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Islanda, un museo naturale soggetto al consumo
di Francesca Fiorentin e Paolo Lago


Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui disseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città d’Europa.

Giacomo Leopardi, Dialogo della Natura e di un Islandese


L’Islanda è un luogo meraviglioso, magico e incantato. Un luogo in cui, guardando qualsiasi tipo di paesaggio, si può restare sempre a bocca aperta. Scogliere a picco sul mare, fiordi mozzafiato, montagne che sembrano uscite da una scenografia teatrale e cinematografica, cascate immani e potenti, ghiacciai dai riflessi di un colore azzurro che sembrano dipinti, vulcani che si ergono come maestosi giganti, come “Hekla”, chiamato “l’incappucciato” ma anche “la porta dell’Inferno”. È soprattutto una terra viva, soggetta a ebollizione continua: lo si capisce dai suoi innumerevoli geyser, molti dei quali si sono trasformati in attrazione turistica. Così succede a quello che probabilmente è uno dei più famosi, lo Strokkur, nella parte sud dell’isola. Le guide turistiche ormai hanno imparato a memoria che tra una sbuffata e l’altra passano all’incirca otto minuti. I turisti provenienti da ogni parte del mondo si piazzano intorno e aspettano di fotografarlo, di fare i video con i loro smartphone o con più sofisticati apparecchi fotografici. Lo abbiamo fatto anche noi, quando vi abbiamo fatto sosta. Eppure, a differenza degli altri, una domanda ci è sorta spontanea: qui e altrove, la natura, anche quella islandese, si è trasformata in un museo. Un museo un po’ particolare, però: non siamo al Louvre di Parigi o al Kunsthistoriches Museum di Vienna, spazi ipercontrollati e difesi. Certo, anche i siti naturali islandesi sono controllati e difesi e a nessuno è permesso di imbrattarli o inquinarli. Però, mentre centinaia di turisti da ogni parte del mondo calcano quella terra e fotografano quella natura, pensiamo che quella stessa natura sia, in qualche modo, soggetta a fruizione turistica e spettacolare.

L’oggetto del museo è un oggetto morto, un pezzo del passato o un modello imbalsamato che mostra l’esemplare come quando era vivente. Lo stesso accade alla natura islandese. Forse tutti sanno che essa è qualcosa di presente e che in un tempo molto vicino non esisterà più come prima. Lo sanno perché tutti conoscono gli effetti del cambiamento climatico globale, anche se non sanno poi riconsiderarlo alla luce della fine della nostra specie, come se si sentissero immortali. Il pensiero della morte dei propri figli e nipoti è lontano, inesistente. Ma le catastrofi naturali sono visibili, e anche il ruggito selvaggio degli ultimi luoghi dove la natura è intatta. Della natura possiamo ammettere la morte, fotografarla nei rari luoghi dove è ancora intatta, come milioni di anni fa. Ma la morte della nostra specie non la ammettiamo come possibile, o siamo in grado di pensarla solo a livello molto astratto. Allora l’Islanda deve essere fotografata come un oggetto chiuso in una teca di vetro, esistente ma già prossimo alla morte, che non è la nostra morte. Crediamo comunque che non sia tanto l’elevato numero di turisti che impatta negativamente a livello ecologico su quest’isola che è autosufficiente a livello energetico (infatti l’energia idroelettrica non solo è sufficiente per elettricità e riscaldamento per tutta la popolazione del paese, ma avanza di una cifra grande, il 30%, che rimane inutilizzata), ma che sia l’inquinamento ad arrivare qui come dappertutto nel globo. In Islanda non vi sono allevamenti intensivi di animali, non vi è un elevato numero di popolazione tale da poter da sola inquinare con le automobili. L’acqua in plastica è bandita da qualsiasi tavolo, perché l’acqua islandese che proviene dai ghiacciai è la migliore del mondo. Gli islandesi mangiano quello che hanno, salmone e altro pescato e carne di pecora o agnello. Il resto è importato a caro prezzo e per questo i prezzi sono molto alti. Le pecore sono libere di brucare nei campi per tutta la stagione estiva e vengono raccolte in autunno dai proprietari nei loro ricoveri. Gli islandesi potrebbero essere abili artigiani di una materia prima che hanno in abbondanza: la lava, ma non lo sono. Questa ‘mancanza’ non deriva da una svogliatezza o da una incapacità manuale o tecnica; in realtà noi pensiamo che essi non vogliano attrarre il turismo mondiale. Nei negozi del centro della capitale si vende solo paccottiglia, quasi a voler deludere i turisti, o come per dire “noi siamo poveri, non abbiamo molto da offrire”, a parte le rare coperte e abiti di lana, fatte con grande maestria e di ottima qualità. La lava deve essere qualcosa di quasi sacro per gli islandesi, non hanno mai pensato a farne tavoli, muri, varie costruzioni da esportare sul mercato internazionale, creando un’economia di carattere globale. Loro stanno bene in un mondo così piccolo, disabitato, non industrializzato, e non crediamo che vogliano mai attirare manodopera e industria. È la natura scenografica del loro paese ad attirare i turisti.

