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ECOLOGIA, di Prisca Amoroso
Castelvecchi, 2023

Introduzione di: Antonio Coratti e Ivana Zuccarello
Con i contributi di: Miriam Borgia, Marco Ciardi, Francesco Marsciani, Ludovica Neri, Davide Silvioli, Lorenzo Vinciguerra

Il volume Ecologia di Prisca Amoroso da cui è tratto, di seguito, il breve saggio che vi presentiamo e pubblichiamo su gentile concessione di casa editrice e autrice, è inserito nella collana Nuovo lessico critico, edita da Castelvecchi, curata da Antonio Coratti e Ivana Zuccarello, e che include anche i volumi Utopia, Desiderio e Rivoluzione.

Il volume Ecologia, un lemma semplice con il quale a più livelli e su più ambiti stiamo familiarizzando, ai margini di una comunicazione, per fortuna, orientata a dare risposte, o porre domande intorno alla crisi ambientale globale.

L’idea che armonizza questa ricerca e le future pubblicazioni è quella di costruire, una parola alla volta, un excursus di riflessioni, un’antologizzazione tematica, muovendo a cerchi concentrici dal termine nucleo. 

L’intenso dibattito sul riscaldamento globale, la discussione di politiche di sostenibilità, gli scioperi per il clima e le lotte ambientaliste rendono manifesta l’esistenza, nel nostro tempo, di una questione ecologica. A partire almeno dagli anni Dieci del Duemila, il problema si è fatto sempre più pressante e l’opinione pubblica appare oggi consapevole della catastrofe che sta investendo la vita della nostra e delle altre specie. Quale può essere il contributo della filosofia nel rispondere alle urgenze del presente? Dove rintracciare le radici della nostra postura, così problematica, di fronte alla natura? Come siamo arrivati fin qui e cosa possiamo fare oggi? Da Bacone al pensiero ambientale, dal mito di Prometeo alla crisi climatica, un approfondimento delle coordinate storico-filosofiche del pensiero moderno e contemporaneo permette di comprendere la questione ecologica nella sua complessa articolazione.

ESTRATTO DAL CAPITOLO 6
© Castelvecchi editore, 2023

Pensare la catastrofe

A partire almeno dagli anni Dieci del Duemila, ci diciamo tutti consapevoli della catastrofe ecologica che sta per investire la vita della nostra e delle altre specie. Abbiamo, a portata di schermo, fotografie di orsi polari ridotti a scheletri, della barriera corallina divenuta grigia, le immagini dei corpi dei canguri carbonizzati nel grande incendio australiano del 2019, dei fiumi in secca e dell’inferno di fango che essi riversano nelle nostre città quando rompono gli argini. Spaventosi moniti di ciò a cui la Terra sta andando incontro: la distruzione dei paesaggi, l’impoverimento della biodiversità, l’estinzione di molte specie, lo scioglimento del permafrost con il conseguente innalzamento delle temperature e il risveglio di virus sconosciuti, l’accaparramento violento delle risorse, lo spostamento in massa dei cosiddetti migranti climatici, in fuga da ambienti non più adatti a ospitare la vita umana. Sembra che la nostra sia non soltanto l’epoca dell’emergenza ecologica, ma anche della emersione ecologica: dell’ingresso, sulla scena della Storia, della consapevolezza della connessione tra organismi viventi e ambiente. Eppure, oltre il green washing operato dalle multinazionali dell’industria tessile e negli spot delle compagnie petrolifere, oltre la raccolta punti che premia le abitudini virtuose nelle città smart, non sembra esserci un profondo cambiamento nello stile di vita e ancor meno nel sistema di produzione, neppure in quell’Occidente che suona a lutto, almeno da decenni, la campana per la morte della natura.

