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Erbe, arbusti, alberi per il corpo e lo spirito
Giancarlo Fantini
Il Babi Editore 2018

Decenni di esperienza sul campo e di insegnamento hanno consentito all’autore di scrivere un manuale che mette insieme la saggezza dell’esperienza, le capacità dell’insegnante, la curiosità dello sperimentatore e la sensibilità dell’artista. Con il suo libro Giancarlo Fantini (pittore giardiniere) ci porta nel mondo dei vegetali, ci aiuta a capirne la vita, i bisogni e quale sia lo scopo della loro esistenza. La sua grande esperienza ci fornisce le conoscenze utili per dare il meglio alle nostre piante e quindi ottenere il meglio da loro. Quindi non una semplice guida, ma un racconto che ci accompagna in questo mondo affascinante ed antico che ha creato le condizioni per lo sviluppo della vita animale e quindi dell’uomo. Conoscere il mondo vegetale non è mai stato così interessante ed avvincente.

Per concessione della casa editrice vi proponiamo la lettura di un ESTRATTO:

PERCHÉ BIOLOGICO O NATURALE CHE SIA

Rispondo a questa domanda che nel tempo mi sono sentito rivolgere più volte e, invariabilmente, ho dato la medesima risposta:

i nostri antenati, anche in condizioni climatiche poco favorevoli, hanno sempre coltivato ciò che era possibile alle nostre latitudini con tecniche sicuramente bio, rispettando i tempi della natura, conoscendone i ritmi e le stagioni, cercando di mantenere e possibilmente migliorare la fertilità dei suoli. Conoscevano e utilizzavano per alimentarsi molte più specie di quanto non accada oggi, così come non conoscevano l’obesità. Se è pur vero che molti di loro hanno patito la fame, almeno in tempi recenti e di guerra, chi viveva in campagna ha avuto meno problemi dei cittadini. Nei fatti praticavano le rotazioni tramandate loro dai Romani e, in molti luoghi, anche l’anno Sabbatico di biblica memoria, allo scopo di rigenerare i terreni.

Ai tempi nostri il coltivare in modo naturale, cioè senza utilizzo di prodotti di sintesi chimica, dovrebbe essere auspicabile, almeno per chi si occupa di piccole superfici e di produzioni destinate al consumo famigliare: il “sapere cosa si mangia” e il “ritrovare il gusto vero di una volta” non sono dei semplici slogan, ma dovrebbero entrare nella conoscenza di chi per diletto (o sempre più, purtroppo, per necessità) decide di contribuire al bilancio domestico coltivando o rimettendo a coltura piccole porzioni di suoli, spesso marginali. Il rischio maggiore, infatti, di chi pratica l’agricoltura casalinga, non dovendo calcolare i “costi di produzione”, ma utilizzando prodotti di chimici (concimi, insetticidi o diserbanti che siano), è quello di esagerare con le dosi, ritrovandosi, paradossalmente, con alimenti e terreno più inquinati di quelli oggetto dell’agricoltura “convenzionale”. A ciò si deve aggiungere l’ignoranza delle formule chimiche, il pressapochismo nella lettura delle “istruzioni per l’uso” e, non va dimenticato, l’interesse dei commercianti a piazzare qualunque prodotto di sintesi, ignorandone a loro volta i veri effetti. Non è un caso, purtroppo spesso ignorato, che la più alta mortalità tra chi lavora nei campi a tempo pieno, dopo gli incidenti meccanici, veda le intossicazioni come protagoniste, soprattutto di decessi risultanti dalla cronicizzazione di “pesticidi” a seguito di inalazione, ingestione e contatto epidermico.

