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copertina: Agreste, 2023 (Piano B Edizioni)

TIZIANO FRATUS. UN POETA RADICALE.

Esiste un poeta al mondo per metà umano e per metà arboreo. Nelle sue vene scorre sangue e, in sincronia, scorre linfa. La sua lingua è attecchita alla terra. Un Homo Radix, radicale. I suoi versi hanno forma di seme e di foglia, e come geminati vibrano all’unisono per giungere a noi e dispensare ossigeno. Enumerare gli elementi del silvano, in una giaculatoria di sillabe, richiede la forza di varcare la soglia, la porta che conduce alla sintesi primigenia dell’essere in natura.

Il poeta è il bosco. Ispirato da ciò che sta per nascere, ci conduce fermamente fino a farci comprendere che ogni albero è un poeta.

 

 


intervista a cura di Massimo D’Arcangelo

Quando un poeta si addentra nel selvatico, una luce illumina il cammino. Si snodano versi umani e animali non umani, suoni dall’incolto. Zampe, radici, gambe e foglie si inerpicano lungo i sentieri. Oggi come ieri, l’uomo è alla continua ricerca del contatto con la Natura, delle parole salvifiche che possano curare e svelare. Tiziano, qual è il suo rapporto con il bosco?

Anzitutto grazie Massimo. Non so dire se l’enfasi che noi tendiamo ad usare quando parliamo di boschi, di selvatichezza, di rapporto uomo-natura sia adeguata a descrivere un rapporto universale, capace di cogliere aspetti che riguardano molte o addirittura tutte le persone. Al contrario credo che ogni persona sviluppi un proprio rapporto e che ogni rapporto sia vero per quel che è. Per quanto mi concerne, quindi è assolutamente una prospettiva singolare e soggettiva, al di là delle solite cose che si ripetono, ovvero che noi abbiamo bisogno del bosco e degli alberi ma il bosco e gli alberi non di noi, o che senza alberi non saremo qui, eccetera eccetera, il mio rapporto nasce dalla frattura, dall’inadeguatezza, dal mio perdere radici, perdere rapporti e amori familiari, dal mio sentirmi non all’altezza del compito che un uomo più o meno trova di dover indossare quando è adulto e conduce una vita tra adulti. C’è stata un’epoca in cui ho percepito chiaramente la perdita del rapporto fondamentale con mio padre e mia madre, e quindi anche un distacco dalla terra nella quale ero nato e cresciuto. Tutto questo ha contribuito ad una confusione generale che non mi aiutava a sentirmi a mio agio coi coetanei. E dunque iniziai a cercare il silenzio cantato delle foreste, le riserve, le lontananze, le wilderness come dicono gli americani. E non credo sia un caso che abbia ritrovato un senso nelle cose della vita tra i boschi e accanto agli alberi e non tra gli uomini e le donne del mio tempo. Alle quali sono tornato, in parte, dopo, quando i boschi sono diventati la mia linfa, quando tutto questo starmene là mi ha nutrito e ha alimentato la mia scrittura che è cresciuta, è maturata, ed è fiorita poi grazie a tanti editori. Magari non tanto letta, non sono certo un autore bestseller, ma se penso che sono il figlio di un falegname e che non nutro particolari ambizioni, se non lo scrivere il meglio che posso, direi che non avrebbe senso lamentarsi. Diversi grandi editori mi hanno accolto e pubblicato, e quel che uno scrittore desidera, ovvero l’esistere si è compiuto. Per il resto il bosco continua a nutrirmi, ad accogliermi, sono un bosco che cammina come dico in una poesia, il bosco è e resta un compagno attivo nel mio tempo.

Gli alberi sono una tra le sue più grandi passioni. Ha esplorato le foreste californiane per abbracciare e studiare da vicino le sequoie, ha attraversato l’Italia per catalogare gli alberi monumentali del nostro territorio. C’è un albero, in particolare, al quale torna a fare visita assiduamente? Come è nato in lei questo amore smisurato per gli alberi?

