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MESOPOTAMIA
Serhij Žadan
Voland 2018

traduzione di Giovanna Brogi e Mariana Prokopovyč

L’autore: 

Nato nel 1974 nell’Ucraina orientale, è scrittore, poeta e performer. Salutato come “il Rimbaud ucraino”, in narrativa è esploso con il romanzo Depeche Mode, pubblicato in Italia nel 2008. Vincitore di ventuno premi internazionali, è tradotto in tredici lingue. Polemista e saggista acuto e ironico, è compositore e cantautore, ha creato una band di successo ed è un instancabile ideatore e interprete di progetti culturali multimediali.

Per gentile concessione della casa editrice: un estratto dal primo capitolo di “Mesopotamia”

Nei quaranta giorni da quando Marat era morto in città era arrivata la primavera. E aveva quasi fatto in tempo a finire. Lo avevano sepolto il martedì della seconda settimana dopo Pasqua, all’inizio di aprile, nella festività dedicata alla memoria dei defunti, e ora le colline si erano coperte di un’erba verde e ardente: si avvicinava l’estate. In quaranta giorni eravamo riusciti a dimenticare tutto e a riacquistare la calma. I genitori di Marat però avevano telefonato per ricordarci la data. Io pensai: già, è vero, sono appena quaranta giorni. I morti non hanno pretese, i vivi riescono a metterti in ansia. Al funerale erano venuti alcuni amici e i vicini di casa. La maggior parte dei conoscenti – e di conoscenti in città Marat ne aveva a bizzeffe – non poteva credere di essere stata davvero invitata al funerale. Poi tutti chiesero scusa, andarono al cimitero, cercarono la tomba. Era un aprile piovoso, dietro alla macchina che trasportava la bara correvano come un corteo d’onore dei cani randagi, di tanto in tanto si avventavano sulle ruote nere della Volkswagen funebre, come per impedire che Marat raggiungesse il regno dei morti. Nel cimitero camminavano folle gioiose, salivano su per le collinette sopra le quali pendevano basse nuvole, scendevano a valle sotto la pioggia scrosciante, celebravano la festa come potevano, mescolando l’alcol all’acqua piovana. Eravamo gli unici a venire al cimitero con un morto e avevamo un aspetto abbastanza strano, come se fossimo entrati in un negozio di musica con un pianoforte nostro. La Pasqua scombussolava tutto, rendeva la nostra tristezza sconveniente. Nel periodo pasquale non muore nessuno. Al contrario, la gente normale in questo periodo risorge dalla tomba.

La morte di Marat risultò simile alla sua vita, priva di logica e piena di misteri. Era la notte tra sabato e domenica. Marat non si era recato in chiesa, si considerava musulmano, e per di più non credente, invece in piena notte aveva deciso di andare al chiosco per comprare le sigarette. Con le ciabatte di casa e una banconota chiusa nel pugno. Lì gli avevano sparato. Nessuno aveva visto nulla, tutti erano in chiesa. La ragazza di turno al chiosco disse di non aver sentito niente, anche se pareva che qualcuno cantasse e risuonasse un rombo di motore, però lei non era sicura, forse avrebbe potuto riconoscere le voci; non era in grado di dire esattamente se fossero di uomo o di donna, tuttavia era riuscita a scrivere la targa della Žyguli, però risultava che quell’auto stava di fianco al policlinico degli studenti già da due anni e nella macchina i custodi infilavano bottiglie vuote e scatole di cartone trovate nei mucchi di spazzatura. Ecco, ci dicevamo, siamo tornati agli anni ’90, chi è il prossimo? Non era chiaro neppure perché gli avessero sparato. Marat non era un uomo d’affari, non aveva mai avuto problemi con le autorità, non aveva nemici, anche se, a dire il vero, a volte faceva finta di non riconoscere qualche amico, ma questa era forse una buona ragione per organizzare una sparatoria? Nelle strade non si sparava più da una decina d’anni, casomai solo contro i portavalori, ma non significava molto: quanti fra i vostri conoscenti fanno il portavalori? Cosa fosse successo veramente potevamo solo cercare d’indovinarlo. Passarono quaranta giorni, il tempo scorreva, i fiumi arrivarono a inondare le rive e ritornare indietro. I giorni si fecero tiepidi. Io non volevo andare, avevo deciso di telefonare per scusarmi e avvertire della mia assenza. Poi mi dissi: che differenza fa? Comunque non farò che pensare a lui tutta la sera, meglio farlo in compagnia degli amici, di vicini e parenti. Se ci si deve angustiare tanto vale stare in un posto familiare. Uscii di casa, oltrepassai la mia scuola, mi fermai vicino ai chioschi, stetti a lungo a scegliere le sigarette e alla fine non le comprai, mi venne in mente che forse, chissà, era meglio tornare indietro, ma poi proseguii. Corsi giù per la discesa lungo gli edifici dell’istituto, rallentai che ero già sulla strada di Marat. Dominava il silenzio. Accanto alla casa, nell’ombra pomeridiana, si riscaldavano corpi di cani assonnati. Quando si accorse della mia presenza, il capobranco alzò il muso, mi seguì attento con uno sguardo oscuro, poi posò la testa sull’asfalto e chiuse stancamente gli occhi. Non era successo nulla. Non era cambiato nulla. Marat viveva a un centinaio di metri da casa mia, dalla parte del fiume. Tre minuti a piedi. Del resto qui tutto era a portata di mano: il reparto maternità, l’asilo infantile, la scuola di musica, il distretto di leva, i negozi, le farmacie, gli ambulatori, i cimiteri. Si poteva passare la vita senza allontanarsi dalla stazione della metro. E noi facevamo così. Vivevamo nei vecchi quartieri arroccati sopra il fiume, crescevamo in appartamenti rimaneggiati e ridivisi, la mattina uscivamo di corsa dagli ingressi umidi, verso sera tornavamo sotto i tetti disperatamente pieni di buchi che non c’era modo di rattoppare a dovere. Dall’alto vedevamo l’intera città, nei cortili avvertivamo sotto di noi la pietra sulla quale tutto si fondava. D’estate si arroventava e noi sentivamo un gran caldo, d’inverno si congelava e cominciavano i raffreddori. Il loro cortile dava sul dispensario dei tubercolotici, accanto passava la strada che correva verso i vecchi magazzini.

Da una parte, in basso, oltre i tetti, si stendevano il lungofiume e il ponte, gli edifici neri delle fabbriche, i palazzi appena costruiti, l’impenetrabile quartiere residenziale di Charkiv. Dall’altra, in alto, c’erano le strade del centro, le chiese e il mercato. Varcando il cancello ritrovai tutto quello a cui ero stato abituato per tanti anni: la polvere, la creta e la sabbia attraverso le quali neppure l’erba riusciva a farsi strada. Il cortile era rivestito di mattoni rotti e sassi, negli ultimi anni Marat minacciava di ricoprirlo con l’asfalto, ma poi c’era sempre qualche impedimento e tutto restava come prima: due case di legno a due piani risalenti a prima della rivoluzione, semivuote e non restaurate da un sacco di tempo, in mezzo al cortile aiuole e orticelli, dietro ai quali si ergevano alcuni meli e il muro in mattoni neri di un edificio che dava già sul cortile accanto. La famiglia aveva preparato dei tavoli e portato fuori le sedie, i vicini venivano con i loro sgabelli, per ogni evenienza, per non rimanere senza posto a sedere. Sui tavoli rilucevano i meli e fiori bianchi cadevano nell’insalata aggiungendo un po’ di sapore e un po’ di amarezza.

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Mesopotamia | Serhij Žadan – ESTRATTO in anteprima

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