Rispetto al futuro, se da una parte dovremmo essere ben consci dei doveri che abbiamo nei confronti delle prossime generazioni di lasciare una terra “che abbiamo avuto in prestito”, almeno come l’abbiamo ricevuta, d’altra parte dovremmo anche comprendere come tutte le questioni ambientali e di macroeconomia che affliggono il pianeta ci obbligano a scegliere di coltivare in questo modo. Il problema della “fame nel mondo”, oltre che frutto del colonialismo e del consumismo, nasce anche dalla contemporanea e forzata esigenza di produrre cibi sempre a minor costo per nutrire un sempre maggior numero di abitanti, sempre più concentrati in grandi agglomerati urbani. Il circuito perverso secondo il quale a costi di produzione più bassi devono corrispondere maggiori incrementi nell’uso dei prodotti di sintesi si è scontrato, già da alcuni decenni (e in qualche parte del mondo anche in maniera drammatica), verrebbe da dire banalmente, con i limiti fisiologici dei vegetali coltivati e degli animali allevati: da studente ho imparato la legge della “produttività decrescente”, ma mi sembra che sia una delle più ignorate dai sostenitori dell’agricoltura industrializzata.

Personalmente, da quando ho iniziato a ragionare con la mia testa, ho sempre predicato e praticato l’agricoltura organica, ben prima che diventasse “di moda”.

Ho studiato, purtroppo inizialmente, soprattutto esperienze straniere, ma, in ogni caso, sempre preoccupandomi di provare e sperimentare dal vivo, nelle mie colture, ciò che man mano apprendevo: nelle mie lezioni, che vengono apprezzate soprattutto per la quantità di esempi pratici, ho parlato e spiegato di situazioni e fenomeni incontrati anche nella mia modesta esperienza di “coltivatore diretto”, che negli anni migliori è riuscito a raggiungere quasi l’autosufficienza famigliare mandando avanti un orto di duemila metri quadri.

Infine, mi piace ricordare il tentativo sempre perseguito di rendere semplici e accessibili a tutti concetti spesso propriamente non tali.

Cioè… naturali.

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COME VIVONO LE PIANTE

Nell’iniziare questo primo argomento invito l’attento lettore ad una semplice riflessione: questo libro non avrebbe potuto conoscere la stampa in assenza del mondo vegetale; questo non solo perché sia fatto di carta che ci arriva dal “sacrificio” di qualche albero, ma anche perché e soprattutto l’esistenza stessa di chi scrive e di chi legge sono possibili su questo pianeta da migliaia di anni, perché da milioni di anni le piante sono arrivate prima di noi consentendoci, innanzitutto, di respirare ossigeno e fornendoci direttamente alimenti di origine vegetale e, indirettamente, tutti gli alimenti di origine animale che, povera o che ricca sia la nostra dieta, ci consentono di nutrirci e quindi di campare. Purtroppo la nostra cultura (occidentale) quasi mai ci ha aiutato a pensare ai vegetali come esseri molto simili a noi, preferendo (ultimi in ordine di tempo i fumetti) farci crescere con figure di animali antropomorfi e quindi più simili e a noi vicini.

Di fatto però, le cose sono un po’ diverse da come ci hanno fatto credere: i vegetali infatti per crescere, prima e con noi, devono compiere le medesime funzioni fisiologiche. Essi nascono, crescono, respirano, si nutrono, si riproducono, muoiono e, grazie agli studi più recenti, conoscono anche certi livelli di sensibilità e, perché no, sofferenza. Di contro hanno grossi limiti che gli derivano dalla quasi totale immobilità e, fortunatamente per noi, non possono gridare il dolore o dichiarare l’affetto o altri sentimenti.

La vera differenza per loro sta nei tempi nei quali mettono in atto le loro funzioni vitali, che sono sempre più lenti dei nostri: questo soprattutto a causa del fatto che la più parte degli scambi di liquidi e di gas che avvengono tra loro e il mondo che li circonda possono attuarsi solo attraverso le foglie e, sottoterra, con le radici.

Di ognuna di queste funzioni dirò successivamente; prima devo ancora sottolineare un paio di aspetti.

