Supporta il progetto ZEST: associati, Sostienici oppure Abbonati alla Rivistascopri di più
Foto di Daniele Ferroni

Foto di Daniele Ferroni

Intervista di Alessandro Canzian a Franco Buffoni

 Come definiresti la Poesia? A cosa serve?

La poesia si esprime mediante insiemi di parole che hanno dei significati comprensibili all’intelletto ma che – allo stesso tempo – posseggono anche un aspetto musicale. Tale aspetto musicale tuttavia non è indispensabile per la comprensione del significato letterale delle parole.
La musica si esprime soltanto mediante quelli che siamo soliti definire suoni puri, senza altri elementi. Tali suoni possono evocare dei pensieri o delle fantasie, ma non possono esprimere dei pensieri in grado di coprire tutti quegli aspetti intelligibili della realtà che sono invece esprimibili per mezzo del linguaggio verbale e dunque poetico.
La musica può efficacemente evocare dei concetti, ma non è in grado di esprimere dei pensieri compiuti, o una critica sociale contestualizzata, che solo la letteratura può esprimere.
Quando si celebrò il secondo centenario del tricolore italiano, nel 1997, a Reggio Emilia, patria della nostra bandiera, venne invitato Mario Luzi. Perché Luzi? Perché cento anni prima era stato invitato Carducci. Riflettiamo: Carducci, il poeta vate, alla fine dell’Ottocento, a festeggiare il centenario del tricolore aveva un senso. Cento anni dopo Luzi venne invitato nella convinzione di creare una simmetria. Chi era il poeta italiano in pole position per il Nobel secondo gli accademici del Lincei? Mario Luzi! E allora Mario Luzi venne invitato a Reggio Emilia. Nessuno dei presenti conosceva i suoi versi e nemmeno i titoli dei suoi libri. È evidente che, per creare una vera simmetria con Carducci, avrebbero dovuto invitare Claudio Baglioni.
Il bisogno di poesia anche nelle masse più incolte è immenso. Solo che viene soddisfatto dai versi delle canzoni. Gli adolescenti li conoscono a memoria, lo si vede da come partecipano quando uno dei loro beniamini si esibisce. Poi gli adolescenti crescono, e quei versi a memoria restano: sottocultura. Il fatto in sé non è così peregrino: ci sono tradizioni poetiche – come quella di lingua russa o di lingua araba – dove la poesia è cantata ancora oggi. Anche nella nostra tradizione era così: la “canzone”. Ma erano altri tempi.
Personaggi come Fernanda Pivano hanno fatto di tutto perché alla figura del poeta in Italia si sostituisse la figura del cantautore. Le conseguenze negative sono sotto gli occhi di tutti: una grande confusione.
Lasciamola sopravvivere, povera poesia, quella vera, quella che magari pochi leggono; perché è solo quest’ultima che davvero “inventa” la lingua, che realmente la rinnova. Molto pertinenti, a questo riguardo, mi paiono le parole di uno dei miei maestri, Giovanni Raboni:La poesia non è né uno stato d’animo a priori né una condizione di privilegio, né una realtà a parte né una realtà migliore. E’ un linguaggio: un linguaggio diverso da quello che usiamo per comunicare nella vita quotidiana e di gran lunga più ricco, più completo, più compiutamente umano; un linguaggio al tempo stesso accuratamente premeditato e profondamente involontario, capace di connettere fra loro le cose che si vedono e quelle che non si vedono, di mettere in relazione ciò che sappiamo con ciò che non sappiamo”.

Come definiresti invece la TUA Poesia?

