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A seguire, dopo la recensione del nuovo libro Com’è trascorsa la notte (Il Saggiatore 2017), ringraziamo Filippo Tuena per la bella e generosa intervista, anche questa ottimamente a cura di Erika Nannini.

Mi domandavo, all’inizio della recensione, se stai cercando di chiudere un cerchio e tornare al saggio dopo aver precorso il più ampio arco possibile per riuscirci o, piuttosto, se è quello che naturalmente accadrà spingendo la concezione che hai del romanzo sempre più lontano. Per deformazione personale (non posso dire professionale) penso al significato delle opere di un artista come un nucleo inscindibile, una mostra antologica, nel qual caso la tua sarebbe un’installazione rara a vedersi: l’opera nell’opera.
Ho sempre avuto paura dell’irresolutezza, dannazione che, per esempio, affliggeva un grande sperimentatore come Sebastiano del Piombo e che lo rendeva parco e indeciso in ogni opera, teso com’era alla continua ricerca della perfezione. Dunque, se posso, ragiono in altri termini. Ogni nuovo libro documenta quel che ho appreso sino a quel punto e che preme per esser messo su carta. Manifesta il tempo che è servito a scriverlo; documenta indecisioni e prese di coscienza; soluzioni nuove, riuscite o meno che siano. Ho chiaro il pensiero di un’opera totale, che si dipana nel corso degli anni, – anche tra alti e bassi, riuscite e fallimenti – ma che, per forza di cose, finisce per seguire una direttiva abbastanza precisa e si sviluppa per tappe successive. In un libro del 1999 scrivevo di essere ‘le storie che ho ascoltato da bambino’. Ora comincio a credere di essere ‘le storie che ho raccontato da adulto’. Dunque è probabile che il cerchio si chiuda o che trovi la sua quadratura proprio come dici tu (l’opera nell’opera). Magari finirò per scrivere un libro sui libri che ho scritto, e non è detto che non lo stia facendo in maniera inconsapevole in questi ultimi che sono usciti e che usciranno.

Com’è trascorsa la notte è il più ardito dei tuoi romanzi, hai abolito – per quanto l’uso del testo shakespeariano possa far pensare il contrario – ogni artificio narrativo per indugiare tutto il tempo sul nodo della questione. Non saprei immaginare cos’altro puoi levare, di quale orpello privarti nella prossima fatica. È un problema che ti stai ponendo o che ti sei posto prima di iniziare Il Sogno?
Come sempre, è un libro che s’è rivelato in corso d’opera. E la sua struttura s’è modificata man mano che procedevo. Non ho mai schemi prefissati, tutto nasce al momento della verifica sulla pagina scritta. Quel che funziona e quel che non funziona. Quel che serve si aggiunge, quel che funziona si tiene, quel non funziona o rallenta, si toglie. All’inizio pensavo di limitare l’azione alla messa in scena della commedia e alla coppia di spettatori che vi assiste. Poi sono venuti fuori i monologhi degli attori fuori scena. E il libro s’è strutturato così: un’alternanza tra i parodistici dialoghi dei personaggi della commedia e i monologhi che sono di tutt’altro tenore e dove ho cercato di calare le carte, di dichiarare i punti che avevo in mano. E quando si fa questo si sfronda quanto più si può. Si dicono le cose come stanno. Si rinuncia agli orpelli. Del resto, vi si rinuncia perché, semplicemente, non servono.
È evidente che l’esempio di Shakespeare mi è stato di grandissimo aiuto nello sfrondare quanto più ho potuto. Mi ripeto spesso, ad alta voce, la battuta d’esordio di Gloucester nel Riccardo III: “Now, is the winter of our discontent/ Made glorious sunshine in this summer of York”. Dopo quel ‘now’ così assoluto, così contestualizzante e così ugualmente deconstetualizzante, Gloucester enuncia il suo progetto, senza orpelli, senza perifrasi. E il dramma che segue mantiene l’essenzialità che contraddistingue il suo esordio. Occorre raggiungere quella spietatezza letteraria, quell’essenzialità. Tutto il resto è veramente accessorio. Anche i personaggi diventano sempre meno necessari. Vorrei arrivare a scrivere narrativa senza intreccio e senza personaggi. Per lo stesso motivo mi pento d’aver tenuto le pagine non necessarie, ma non mi pento mai d’aver operato tagli anche drastici.

Se penso alle persone più capaci che conosco è il loro dáimōn ad averle rese ciò che sono. La passione vela dell’intelletto. E dalla passione sembrano muovere anche tutti i tuoi libri, è quindi lecito ritenerla a buon diritto il big bang del genere umano?
Sono per natura un tipo passionale e, sinceramente, non vedo altri ‘motori’ altrettanto efficaci che non siano la passione. Non per nulla
in questo libro dedico alcune pagine all’’Amore vincitore’ di Caravaggio. Ma sono consapevole che è un vincitore beffardo, che inganna, indica vie contorte che possono condurre al nulla. Ma il labirinto va affrontato. Resta da chiarire perché dall’energia dell’universo sia scaturito l’animo umano che, apparentemente, opera non per reazioni chimiche o leggi fisiche, ma per capriccio. Anche qui mi rifaccio a un pensiero shakespeariano, dal ‘Macbeth”, che cito nel libro: “It is a tale told by an idiot, full of sound and fury, signifying nothing.”

