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Com’è trascorsa la notte | Filippo Tuena
il Saggiatore 2017

di Erika Nannini

L’ultimo romanzo di Filippo Tuena risale al 1997, Cacciatori di Notte, edito da Longanesi. È dunque un anniversario questo, vent’anni esatti che Tuena si è distaccato dalla forma pura del romanzo per intraprendere una ricerca stilistica il cui approdo più ardito è, senz’altro, la sua ultima fatica: Com’è trascorsa la notte, il Saggiatore, 2017.

Nel lavoro di Tuena l’ibridazione tra il saggio – dal quale proviene e al quale sembra voler tornare facendo prima il giro del mondo – e il romanzo si è fatta di libro in libro più salda. L’innesto del resto è pratica antica che crea un nuovo essere con la fusione di due individui differenti, il portinnesto (il reale) e il nesto (l’invenzione), di cui il primo costituisce la parte basale della pianta e il secondo la parte aerea dando così origine a un unico albero. La fusione istologica avviene grazie al callo che si forma fra le due superfici e la buona riuscita dell’innesto dipende da una tecnica perfetta, che consiste nel creare tagli coincidenti. Il punto di fusione, il callo, Tuena lo crea con una meticolosa ricerca senza opporre a essa alcuna resistenza. È così che nascono i mille rivoli che defluiscono dal corpo principale del romanzo e conducono il lettore per periferie prima di essere riportato al punto d’origine, senza che abbia il tempo di subire lo spaesamento per questa gita inattesa. Per riuscirci Tuena utilizza i più svariati medium – suggestioni per immagini, richiami musicali, artistici, scientifici – che costruiscono il meccanismo, o meglio il gioco, che inscena di volta in volta per il lettore. Se da un lato, infatti, l’autore trae reale godimento nel cimentarsi con i limiti e le possibilità di una radice già formata su cui innestare il proprio romanzo, dall’altra mette il lettore nella condizione di farsi parte attiva e non spettatore passivo di un intreccio conchiuso ritagliandosi, se vorrà farlo, il lavorio di approfondimento dei piani di lettura possibili e dei mondi che Tuena sapientemente relaziona. Per la teoria dei sei gradi di separazione bastano cinque intermediari per mettere in comunicazione chiunque nel mondo, è evidente che per Tuena altrettanto vale per una storia e le sue derive.

Com’è trascorsa la notte è la riscrittura infedele di Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare. Per la prima volta il portainnesto non è un accadimento reale, ma un’opera di fantasia alla quale il reale viene innestato, rovesciando così il concetto utilizzato da Tuena sino ad ora. Il callo è costituito, infatti, da un grumo di sentimenti ancora vivi e pulsanti che spingono i rami più arditi dell’albero ai confini del sistema solare. La commedia del bardo si fa dunque strumento e viene piegata dall’autore al proprio scopo: dipanare la matassa del cuore.

Più di ogni altro libro questo, per quanto simbolico, è autobiografico nonostante il suo essere decisamente corale. L’autore si spinge, anzi, al punto da cancellare la voce narrante e ogni protagonista dalla storia. Non c’è nemmeno intreccio se si eccettua il canovaccio shakespeariano che non basta, da solo, a dare conto e giustificazione del testo. Non sono i personaggi a sospingere il lettore, bensì il sentimento e il senso sempre in tralice – ma sempre presente – della sua sconfitta, della sua incomunicabilità. Per Tuena l’amore, più che un ponte verso un altro essere, è un ponte verso sé stessi. È l’enigma che ci attanaglia e che una volta risolto ci libera. Le molte voci dei personaggi della commedia (quando sono in scena) e degli attori che li interpretano (fuori dalla scena) si uniscono dunque in quello che pare essere un tirare le somme dell’autore sui sentimenti provati e suscitati nell’arco della propria vita. Una sorta di testamento sentimentale. E poiché la gioia è di pochi e comunque è fugace, non c’è per noi un lieto fine. C’è semmai l’impossibilità di un lieto fine e lo struggimento in tutte le sfaccettature possibili. Un caleidoscopio di declinazioni della passione. E anche quando il matrimonio si approssima per una parte dei protagonisti riuniti sul palco, è un matrimonio fosco, oscurato da presagi e presentimenti che l’inconscio preme verso la superficie. A nulla valgono dunque fate, folletti, equivoci divertenti o maschere d’asino a stemperare il macigno che incombe sugli astanti e tutti noi: ciò che vorremmo probabilmente non potremo averlo e se anche riuscissimo in questa impresa non resterebbe nostro o lo sciuperemmo nell’infinito logorio della quotidianità. Resistere, trovare nuove vie o logiche d’affezione, è il miracolo da compiersi e in questo sta la ragione di una dedica tanto personale da essere posta in fondo al libro e non gettata in pasto in esergo. Un gesto di grande pudore e delicatezza che l’autore dedica alla compagna di una vita.

Se ciò che misura la distanza tra i libri di Tuena è la crescente inflessibilità che l’autore si concede nel trattare la materia scelta, ciò che senz’altro li unisce è l’analisi di questo sentimento: la passione. L’amor che move il sole e l’altre stelle (Paradiso XXXIII,145), così si conclude la Divina Commedia e pare che l’opera di Tuena non si discosti affatto da questa legge. Se in Ultimo Parallelo (il magnifico UP) è la passione per la grande impresa, l’impossibile azzardo a spingere Scott e i suoi uomini alla morte inseguendo un sogno inafferrabile, nel Manualetto pratico a uso dello scrittore ignorante (Mattioli, 2010) è l’amore per lo scrivere; ne Il volo dell’occasione (Fazi, 1994) un gioco di specchi nei quali si smarrisce un amore impossibile; in La passione dell’error mio, il carteggio scelto di Michelangelo, risalto è dato alle missive che testimoniano la passione per il giovane Tommaso de’ Cavalieri e allora, citando Oberon in Com’è trascorsa la notte: “Perché m’incolpi d’aver ordito inganni? È stata una storia d’amore, se qualcuno ha ingannato non siamo stati noi, che abbiamo subito l’inganno. Come vuoi chiamarla la passione che ci travolse se non inganno? È rimasto qualcosa, in tutti questi anni? Siamo così diversi da allora che non è sopravvissuto più nulla né dell’amore, né del corpo che possedevamo”. Chi di noi non è stato Oberon?

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