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Nei campi di lavoro
racconto di Ilaria Grasso


 

Alena e Dorena ammiravano i muri dietro le grate della veranda. Erano ricoperti di parietarie e muschi di un colore verde salmastro. L’aria delle loro narici aveva la lenta consistenza del tempo. Tiravano lunghe e avide boccate di nicotina e facevano fuoriuscire dalla loro bocca nugoli densi che andavano sparendo oltre le grate.

Nel soviet gli operai avevano le mani impegnate a verificare la produzione sul nastro trasportatore. Ogni tanto un prodotto cadeva e tutti si voltavano a guardare. Gli sguardi erano affilati e chirurgicamente diretti a chi aveva fatto cadere il pezzo. La scena si addensava di tensione quando era presente  Rodomir, l’uomo di fiducia  dei membri del congresso. Rodomir ha uno sguardo oscuro, molto meno della retina di alcuni operai. Ha un taglio sul viso che gli incornicia lo sguardo. Il fatto che sia un uomo che ha  vissuto lo si capisce esattamente da quel particolare ed è per questo che a me quell’uomo rassicura. 

In fondo gli angeli sono in cielo, mi dico, e non si sa se esistano davvero ma le ombre in natura ci sono. Io le vedo, ci convivo. Le ombre esistono sul balcone di casa mia e quando è estate sono persino rigeneranti.

I neon sul soffitto, dopo le ore trascorse al lavoro, rendono impossibile la messa a fuoco. Così,  in estate le immagini vengono toccate dai raggi solari in maniera violenta. Verso la fine del giorno tutti assieme ci dirigiamo verso gli spogliatoi dove troviamo i nostri abiti lasciati lì al mattino. Talvolta mi pare che i muri compongano un arco a sesto acuto e il soffitto pesa addosso, pare che cada. Tutti lo avvertono ma è solo una suggestione perché quel soffitto non tocca mai nessuno.  Questa è una cosa che so solo io ma forse questa è solo un’illusione. Non posso parlare ma avanzo verso gli spogliatoi con la schiena dritta e lo sguardo mio è limpido.

Ci muoviamo eppure la sensazione che ho è  quella di essere in una fotografia. Siamo rigidi, nessuno di noi ha mai tentato di sottrarsi. Non conosciamo l’esodo, alcuni conoscono  l’esilio. Spesso ci manca il  fiato. Può succederci di tutto ma il nesso che ci lega o slega non acquista, per questa sola ragione, uno spessore o un corpo. 

Oggi mi è parso che anche  Dorena mi guardasse così, ma siamo tutti muti e ora dalle grate sparisce solo il fumo della mia sigaretta. 

Mi occupo di vedere se i prodotti sono tutti conformi e per me questa è un’assurdità perché in natura nessuna foglia è uguale ad un’altra. Ma loro vogliono sia tutto così e per questo ho imparato a farlo. Non ho mai visto i membri del soviet (non hanno neppure un nome) e loro non sanno neppure che io esisto. Esistono  solo i  numeri ed io sono uno di quelli. Loro, vogliono vedere me e gli altri come le sonde che produciamo. Loro esistono per mezzo di congegni, anche noi esistiamo grazie ai congegni. Forse per questo quando cade un pezzo mi guardano così. Temono di rompersi, come i pezzi delle sonde che  cadono per terra e che produciamo. Il miei occhi non si capacitano di questo. Me lo fanno capire perché tessono una patina opalescente densa e spessa. Alcune volte quella patina avvolge il mio cervello e non riesco più a generare pensieri vitali. 

Succede quindi che mi metto all’ombra di albero e penso che in quel momento, stando in quella dimensione umbratile nessuno mi veda e i miei pensieri si riposano. Poi cammino e cerco la bellezza osservando la natura. È rigenerante. Nei vegetali, nel moto delle onde, nel volo degli uccelli scopro le leggi che governano il mondo e mi sento parte di un tutto armonico dove tutto ha un senso. Dove se sei un albero e ti cade una foglia nessun’albero ti guarda. È naturale. Insomma trovo l’armonia e trovo la bellezza.  Quando è sera volgo i miei occhi verso le stelle e trovo nelle posizioni degli astri la stessa armonia. In compagnia di questa bellezza io non sono mai sola.

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I racconti dei lettori di ZEST: “Nei campi di lavoro” | racconto di Ilaria Grasso

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