Ho letto che stai pensando di dedicarti a un’autobiografia. In altri testi, penso a Quanto lunghi i tuoi secoli o Stranieri alla terra, ci sono già ampi stralci biografici, saranno riuniti in questa nuova opera o è la sutura tra loro che pensi di cucire?
Il tema ‘autobiografia’ m’interessa moltissimo. Posto che è impossibile raccontare qualunque ‘totale’, occorre limitarsi a
raccontare per frammenti e cercare di mettere in relazione l’esperienza personale con i miti collettivi e perciò condivisibili. Non m’interessa tanto raccontare come ho vissuto certe esperienze, quanto condividere la mia parte in quelle esperienze. Si potrebbe scrivere un libro sull’adolescenza dei ragazzi degli anni ’60 (quale io sono stato) solo raccontando e analizzando la musica pop di quegli anni o il cinema, o l’arte. M’interessa che sia l’oggetto che si guarda o che si ascolta a determinare il clima del racconto. Dunque, non quel che ho vissuto ma piuttosto quel che ho visto, quel che ho sentito, la marea che mi ha trascinato lungo l’oceano dell’esistenza.
Essere testimone più che protagonista. In questo senso l’autobiografismo diventa esperienza condivisa. E tuttavia per realizzare questo progetto, abbastanza ambizioso, occorre che si determinino alcune condizioni: una predisposizione affettiva, un déjà vu improvviso, qualcosa che faccia scattare il meccanismo del ricordo, persino, oso affermare, una sostanziosa dose d’ispirazione letteraria. Per questo non immagino un percorso lineare – e le cose che ho scritto sinora vanno tutte in questa direzione frammentaria – e soprattutto non riesco a immaginare un impegno costante.È un tipo di scrittura, quella che indaga nel passato, che esige una tensione elevatissima e che si risolve per ciascun pezzo nel giro di breve tempo, anche se poi questi pezzi sono molto distanziati tra loro. Le pagine autobiografiche di ‘Stranieri alla terra’ e di ‘Quanto lunghi i tuoi secoli’ nascono in sedici anni, 6 o 7 pagine all’anno. Dunque, lavoro su questi temi poco alla volta, quando si verificano le condizioni giuste, non quando desidero. Anche qui, in ‘Com’è trascorsa la notte’, nei monologhi degli attori si trovano stralci fortemente autobiografici. Più passa il tempo e più mi rendo conto che è un libro che può arrivare ma che può anche non arrivare mai.

Poi ho letto che il prossimo libro sarà una raccolta di lettere d’addio. In un tempo che ci coinvolge in social dove le persone appaiono e scompaiono con la facilità di un sogno che al mattino si dissolve inafferrabile – un po’ come Titania che non sa come ha trascorso la notte – è un argomento decisamente attuale e affascinante. È già cambiato il modo in cui ci incontriamo, vale anche per come ci diciamo addio?
Gli addii di cui parlo e di cui penso di scrivere – e chiaro che tutti questi ‘buoni propositi’ sono da verificare sul campo – sono
qualcosa di più e di diverso che non semplici ‘lettere d’addio’. Penso a un repertorio di momenti ‘terminali’, situazioni in cui si cambia, o congedi non solo da persone ma anche da atteggiamenti e stati d’animo, da opere d’arte, da luoghi. Ogni testo di narrativa parte da un presupposto: raccontare un cambiamento o scoprire i motivi di quel cambiamento. L’addio è necessario allo sviluppo di ognuno di noi: gli uomini e le donne cambiano lavoro, cambiano paesi, cambiano amori. Se scrivono, cambiano anche oggetto del loro interesse, stile, modi. È necessario il rinnovamento. Siamo formati dalle rinunce più che dai successi e dalle acquisizioni. Un po’ come fa Michelangelo col suo marmo, ci riveliamo nell’atto di levare la materia bruta; si deve scavare, non accumulare.
Quanto al social, alla sua essenza immateriale, forse non è troppo diverso dal ‘bosco nei pressi di Atene’ del ‘Sogno’. È un luogo circoscritto, deputato agli incontri e, ovviamente anche ai loro opposti, alle separazioni. Zuckerberg come Puck o Oberon che distillano filtri d’amore e antidoti? In un certo senso. Siamo anche tutti un po’ come Titania magata dal filtro: ‘Com’è trascorsa la notte?’ oppure come Bottom, rivestiti d’una testa d’asino in maniera inconsapevole: ‘Ho fatto un sogno che non ricordo’.

In qualche modo non è già un libro di lettere d’addio Com’è trascorsa la notte?
Nel libro, a un certo punto, vi è un breve richiamo alla malinconia che prende i personaggi quando la commedia sta per finire;un sentimento simile invade gli attori; e un altro analogo avvolge gli spettatori. Anche chi scrive subisce la malinconia degli addii, riguardo al libro che sta finendo e che, una volta concluso e stampato, sfugge alla sua volontà e si separa da lui. E’ un sentimento che, ogni volta che chiudo un libro, provo in maniera quasi fisica e
dolorosa. E i finali dei miei libri sono sempre lettere d’addio al libro stesso. Celebrano la chiusura di una passione che non è poi tanto dissimile da una storia d’amore. Sì, forse, inconsapevolmente e da tanti anni, mi preparo a un libro sugli addii.

Recentemente in un’intervista di Elkann ad Antoine Gallimard sulla Stampa, sollecitato su cosa andasse per la maggiore Gallimard risponde che “adesso va molto la docufiction, che romanza eventi reali”. Sapevi di essere di moda?
No. Però mi defilo subito, se è così.


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Intervista a Filippo Tuena | ZEST Letteratura sostenibile

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