Sono figlio di un falegname e questo mi ha consentito di allenare un contatto costante, fin da bambino, con l’elemento legno. Ovviamente mio padre era un “assassino di alberi” – scherzo – mentre io cerco di amarli per quel che posso. Di ascoltarli, non dico di capirli perché secondo me siamo troppo distanti, mondi davvero intangibili, se non grazie alla fantasia e alla suggestione. Oggi siamo lì a infilar dentro di loro i sensori e a inventarci diritti che non reclamano ma questo è un altro travestimento dei nostri, li piazziamo su al settimo piano di un grattacielo e diciamo che gli vogliamo bene, ma, restiamo quel che siamo. Un albero chiede terra, chiede cielo, chiede acqua, chiede spazio, e le nostre città quanto le nostre piccole dimore non sono sempre la soluzione migliore. Ma chissà quando saremo in grado di accettarlo… Attraversando sì le foreste di sequoia matura in California ho concepito l’idea dell’Homo radix, che per me è stato non un semplice travestimento, non un semplice escamotage letterario e poetico. Al contrario: l’uomo radice che mi sono scoperto di essere è diventato anche poesia e letteratura perché era vero dentro di me. Non mi interessa andare in giro a convincere la gente che sono un vero poeta selvatico, lo fanno già in tanti, per me le cose non risuonano in questo modo: vivo in un certo modo, allora scrivo di conseguenza in un certo modo. Di quel che dice eventualmente la critica o altri poeti mi frega relativamente nulla, o almeno, non me ne preoccupo. Ora poi che la natura e gli alberi sono diventati addirittura temi portanti dell’editoria c’è tutto un concorso di fenomeni fenomenali che debbono dimostrare di essere più autentici degli autentici, più naturali degli altri e io sinceramente preferisco defilarmi e non occuparmene. Il miei boschi, se così posso dire, mi insegnano ben altro e quindi vivo come preferisco. I grandi alberi sono maestri, se sei disposto a tacere, a riconoscere la tua totale transitorietà, l’impermanenza cara ai mia confratelli buddisti. E dunque anche quelle piccole parole che andiamo a infiorare sui nostri rami poetici e letterari alla fine valgono per qualche giorno, per una stagione, dopo saranno perduti, sostituiti, chissà. Seguiamo l’ordine delle cose di questo mondo.

A breve sarà disponibile, in tutte le librerie d’Italia, la sua nuova raccolta di poesie, Agreste (Piano B). Quale significato ha per lei questa parola? Agreste. Può darci delle anticipazioni sul libro? Magari, qualche inedito da donare ai lettori.

Agreste esce il 16 giugno. Mancano ancora alcune settimane e quasi conto i giorni ma poi come tanti altri libri uscirà e sarà soltanto un titolo fra milioni. Non è buffo come cambiano le prospettive di quel che ci pare improvvisamente importante? Agreste per me è il senso più semplice delle cose, vivo in campagna e quindi la vedo come una dimensione agreste, ma agreste è anche un sentimento, il sentimento di sentirsi in un certo modo anche se sei al MOMA di New York o in cima al grattacielo Pirelli di Milano. Resti agreste, sei agreste, vedi e senti agreste. Credo sia semplicemente la mia dimensione.

Agreste è un “silvario in versi & radici”, ho cercato di convogliarvi quelle idee e quelle visioni che mi accompagnano e mi divertono: dalle scene di vita più o meno quotidiana qui nella profonda provincia alle camminate nelle foreste, ho ritratto tanti tipi umani curiosi, e altri avvenimenti che secondo me rendono la scrittura una magnifica terra da esplorare. I poeti, forse, più di altri autori, hanno modo di contribuire alla consistenza di una nazione visibile soltanto sulle pagine dei libri, che è il mondo sottile dell’invenzione contemporanea, in tutte le sue propaggini, stili, lingue, forme. Che cosa unisce ad esempio le poesie di Pablo Neruda, Lorca, William Carlos Williams, Walcott, Bonnefoy e le nostre espressioni poetiche in Italia? C’è una ricerca di verità comune? Io credo di sì, nonostante l’evidenza di esiti molto diversi e la modestia, probabilmente, dei nostri ”raccolti”, poiché la poesia di questi ultimi vent’anni non è che proprio sia così esaltante, anche se ogni anno vengono assegnati tanti premi prestigiosi e anche qualche nobel – a mio parere sovrastimati – la poesia dei nostri giorni deve purtroppo affrontare una rude constatazione: è raro incappare in una poesia o nel respiro particolare di un poeta che non ti dia la solita percezione del questo lo so, questo lo conosco, l’ho già letto chissà quante volte… ahimè i poeti vivono abbastanza compressi dentro un déjà-vu universale, non è affatto facile.

