ti sei fatto?
L’antropocene è un concetto che serve a scrivere libri ma non fornisce il benché minimo paradigma ermeneutico per analizzare la situazione e arrivare a un “buon governo” delle risorse (nel quale tra l’altro io non credo). È un modo molto fico e politically correct per dire che Homo sapiens sapiens alla fine ha fottuto ogni cosa. In questo caso la mia idea è espressa perfettamente da una frase di Walter Benjamin che, riferita alla crisi economica tedesca nella Repubblica di Weimar, può essere estesa alla situazione globale contemporanea: “l’attesa che così non possa più andare avanti dovrà un giorno convincersi che per le sofferenze, del singolo come delle collettività, c’è solo un limite oltre il quale esse non durano: l’annientamento”. Ecco. Siamo fatti così. Sopportiamo tutto fino all’annientamento. E dopo è troppo tardi. Per me quello che dobbiamo pensare in questo momento storico è come insegnare ai nostri figli a resistere in un mondo che sarà decisamente più duro del nostro. Nel Paleolitico era durissima. Ma attenzione. l’uomo dell’Era glaciale non si è salvato grazie alla tecnologia che ha saputo sviluppare, ma dipingendo bisonti sulle pareti di una grotta. Non si è salvato mangiando quel bisonte, ma raccontandolo. Artico nero, molto in piccolo, vorrebbe fare questo. Parla di Inuit, ma in realtà parla di noi. Perché, presto o tardi, verrà anche il nostro turno.

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Intervista a Matteo Meschiari

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