Uno, che dobbiamo assolutamente conoscere, se vogliamo occuparci della loro cura, è quello delle fasi: in ogni momento della loro esistenza, affinché tutto proceda nel migliore dei modi, devono essere contemporaneamente presenti dei precisi parametri che riguardano luce, temperatura, umidità, con dati anche molto diversi da specie a specie, soprattutto in funzione del patrimonio genetico, cioè, molto semplicemente, dal luogo di origine dei loro antenati selvatici: questo perché la loro vita è molto più condizionata e condizionabile dai fattori ambientali di quanto non accada per le specie animali.

L’altro, comune a ogni specie presente su questa terra, compresi gli umani, è che devono obbedire a quella legge non scritta per cui il primo obbligo di ogni vivente è quello di “moltiplicare sé stesso nello spazio e nel tempo”; unita anche all’altra che li invita a farlo, cioè a riprodursi, con “il maggior numero di partner possibili”.

Di questi obblighi è bene ricordarsene ogni qualvolta ci avviciniamo ad un vegetale per intervenire, a nostro vantaggio, cercando di modificarne il comportamento. A parte dettami di ordine morale e religioso noi umani, assieme a qualche specie di scimmia, abbiamo imparato ad avere rapporti sessuali non necessariamente finalizzati alla riproduzione della specie.

Quando ci capita, ad esempio, l’insalata che va “in canna”, cioè che si sta preoccupando di produrre i semi, è perché l’abbiamo, per troppo caldo o mancanza di irrigazione, messa in crisi e siccome lei non è nata per darci da mangiare le sue foglie, bensì per generare altre piantine di insalata, sentendosi minacciata nella sua sopravvivenza, semplicemente decide di anticipare le fasi di allungamento dello stelo, fioritura, formazione dei fiori e possibilmente dei frutti che contengano i semi, esattamente come fanno tutte le sue sorelle selvatiche.

Analogamente, non possiamo pensare di nutrire allo stesso modo un vegetale di consistenza erbacea e magari con vita annuale con le stesse modalità con cui diamo da mangiare ad un albero da frutta, né pensare di nutrire con gli stessi concimi e le stesse dosi un melo di due anni di età e un suo fratello maggiore che da anni già produce frutta in quantità consistente.

Lo stesso dicasi, evidentemente, per ogni altra pratica che noi ci accingiamo a svolgere su qualsiasi vegetale, soprattutto se, a differenza delle più frequenti (semina, concimazione, irrigazione) che hanno comunque degli equivalenti in Natura, dovrebbe risultare del tutto artificiale, com’è la potatura.

Per capire cosa davvero dobbiamo garantire a ciò che coltiviamo varrebbe sempre la pena di osservare ciò che accade alle piante spontanee: se compaiono in maniera massiccia in un luogo è anche perché in quel luogo si sono verificate le condizioni ottimali per la loro esistenza; infatti, affinché ogni pianta selvatica possa completare il proprio “ciclo biologico”, che va dalla germinazione del seme fino alla produzione di nuovo seme in grado di germinare, è necessario che per tutta la durata del ciclo (che siano settimane o anni non importa) siano sempre presenti le condizioni ottimali che ne hanno consentito la comparsa in quell’area precisa. Ed è sufficiente che uno di questi parametri si manifesti in difetto (o in eccesso) che la pianta, erba, arbusto o albero che sia, può andare in crisi, cioè star male e diventare per questo semplice fatto, più facile preda di parassiti e malattie.

Di tutto questo dobbiamo essere certi ogni volta che ci accingiamo a coltivare qualunque specie: dalla semina o trapianto, fino al completamento del loro ciclo che, va ricordato, spesso non gli consentiamo di fare perché non ci interessa raccogliere tutto il vegetale, ma solo una parte di esso che arriva a “maturazione” in un momento preciso.

Ad esempio, un coltivatore di carote ferma il ciclo vitale della carota dopo che questa ha prodotto le foglie e ingrossato la radice, mentre un produttore di semi di carote ha bisogno che la stessa possa portare a compimento anche la fase di produzione e maturazione dei semi.

Entrambi i coltivatori devono però conoscere tutte le fasi della vita di questa ombrellifera perché lei vorrebbe, in ogni caso, portarla a compimento.

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