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Foto presa dal web

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“TACUINUM SANITATIS” (Introduzione alla Rubrica)

I Tacuina sanitatis erano, nel Medioevo, dei manuali riguardanti la scienza medica legata alle proprietà di cibi ed erbe. L’intento era quello di compendiare, in brevi testi dal respiro divulgativo e precettivo, la funzione terapeutica di quanto la natura offriva, non solo in termini alimentari ed erboristici, ma anche – come diremmo oggi – “olistici”: cielo e terra erano legati dai doni di Dio, ed era in questi che bisognava risalire alla salute di corpo e anima, essi tra loro intimamente connessi dalla certezza della vita eterna. Qui, con le dovute differenze, si tenterà, all’insegna di brevità ed essenzialità, lo stesso scopo: risalire, attraverso la corrente carsica e divagante della poesia, la foce dell’umano, fino a giungere a quel guado del tempo dove la salute di quel che siamo veramente, e da sempre, ci attende.


busacca_thumb_thumb1 3 – TACUINUM SANITATIS
(su una poesia tratta da I quanti del suicidio, di Helle Busacca)

Ecco che in questa poesia Helle Busacca torna nella memoria sull’isola in cui tutti noi abbiamo vissuto, dove anche i pesci conoscono la sete e le primavere si aggrondano di desiderio, per sempre, sull’incoscienza dei nostri volti.
Ma dove si trova quest’isola? Forse è Ogigia, l’isola dei vent’anni, dove Odisseo fu stregato da Calipso. L’isola dove il dio alato Ermes scese per portare il messaggio, il piccolo paradiso lussureggiante di «ontano, pioppo e cipresso odoroso» (Odissea, V, 63-64). Un’isola introvabile e forse mai esistita, talmente tanto bella nel suo essere eternamente viva ed eternamente morta da impedire quasi la vita: perché è così che si è a vent’anni, belli ed eterni. Sospesi. E tu lo sapevi, Helle. Tu lo sapevi che per diventare non grandi, ma veri, a un certo punto bisogna abbandonare l’isola, almeno una volta nella propria vita bisogna morire, forse anche togliendosi da sé quella vita, e non tornare indietro. Mai più.

*

Tornare indietro, con tutto quello
che ora si sa, per il niente,
con te sotto questi cieli
di primavera aggrondata verso la sera
a sognare e ascoltare l’acqua per il silenzio
delle ogive e le colate delle rose immense
sul celeste a infinito giro dei lunghi specchi
ed il verde delle conche che se anche fa freddo
mette sete,
oh acqua acqua dopo il deserto
ed il simun acqua acqua che fruscia e crepita
acqua che scoscende che fluisce lene
acqua che sussurra confida e medita,
acqua d’aranci d’oro e di fitta neve
di biancospini acqua di palme e uccelli
ghiaia d’acqua tappeto s’acqua in eterno
scorrere in stasi eterna sotto le stelle,
con te, a vent’anni, insieme, quando si crede

ancora che il domani abbia il sole in grembo.


LXXXVIII, da I quanti del suicidio, di Helle Busacca – Elliot Edizioni

 


Nota Biografica:

Helle Busacca, nata a San Piero Patti (Messina) nel 1915, si laurea in Lettere nel 1938. Esordisce con la sua prima raccolta di poesia, Giuoco nella memoria, nel 1949, a cui segue la raccolta Ritmi nel 1965, segue la trilogia I quanti del suicidio (auto‐pubblicato nel 1972), I quanti del karma (1974) e Niente poesie da Babele (1980, con una nota di Maurizio Cucchi). Nel 1987 pubblica il romanzo autobiografico Vento d’estate, Il libro delle ombre cinesi (1990), Il libro del risucchio (1990), cui seguono Racconti di un mondo perduto (1992) e Pene di amor perdute (1994). Muore a Firenze nel 1996.


Federica D’Amato

 

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Tacuinum sanitatis 3: poesia da “I quanti del suicidio” di Helle Busacca

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