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Memorie della foresta | Damir Karakaš
Bottega Errante edizioni – Traduzione di Elisa Copetti


di Paolo Risi

Vado nella foresta: uccido l’orso. Sono l’eroe del villaggio, tutti mi fanno festa: perfino mio padre è orgoglioso e mi dà una pacca sulla spalla.

C’è il rischio di affondare nelle interpretazioni, leggendo o una volta terminata la lettura di Memorie della foresta di Damir Karakaš. Perché la trama è scabra, i personaggi sono delineati nettamente, il villaggio dove è ambientato il romanzo potrebbe essere il luogo di infiniti racconti, che abbiamo vissuto o di cui abbiamo sentito parlare. Solo la presenza di un ragazzino con il mal di cuore – il protagonista del romanzo edito da Bottega Errante -, che un po’ si presta al gioco dell’umanità che lo circonda, un po’ si costruisce un avvenire su fondamenta friabili, ci inebria di immagini e di possibilità, come se noi ci sentissimo in obbligo (consciamente o inconsciamente) di essere al fianco del giovane protagonista, per completarne la storia o per aggiungere all’intelaiatura del racconto la nostra, di storia.

Sforzo inutile, forse dannoso, che porta fuori strada: il passo di Damir Karakaš è sicuro e non concede deroghe al lettore che segue d’appresso, distratto da uno stralcio di vita folgorante, da una reazione inaspettata, da una cattiveria gratuita o da un sorriso che illumina la voragine della malattia. Pericoloso entrare nelle storie scritte o narrate da altri, in particolare se sono semplici, essenziali, semplici nel senso di rotondità naturale, architettura che affonda nelle espressioni profonde, blocchi di pietra non ancora lavorati.

Si diceva del protagonista, un adolescente che vive in un villaggio di un entroterra croato (il mare è a un centinaio di chilometri, e già questo dato minimo potrebbe anch’esso giocarci un brutto scherzo…), una terra ai margini di tutto, da cui si intravedono i primi bagliori del mondo globale, e che in senso contrario stringe a sé le formalità calcaree, i ruoli predeterminati di cui si sono persi i documenti di assegnazione.

Il padre del ragazzino fa il padre padrone, la madre è la membrana sottile fra la tragedia e il quieto vivere, la nonna scommette sulla sua autorevolezza anagrafica, la sorellina fa la sorellina e le è concesso ancora un minimo di incoscienza. Siamo negli anni della Jugoslavia, della coca cola tracannata come novità, del televisore con la pellicola cangiante da applicare sullo schermo, del giovane con la moto che i conformati additano e a cui predicono un futuro da canaglia. Un tempo e un luogo trafitti dal cambiamento e dalla contraerea che vi si oppone: il ragazzino è un ottimo studente ma il padre sembra ignorare questa fortuna, questo dono; per l’uomo è necessario un aiuto per mandare avanti le povere coltivazioni e la fattoria, perpetuare la povertà che assicura il rispetto dei ruoli e lo scettro del comando. Ma il figlio conosce, sperimenta: il tragitto dal villaggio al paese dove è ubicata la scuola è formativo molto più che la scuola stessa, gli amici offrono occasioni per inanellare avventure e idee sognanti, il contrappeso dell’ombra che avvolge gli adulti, guerrieri del nulla (in un’esilarante battuta di caccia il padre fa fuori un tasso, e quel misero trofeo di guerra è un piccolo sigillo della sua meschinità).

Nei 33 brevi capitoli che compongono Memorie della foresta si susseguono episodi, momenti di vita, alcuni strazianti, altri comici. Si impara a sconfiggere (i soldatini rubati a un compagno di giochi), a resistere, si modula il giudizio dei grandi per non restare impantanati, schiavi o disillusi. I ragazzi provano a costruire una piscina, avvolgendo uno scavo nel terreno con della plastica: finirà che un vecchio sadico del villaggio vi farà planare la sua vacca, che non mancherà di espletare nell’acqua i suoi corposi bisogni fisiologici. Le prove da superare sono molte, per il protagonista e per i suoi compagni, un confronto con la realtà che ha la pienezza di uno schiaffo, di un filmato di propaganda fatto vedere senza alcuna accortezza. Eppure non esistono soltanto le fienagioni, il lavoro svolto come si deve, l’osso da dare al cane, le divise dei militari di passaggio, la loro superbia; il controllo è inattuabile, della malattia al cuore il ragazzino sa poco, l’ospedale è un succedersi di porte bianche, la menomazione è indicibile, un tarlo da combattere nel silenzio di una camera, sollevando pesi per irrobustirsi, tirando a un canestro per anestetizzare il dubbio.

La fatica, la consuetudine, puntellano le stagioni; l’orso che si aggira nella foresta e che saltuariamente compie misfatti occupa il versante magico, esistenziale. Uomini, animali, natura misteriosa o addomesticata: Damir Karakaš ha scritto quello che andava scritto, è superfluo immedesimarsi, affastellare dei motivi. Il ragazzino malato di cuore comprende che la salvezza sta nel limite, nelle incursioni solitarie e fatali che corrispondono – naturalmente – a un rituale di passaggio: “Imbraccio il fucile e prendo la mira nella direzione dalla quale ho sentito il suono: quando sento di nuovo il fruscio e gli alberi intorno a me sono pieni di aspettative, indietreggio di un altro mezzo passo e premo più forte il calcio contro la spalla; penso immediatamente all’orso: la sua bocca spalancata, i denti aguzzi uniti dalla bava. L’indice contratto su un grilletto e il medio sull’altro, perché questa doppietta russa ha due grilletti, uno per canna, mi mettono agitazione in tutto il corpo; gli ficcherò entrambe le pallottole in testa; lo vedo già steso in una grande pozza di sangue. Poi dal cespuglio esce un merlo nero col becco giallo che fruga con le zampette nel fogliame. Tiro un sospiro di sollievo, vado avanti: col fucile carico.

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Memorie della foresta | Damir Karakaš

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