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Troverai più nei boschi. Manuale per decifrare i segni e i misteri della natura di Francesco Boer (Il Saggiatore, 2021)

Su concessione di casa editrice e autore pubblichiamo un estratto


La natura ha molto da insegnarci, ma prima bisogna imparare a capire il suo linguaggio, a ricevere le sue lezioni.

C’è un difficile ostacolo da superare, una divisione dolorosa e profonda. È come un fossato che ci divide dalla natura, che ci isola anche quando ne siamo immersi. Ci esilia nel nostro essere uomini, ci mostra quanto siamo diversi da ciò che ci circonda. Ci accusa di rovinare l’armonia della natura con la nostra sola presenza, come se fossimo un corpo estraneo, una spina di ferro conficcata nel corpo vivo del mondo.

Artificiale e naturale. Due sfere che sembrano incompatibili, eppure sono le due metà di una totalità originaria. Se sappiamo accostarne i frammenti, vediamo che la linea di rottura coincide: un’affinità che ci permette di intravedere l’unità perduta.

La parola “simbolo” deriva dal termine greco symbállein, che significa “mettere insieme”. Nell’antica Grecia si usava spezzare in due parti un oggetto, come ad esempio una tessera, o una moneta. Ogni persona conservava una delle metà. Al momento di incontrarsi, bastava avvicinarle, e controllare se il bordo della rottura combaciasse perfettamente. Ciò permetteva ai possessori di riconoscersi reciprocamente senza possibilità di sbaglio. Da qui viene l’uso figurato del termine, che indica appunto la rappresentazione concreta e visibile di una relazione.

Il simbolo è la via che ci permette di intuire la fratellanza fra coloro che sembrano estranei. Grazie a questa rotta, possiamo tracciare un sentiero al tempo stesso nuovo e antico: la relazione che concilia l’essere umano alla natura. Non è un rapporto di dominio, con cui l’uomo tenta di ergersi sopra l’ambiente in cui vive, per sfruttarlo e renderlo schiavo. Ma non è nemmeno un asservimento, né si tratta di denigrare l’uomo di fronte a un’immagine idealizzata della natura. È piuttosto un confronto alla pari, come fra amici, anzi, fra fratelli. È riconoscere la propria unicità, ma anche comprendere che le diversità sono il canale per comunicare, per superare le incomprensioni.

La natura ci parla tramite i simboli. Un prato, un bosco, un fiume: non sono soltanto luoghi esteriori, ma spazi dell’anima. Il simbolo non è soltanto lì fuori, ma non è nemmeno solamente una nostra elaborazione mentale. La sua vera essenza è nel rapporto, nell’assonanza che fa vibrare all’unisono il cuore e il mondo esterno. Grazie a questa empatia, a questa grande compassione, l’essere umano può accedere a una relazione con la natura che altrimenti gli rimarrebbe preclusa.

La natura ha molto da insegnarci, ma non è un maestro nel senso umano del termine. Non contiene insegnamenti prefissati, non è un docente da cui ricevere passivamente.

L’insegnamento naturale è piuttosto un confronto, un incontro e una sfida. Non basta camminare in un prato fiorito e aspettarsi di ricevere qualcosa. Dobbiamo prima dare, investire del nostro, confrontarci con il simbolo mettendo per primi la nostra anima sul piatto della bilancia.

Ogni ecosistema è un ordine superiore che scaturisce da interazioni apparentemente caotiche: pensate alla grande armonia del bosco, che pur nasce dall’intreccio di alberi e animali, prede e predatori, rapporti di simbiosi fra funghi e radici, l’imprevedibile ciclicità del clima, la lenta alchimia del suolo, la ruota incessante delle stagioni. Una rete complessa e disomogenea, una miscela da cui ci si potrebbe aspettare esiti esplosivi. Ne nasce invece un grande ordine, dinamico e al tempo stesso stabile.

L’umanità fatica a trovare un simile equilibrio. C’è stato chi si è illuso che il libero mercato, lasciato a sé stesso, sarebbe stato in grado di creare un’armonia collettiva partendo dalle singole volontà egoiste di ognuno. Il risultato è il grande mostro che oggi devasta il mondo e intossica le menti, un demone autodistruttivo che minaccia anche gli altri equilibri naturali.

Non resta che interrogarsi sul perché l’essere umano non riesca a raggiungere nemmeno con l’imposizione quell’ordine vivo e libero che nella natura nasce spontaneamente. È un altro segno di quella dolorosa frattura che ci rende artificiali rispetto al mondo in cui abitiamo.

Stiamo avvelenando la terra, e non capiamo che così facendo ci intossichiamo di riflesso l’anima. E d’altro canto, più cresce la disarmonia che ci portiamo dentro, più le nostre azioni si fanno distruttive verso il cosmo che ci ospita.

Immergersi nella natura è una cura contro lo stress della città. Un concetto palese, quasi banale. Ma ogni luogo comune nasconde delle insidie.

Il rischio, in questo caso, è di fare un uso egoistico e strumentale della natura. C’è una diffusa moda pseudo-spirituale ed egoista, secondo cui si tende a riferire a sé ogni cosa, alla ricerca di una salvezza esclusivamente individuale. Ma la natura non è lì per curarci, non è quello il suo scopo. Se pensiamo così, applichiamo in fin dei conti quel pragmatismo profittatore che è alla radice dei mali della nostra epoca.

La natura cura lo stress della città”, come se fosse una boccata d’ossigeno per poi tornare con rinnovata energia alla routine tossica delle metropoli. Nel fine settimana vado in montagna, così posso sopportare altri cinque giorni di lavoro, di mezzi pubblici affollati, di ordini e scadenze, di noia e frenesia. No, non è una cura, questa. Non è una soluzione, anzi, è la valvola di sfogo che permette la continuazione di uno stile di vita al tempo stesso patologico e patogeno.

La natura ci insegna che la salvezza non può essere soltanto individuale. L’ambiente è una rete di relazioni, un’armonia che nasce dalle singole connessioni e riguarda l’intero insieme. È ora di abbandonare le pretese di guarire spiritualmente, da soli, a scapito degli altri. La cura dev’essere collettiva e globale, deve portarci a rivedere il modo in cui interagiamo fra di noi, e con l’ambiente in cui viviamo.

Immergersi nella natura è una cura contro lo stress della città. È una fuga legittima, nessuno la nega. Ma poi non dobbiamo tornare nei ranghi, e continuare come niente fosse, collaborando all’ingrigimento del mondo.

Al contrario, dobbiamo riportare la natura in città. Mentre i turisti distratti o maleducati lasciano i rifiuti sul prato in cui passeggiano, noi possiamo fare l’opposto: accogliere la natura nell’anima, e riversarne lo spirito all’interno del grigio deserto cittadino. Possiamo portare dentro di noi il simbolo del fiore di montagna, serbare nel cuore la danza della libellula, preservare nell’anima il canto della cicala. Quando torneremo nella città, li getteremo come semi: senza dubbio troveranno il terreno in cui germogliare.


Francesco Boer (Gorizia, 1980) è esploratore e naturalista, alchimista e scrittore.

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Troverai più nei boschi | Francesco Boer – Estratto su ZEST

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