Il Novecento (e non solo in Italia) ha sempre più preteso per la poesia (e non solo per la poesia: anche per la pittura, per la scultura, per la musica) un affinamento e una preparazione in chi legge (o in chi fruisce). Affinamento e preparazione che generalmente le persone non posseggono.
Inoltre in nessun campo come in poesia c’è dilettantismo deteriore. Perché è vero che il dilettantismo esiste ovunque, ed è giusto che ci sia. Quanta gente gioca a pallone sul campetto, poi però ammira Messi e Balotelli. In poesia, invece, tanti dilettanti sono convinti che altri semplicemente abbiano avuto più fortuna di loro, perché loro sono bravi altrettanto. Per cui, mentre quello che gioca nel campetto poi vede le partite e ammira i protagonisti, il dilettante che scrive poesie – i cinquecentomila canonici che scrivono e pubblicano (a pagamento) poesia in Italia – non leggono i poeti veri, se non in minima parte. Questa è la tragedia, una tragedia di sottocultura e d’ignoranza.
Con quarant’anni di lavoro poetico ormai alle spalle, posso dire che dal punto di vista della sorgività della lingua poetica, della naturalezza, quelli che veramente contano sono i primi due decenni della vita. E per me tradurre è stato un esercizio essenziale, per tenere in esercizio i muscoli, partendo da qualcosa che non è una pagina bianca; può essere faticoso, ma anche molto piacevole. Poi, il vero giudizio viene col tempo; sono poche le traduzioni destinate a restare: traductions-text, le definisce Meschonnic.
Anche la riflessione teorica sul tradurre è stata per me fondamentale: mi ha permesso di leggere il mio impegno poetico in un’ottica storico-filosofica oltre che filologica. Sono un anceschiano prima maniera: credo fermamente nei concetti di “poetica” e di “progetto”. Avevo vent’anni nel Sessantotto e la prima cosa che lessi quando cominciai a occuparmi di poesia da adulto fu il Manifesto a I Novissimi di Giuliani. Quindi potete immaginare quanti proclami ho ascoltato nella mia vita. Ma non sono mai riuscito a prenderli sul serio, cioè non ho mai pensato che attraverso delle parole d’ordine si potesse arrivare a produrre vera arte. Non credo che uno possa dire: abolisco l’io e arriverò a scrivere cose sublimi; se invece mi tengo l’io scriverò delle sciocchezze: non è possibile. Il vero punto non è abolire l’io; il vero punto è possedere una grande tecnica e una vera poetica. Una poetica non è qualcosa che ti costruisci abolendo l’io. Vivere in apnea è possibile. Per qualche minuto ci si può anche illudere. Persino Zanzotto lo ha fatto. Ma poi, per tornare a galla, dovette ricorrere persino al suo dialetto.

 Che consigli daresti oggi al poeta esordiente ma anche al poeta che lavora già da qualche anno?

Giungere a capacità tecniche di discreto livello in poesia è possibile, con molto esercizio. Avere delle urgenze, delle cose da dire, è possibilissimo. Le due cose non sono sufficienti; per far sì che si possa produrre vera arte, queste capacità e queste istanze devono sciogliersi in una poetica.  
Perché questo è il punto: da un punto di vista tecnico si possono produrre testi ineccepibili sul piano formale ma tristemente aridi; come dal punto di vista contenutistico si possono avere grandi intuizioni, ma se fuoriescono testi non modulati, il risultato non può dirsi raggiunto. Il segreto sta nel modulare il grido.
Una poesia originale non è una poesia che parla di cose di cui nessuno ha parlato prima. Leopardi è unico quando parla della/alla luna, non perché l’oggetto sia originale (sta persino nelle lettere che il Colletta gli scrive), ma perché la sua poetica è immensamente pulsante e vitale. Keats – quando nel distico conclusivo dell’Ode on Grecian Urn associa Beauty a Truth e Truth a Beauty – non compie un’associazione originale: sono due termini che l’estetica inglese del Settecento frequentemente pone in connessione. Ma Keats rivive l’associazione all’interno della sua poetica. E quelli diventano versi che, letti una volta, non si dimenticano.
Il linguaggio poetico, per essere realmente tale, deve essere sorgivo, germinativo. Deve cioè nascere nella mente del poeta come una originale unità di suono, immagine e significato.
La lingua deve dunque “cantare dentro” per farsi poesia. Molta poesia moderna si è costituita sulla base di presupposti diversi da questi, o li ha interpretati in un modo che ha finito per stravolgerne il senso profondo, concependosi come costruzione intellettuale e gioco di significanti chiusi in se stessi. Sull’onda anche delle suggestioni della psicanalisi, si è creduto che manifestazioni privilegiate della sorgività del linguaggio fossero il monologo interiore, la scrittura automatica e altre forme linguistiche pre-conscie legate a procedimenti di associazionismo semantico e fonico.
Quindi ai più giovani poeti non ho nulla da “consigliare” che non sia contenuto nell’augurio di avere tempo e pazienza per tanto leggere e tradurre. Non solo poesia, ma anche grande prosa: c’è da lavorare un’intera esistenza e oltre. Poi, se qualcosa di sorgivo si muove e diventa arte, bene; altrimenti quel tempo dedicato a leggere e a tradurre sarà comunque stato ben impegnato.


Nella poltrona che ti conteneva
La sera prima di morire
Ho trovato una corona del rosario
Finita sotto il cuscino.
Forse all’improvviso ti eri volta
Verso la porta: arrivavo
Ogni tanto, e tu
Cambiavi espressione:
Ti tornava la luce negli occhi,
Uscivi dalla poltrona.

Franco Buffoni
“Avrei fatto la fine di Turing”
(Donzelli 2015)

 

 

Share

Franco Buffoni | Sulla Poesia

error: Content is protected !!