Una delle domande che la crisi climatica impone è proprio questa: perché non è ancora avvenuto un deciso cambio di rotta nella nostra relazione con l’ambiente? Perché voltiamo pagina tanto facilmente di fronte al disastro che si profila ogni giorno con maggiore concretezza sotto i nostri occhi? È sufficiente osservare che non credere alla catastrofe ci fa comodo? L’accumulazione di beni alla quale quasi tutte le società umane tendono – che supera, in gradi diversi, le strette necessità dell’individuo – si traduce anche in una cura per la discendenza, sulla quale investiamo attraverso il lavoro e il risparmio, mostrando una capacità di oltrepassare il modesto perimetro della vita del singolo. Allora perché intere generazioni non si stanno curando di cosa lasceranno alle successive, in termini di respirabilità dell’aria, salubrità delle falde acquifere, sopportabilità delle temperature, eccetera? Non dovremmo chiederci, come ha fatto Serge Latouche, filosofo promotore della “decrescita felice”, se i nostri figli ci accuseranno?* Il grido degli adolescenti si leva contro le politiche disastrose che continuano a permettere e incoraggiare l’erosione del suolo, l’accumulazione di plastica, la produzione di scorie radioattive, l’inquinamento delle acque: i giovanissimi, pur con le semplificazioni che alla loro età si addicono, sembrano essere oggi i veri depositari della coscienza ambientale.

A queste domande, purtroppo, ne segue subito un’altra: perché ci meravigliamo dell’incapacità della nostra società di solidarizzare con i posteri, se troviamo tanto difficile specchiarci nei nostri fratelli e sorelle bengalesi, uccisi mentre cucivano vestiti che avremmo, proprio noi, potuto acquistare? Come abbiamo potuto credere alla prospettiva postmoderna che vagheggiava una totale smaterializzazione del lavoro, mentre buona parte di quel lavoro – ingranaggio dello stesso mercato al quale apparteniamo come consumatori – veniva semplicemente delocalizzato in altre aree del pianeta? Possiamo ancora illuderci che, se i macelli avessero pareti di vetro, nessuno mangerebbe più carne?

Infinite finestre sui macelli, sulle fabbriche, sui fiumi in cui vengono riversati i prodotti di scarto della tintura tessile ce le offre Internet: le pareti sono di vetro da un bel pezzo, ma tutto continua come se non vedessimo, come se fossimo incapaci di vedere: e forse lo siamo.

Qualcuno potrebbe obiettare che questa denuncia pecchi di etnocentrismo, poiché evidenzia un noi e un loro, i carnefici e le vittime: respingo questa obiezione, che non soltanto permette troppo comodamente di svincolarci dalle nostre responsabilità di consumatori, ma cancella l’orizzonte di senso che potrebbe consentire al nostro e ad altri Paesi di perseguire politiche diverse nella gestione delle risorse e nella regolamentazione del lavoro. Riconosco, insomma, che la responsabilità è sempre sistemica; non per questo sono disposta a suggerirne un ridimensionamento.

Non intendo neppure percorrere la strada di una naturalizzazione della morale, cioè di una lettura che faccia della morale condivisa da un gruppo di persone, per quanto grande, un tratto essenziale della natura umana tout court. Non credo abbia senso chiedersi se la parziale incapacità di provare empatia per gli altri viventi, siano essi conspecifici o eterospecifici, faccia di Homo sapiens un animale essenzialmente cattivo. Piuttosto, ritengo sia interessante provare a individuare cosa rende la dimensione ecologica tanto sfuggente per il pensiero: ancora una volta, quando parlo di “dimensione ecologica” mi riferisco a tutti quei legami, economici, sociali, ambientali, che gettano sulla nostra esperienza una rete planetaria, e che rendono ciascuno di noi parte di un sistema complesso.

Se non riusciamo a vedere la crisi climatica è perché essa non è propriamente una crisi. “Crisi” è infatti una fase di sospensione della normalità, che ha una durata contenuta nel tempo, e che trova esito in una risoluzione, sia essa positiva o negativa, più o meno rapida. Il cambiamento climatico e la catastrofe ambientale nei quali siamo immersi non lasciano intravedere nessuno scioglimento rapportabile al tempo dell’esistenza di una vita umana individuale: tanto l’opzione catastrofista, quanto quella ottimistica, non possono fare riferimento a un tempo concreto, di facile datazione. L’emergenza ecologica sembra qualcosa con cui l’umanità dovrà convivere per lungo tempo: non ne vediamo la fine.