Abbiamo fatto un meraviglioso tour guidato dell’isola, e comunque ci siamo portati dietro anche una guida cartacea la quale, alla voce “geysir” (termine islandese per indicare il geyser), con riferimento allo Strokkur, scrive che “a volte i turisti sono così numerosi che il famoso geyser Strokkur non si riesce nemmeno a vederlo”. Sebbene il turismo non sia la principale fonte di inquinamento, abbiamo visto che i turisti arrivano in Islanda con ogni mezzo, in aereo, in traghetto, con le navi da crociera. In estate le crociere si intensificano in modo abnorme e questo significa un intensificarsi abnorme anche dell’inquinamento provocato dalle grandi navi (sia quello riversato in mare che quello provocato all’aria). Quello che pensiamo è che se da una parte quella natura viene ‘gentrificata’ e ‘museizzata’, dall’altra viene sottoposta a stress e consumo, viene mercificata. I turisti che ammirano estasiati il geyser fanno parte dello stesso sistema capitalistico che sta devastando l’Islanda e il pianeta, ma a quanto sembra l’Islanda pone un muro a quello che i turisti possono fare, conservando una economia sufficiente a far vivere bene la popolazione del paese. Come sostiene il sociologo francese Rodolphe Cristin nel suo interessante saggio Turismo di massa e usura del mondo (trad. it. eleuthèra, Milano, 2019), il turismo è sottoposto alla logica del lavoro salariato ed è imposto dalla stessa struttura capitalistica mentre lo stesso turista si configura come un “consumatore geografico”.

Lo stesso spettacolo dei turisti che fotografano un museo naturale si ripete di fronte alle foche, alle pulcinelle di mare e sulla spiaggia nera di Vik, la località dove è ambientata la serie TV Katla. Tutti, in religioso silenzio, come in una sala del Louvre o degli Uffizi, fotografano le foche ma quelle stesse foche possono essere uccise dall’inquinamento prodotto dalle navi da crociera sulle quali hanno viaggiato quegli stessi turisti che le fotografano. Sono uccise soprattutto dall’inquinamento che arriva dal resto del pianeta. Lo stesso avviene con la pratica del “Whale Watching”, cioè l’avvistamento delle balene, allestito per i turisti in diversi porti islandesi: sulle barche, i turisti fotografano estasiati le balene ma poi, scesi a terra, possono mangiare carne di balena in diversi ristoranti. Ma non è tanto questo il danno per le balene. La caccia alle balene è stata vietata in Islanda, ma un magnate ha ottenuto il permesso di cacciarle, e solo lui può ucciderle per poi venderle soprattutto in Giappone. La Natura è diventata un oggetto d’arte in un museo, ma il turismo e il sistema capitalistico globale non riescono ancora a distruggerla, sebbene la consumino lentamente. Vero è che quando una massa di turisti si assiepa intorno a fenomeni naturali, animali o paesaggi per guardarli o fotografarli (ormai quasi nessuno guarda più ma tutti, prima di guardare, fotografano) è come se un gruppo di visitatori del Louvre, assiepati intorno alla “Gioconda” di Leonardo, mentre la sta fotografando, la stesse contemporaneamente bruciando lentamente con un accendino.