Grazie Massimo per questa chiacchierata, grazie ai lettori per il tempo che hanno dedicato alla lettura di queste parole.

Allego tre poesie estratte da Agreste.

 

Con quel consueto eccesso d’amore

Stiamo disboscando l’Amazzonia
pur di sovraccaricare gli scaffali
delle librerie e delle biblioteche
di tomi appassionatamente dedicati
all’amore per gli alberi, e la natura,
e le foreste, e gli animali tutti,
dal Papa alla più umile guardia
forestale, seminiamo introduzioni,
scegliamo pigne da copertinare,
soffiamo preghiere e invocazioni
e sutra al Dio dei legni e delle radici.
Vestiremmo di foglie, se potessimo,
prenderemmo residenza nella raffinata
e primitiva Repubblica dei Boschi,
mi dica qual è il suo gruppo sanguigno?
Ovviamente RX selvatico! Eppure
abitiamo in case pare intelligenti,
guidiamo automobili ecologiche,
cibiamo quasi come degli uccellini

 

Fuori nevica

Osservo il tuo seno materno e fluido,
disteso, piangente, la tua pancia arricciata,
non ti nascondi e sento il profumo del tuo corpo
spalancato, ancora colmo di me, del nostro amarci,
che ogni tanto non sappiamo addomesticare.
Fuori la neve assedia le finestre, le prime luci
degli altri appartamenti appesi nel buio,
il traffico delle cinque e mezza in una corta
giornata qualunque nel mese di dicembre.
Amo quando scopiamo senza dirci niente,
in questo tuo letto troppo grande, un pezzo
di paradiso piccolo-piccolo ma abbastanza

 

I sonnambuli

Alzarmi? Svegliarmi? E perché mai?
Per occuparmi del peso consistente
delle attese altrui? Per fare da spettatore
ulteriore agli imponderabili protagonismi
che costellano le nostre chiese quotidiane?
Forse è meglio restare sotto le coperte,
forse Fratus, ti puoi regalare una mattina
di niente, puoi girarti dall’altra parte
e riprender a dormire, senza pensare,
senza contare, senza dipendere dai tuoi
sogni che sono poi i sogni dei tanti.
Ogni sonnambulo crede che i suoi sogni
siano unici, autentici e originali e veri,
ma basta un occhio svelto per capire
che li ha confezionati qualcuno, tempo fa,
e li ha smerciati proprio bene, sono così
ben fatti da non aver bisogno di essere
acquistati, sono alla portata di tutti,
si dice, allunga la mano e fallo anche tu

 

 


Tiziano Fratus abita in una piccola casa ai margini del bosco, medita, legge, scrive e ascolta la natura. Nel suo peregrinare ha esplorato le foreste maestose per cucire i capitoli di una storia umana, arborea e spirituale e ha coniato concetti quali Homo Radix, Dendrosofia e Bosco itinerante. In California ha perlustrato i più vasti, alti e annosi alberi del pianeta, in Giappone ha visitato templi, canfori millenari e isole-foresta, in Italia incontra i patriarchi vegetali presenti nelle città, nei boschi, nelle riserve, sulle montagne e nei giardini storici. In vent’anni di scrittura e labòrio ha composto silvari, collezioni di alberografie, quaderni di meditazione, raccolte di poesie, romanzi forestali e fiabelve gotiche. Fra le sue opere si ricorda Giona delle sequoie (Bompiani). Le sue opere sono pubblicate da editori quali Mondadori, Feltrinelli, Bompiani, Einaudi, Laterza e altri. Sito: Studiohomoradix.com


Massimo D’Arcangelo (Martina Franca, 1982), vive nella Riserva Naturale dell’Alto Merse, in Toscana. Redattore di Atelier. Ha pubblicato Intatto. Ecopoesia/ Intact. Ecopoetry (La Vita Felice, 2017). Ha curato la prima edizione italiana in volume del racconto Stickeen. Storia di un cane, di John Muir (La Vita Felice, 2022). Di prossima pubblicazione Voce del verso animale. Poesie antispeciste per ragazze e ragazzi (Pietre Vive, 2023), con Teodora Mastrototaro. Suoi lavori sono reperibili online e su riviste nazionali e internazionali a tema ecologico.


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Agreste di Tiziano Fratus, intervista a cura di M. D’Arcangelo

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