Quando proviamo a pensarla, ci troviamo di fronte a delle grandezze sproporzionate alla nostra esistenza, incredibilmente estese nello spazio e nel tempo: nello spazio, perché, come abbiamo detto, non è facile sentirci connessi con parti del globo molto lontane da noi; nel tempo, perché non è possibile proiettarci in un futuro successivo alla crisi.

Per quanto riguarda lo spazio, ci viene di nuovo in soccorso la lezione di Husserl: la dimensione planetaria non appartiene alla nostra esperienza spontanea e – nonostante l’economia globale e il cambiamento climatico rendano strettissimi, oggi più di ieri, i lacci che vincolano reciprocamente regioni del mondo anche assai lontane – il nostro ambiente soggettivo, inteso come nicchia di vita, di esistenza, non si dispone su una scala mondiale: è sempre locale. Certo, la nostra percezione dello spazio è qualcosa di storico, che può allargarsi e restringersi: la velocità con cui viaggiano le merci, la disponibilità di voli a basso costo, eventi come la pandemia da Covid-19 accorciano le distanze, ci rendono più consapevoli della rete che ci connette reciprocamente. Dall’altro lato, però, via via che cresce questa consapevolezza, ci disancoriamo dal nostro ambiente vitale e la coscienza del nostro radicamento si fa vaga, tanto che arriviamo a fantasticare di emigrare su altri pianeti per scampare alla catastrofe ambientale. Si produce, cioè, un cortocircuito: per un verso, la nostra percezione dello spazio ha un limite, rapportabile al nostro essere umani – non esercitiamo lo sguardo panottico di Dio; dall’altro lato, via via che la tecnologia accorcia le distanze tra la nostra casa e altre regioni del mondo, diveniamo più facilmente sradicabili e dunque perdiamo di vista l’importanza del suolo. Come abbiamo visto rispetto alla bomba atomica, è come se la tecnica, correndo più veloce di noi, ci avesse permesso di misurarci con grandezze a noi sproporzionate.

Quanto alla nostra incapacità di concepire grandi estensioni temporali, pensiamo a quanto ha sostenuto il filosofo Timothy Morton che ha preso ad esempio di iperoggetto il polistirolo: un “iperoggetto” è un ente che sfida il nostro pensiero, perché la sua durata nel tempo eccede, potenzialmente di migliaia di anni, il nostro ciclo vitale: entra, cioè, nella sfera del tempo profondo, esattamente come la comparsa dei dinosauri o il Big Bang. Se la catastrofe ambientale non è destinata a causare la scomparsa della nostra specie nel giro di qualche generazione, se il processo di distruzione del nostro habitat sarà prevedibilmente molto lungo, è comprensibile che la nostra immaginazione fatichi ad abbracciare l’assolutezza della sua drammaticità.

Nel paragrafo che segue, consideriamo due strumenti che tentano di concepire (e gestire) la catastrofe, oltre il limite della sua difficile pensabilità. Il primo è quello giuridico, rispetto al quale prendiamo brevemente in esame l’interrogativo relativo alla possibilità di stabilire diritti per le generazioni future. Il secondo è uno strumento concettuale che, per efficacia, diffusione, ma anche ambiguità, merita una problematizzazione: l’idea di Antropocene.

*Serge Latouche, I nostri figli ci accuseranno?, trad. it. di Federico Lopiparo, Castelvecchi, 2019.


Prisca Amoroso: Studiosa di Ecologia filosofica e Filosofia teoretica, dottoressa di ricerca in Philosophy, Science, Cognition and Semiotics presso l’Università di Bologna, svolge ricerche sul gioco, sull’ecologia della soggettività e sulla soggettività infantile, sull’idea di Terra. Su questi temi ha pubblicato i volumi Pensiero terrestre e spazio di gioco (Mimesis Edizioni, 2019) e Tema su variazioni. Un laboratorio merleau-pontyano (con Gianluca De Fazio, Mucchi, 2020).

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ECOLOGIA, di Prisca Amoroso | un estratto dal saggio

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