Abbiamo percorso in strada, in un pulmino, centinaia e centinaia di chilometri accompagnati da una bravissima guida; abbiamo attraversato questo scenario da favola che col turismo di massa è diventato un grande museo ma anche un grande spettacolo, una enorme Disneyland naturale. Il paragone suona azzeccato se consideriamo – come ci ha detto la nostra guida – che gli Islandesi provano una forte attrazione nei confronti della cultura statunitense: l’America, gli USA non sono vicini soltanto geograficamente, ma anche ben radicati – sembra – all’interno della quotidianità sociale islandese. La strada si è allungata in panorami mozzafiato, in lande desolate ma stupende, ricoperte ora di residui lavici, ora di muschi, ora di prati verdi sui quali pascolavano libere innumerevoli pecore e cavalli allo stato brado e sui quali si stagliano dei fiorellini bianchi di cotone selvatico, chiamato “cotone artico”. La vegetazione è scarsa e solo di tipo arbustivo e le pianure sono attraversate da rughe verdi che assumono contorni irreali, sfondo di cartapesta di una immensa quinta teatrale. Correndo in pulmino attraverso scenari incantati, però, a un certo punto, non possiamo non accorgerci di una lattina di Coca Cola abbandonata al bordo della strada. Coca Cola, l’emblema del consumo e del capitalismo statunitense: non a caso poco sopra si accennava all’ammirazione degli islandesi nei confronti degli americani anche se siamo matematicamente certi che non è stato un islandese ad abbandonare quella lattina, ma sicuramente un turista. Anzi, bisogna dire come prova della disabitudine degli islandesi a un territorio dove ci siano rifiuti, che non esistono, in nessun luogo tranne che nella capitale e nei centri di ristorazione, cestini dove depositare i rifiuti. Un messaggio subliminale: i rifiuti non sono concepiti, non sono nemmeno pensati, non ve ne sono in nessun luogo, tranne che qualche bottiglia di birra poggiata a terra sulle strade di Reykjavik. È per questo che vedere quella lattina ci ha sorpreso e ci ha fatto venire in mente dei versi di Pier Paolo Pasolini tratti da Il Gracco (in Trasumanar e organizzar) in cui il poeta, ironicamente, per sottolineare l’inutilità della poesia nella società dei consumi, afferma di gettare “questo manoscritto” nel Lago Vittoria, in Africa, “diciamo in una bottiglia di Coca Cola”. Oltre all’impianto ironico di fondo, in questi versi è presente anche una denuncia di tipo ecologista: una bottiglia di Coca Cola gettata nella purezza di un lago africano è il simbolo dell’abbrutimento imposto dal consumo e dal capitale. Ebbene, quella lattina di Coca Cola abbandonata al bordo della strada islandese assomiglia un po’ a quella bottiglia gettata nel Lago Vittoria: una violenza, un inutile spregio.

Guardando le basi del Vatnajökull ci rendiamo conto dell’intrigante bellezza della natura islandese. Ma come tutti i ghiacciai del mondo, anche questo è soggetto allo scioglimento a causa del surriscaldamento del clima e si sta ritirando di 50 metri all’anno formando una laguna di ghiaccio con degli iceberg che assumono una colorazione azzurra e che ci proietta improvvisamente in un mondo incantato. Favoloso, bellissimo, irreale come tutti gli scorci che abbiamo visto, come tutti i paesaggi nei quali ci siamo immersi fino a restarne annegati d’incanto. Perché questo incanto duri pensiamo che sia necessario un amore infinito, una custodia speciale che probabilmente ogni islandese prova e mette in pratica nei confronti della sua terra. Ma l’Islanda non sfugge certo all’inquinamento globale, provocato non solo dalle navi da crociera dei turisti ma anche da quelle mercantili, dalle petroliere che viaggiano su rotte nordiche e che possono riversare in mare sostanze tossiche. Non ci sono più paradisi isolati e inattaccabili nel nostro tempo, dobbiamo purtroppo toglierci dalla testa l’idea che esista nel mondo qualcosa di ‘selvaggio’ e di ‘autentico’. Perfino certi villaggi africani, amazzonici o australiani sono stati trasformati in musei a uso e consumo dei turisti. La natura intatta e immune dall’influenza negativa dell’antropizzazione, probabilmente, esiste soltanto nell’immaginario letterario e cinematografico. Ricordiamo ad esempio quello offerto, in forma distopica, da Guido Morselli in Dissipatio H.G. (1977), nel momento in cui, dopo che tutti gli esseri umani si sono misteriosamente volatilizzati, l’autore afferma che “la perdita del timore reverenziale che la natura vasta e incontaminata usava ispirare all’uomo, è una delle menomazioni vitali di cui soffriva la nostra epoca. Ora non c’è più nessuno fra me e la natura, le rupi e i ghiacci sono solitudine, grandezza, allo stato puro, devo ricuperare, riassaporare” (G. Morselli, Dissipatio H.G., Adelphi, Milano, 1977, p. 101). La presenza umana non dovrebbe essere un ostacolo per la natura, come efficacemente dimostra Morselli nel suo romanzo. Dovremmo ricordarci che non stiamo vivendo in una gigantesca Disneyland che abbraccia tutto il globo, un enorme “non luogo” (per utilizzare un’espressione di Marc Augé) che si estende in tutto un mondo in cui la natura esiste soltanto a nostro uso e consumo, come una meravigliosa giostra. Questo è solo ciò che vorrebbe farci credere un sistema economico basato sul capitalismo più sfrenato. Forse siamo ancora in tempo per porre un limite a tutto questo, in modo così da potersi stupire di un incanto vero ed autentico anche negli anni a venire.


Questo è un reportage dal viaggio in Islanda di Francesca Fiorentin e Paolo Lago e le foto appartengono agli autori. Tutti i diritti riservati.

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