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In Territorio selvaggio | in dialogo con Laura Pugno


Redazione ZEST

Nel 2018 nasce In territorio selvaggio. Lei lo ha definito «un quaderno d’appunti», che ha per sottotitolo Corpo, romanzo, comunità, e aggiunge che le cose che ha scritto sembrano avere poco a che fare con ciò che s’intende normalmente per selvaggio. Cosa le lega invece? Inoltre, crede che il selvaggio oggi abbia bisogno di una ridefinizione?

Una ridefinizione del selvaggio mi sembra in corso da sé, a giudicare dall’accoglienza ricevuta dal mio libro, che è nato come un saggio sul romanzo, sul tipo di romanzo che implicitamente (o esplicitamente) l’editoria oggi chiede agli scrittrici e agli scrittori, e sulle implicazioni a tutto campo, e quindi necessariamente politiche, di questa silenziosa richiesta; ed è stato interpretato con passione come un saggio sull’ambiente – anche quell’ambiente che ogni giorno noi crediamo di essere a noi stessi, percependoci ancora e sempre come qualcosa di separato in corpo e mente, invece che come essenziale unità. La percezione che il corpo sia un paesaggio alieno, o comunque un luogo esterno da abitare, e non il nostro stesso sé, crea la cesura del selvaggio, la sua determinazione culturale.

In questo, quello che poteva sembrarmi all’inizio un gioioso fraintendimento, o una felice eterogenesi dei fini, mi si è rivelata poi, nelle molte conversazioni che In territorio selvaggio ha suscitato – e non ultime tra queste, quelle che, proprio partendo dalle ultime pagine del saggio, in cui traccio un’analogia tra il concetto di Terzo paesaggio in Gilles Clément e lo stato della poesia in Italia oggi, ho raccolto nella serie “Poesia, terzo paesaggio?” per Le parole e le cose 2 – come un elemento di insight e di ragione apportata dalla lettura, dalle lettrici e dai lettori, rispetto alla scrittura.

A legare corpo, romanzo e comunità è la richiesta, implicita in chi legge in questo modo, che la letteratura non smetta – o torni, a seconda della prospettiva che si preferisce adottare – a occuparsi fortemente, appassionatamente del mondo, un mondo che oggi pone anche, e soprattutto, e con violenza, davanti a noi le crisi e le sfide del cambiamento climatico e del riscaldamento globale. Non per trasformarsi in letteratura civile o didattica e di progetto, dato che quello tra etica ed estetica è sempre un crinale, ma per contribuire a pensare nuovi pensieri con i propri strumenti, gli strumenti della ricerca. A un certo punto di In territorio selvaggio scrivo, Hai scritto spesso che nel romanzo di ricerca – intendendo qui e ora per ricerca non tanto l’aspetto linguistico, quanto la posizione dell’opera rispetto a quanto già esiste, a quanto già è stato scritto – un qualcosa spesso affiora quando, nella società in cui quel romanzo nasce, diventa possibile pensare quel qualcosa in modi diversi da quanto fino ad allora è stato fatto. Affiorano le domande che un certo tempo comincia a porsi.”

In questo senso, il romanzo è aperto, è l’apertura del campo. È il contrario della paura, non la paura delle domande, ma quella che si annida nelle risposte. Uno strumento per porre domande, questo fa di ogni romanzo un romanzo di avventure, cercate o di necessità, o entrambe le cose insieme. Il romanzo di ricerca è il qualcosa a cui non vogliamo pensare, e allo stesso tempo non possiamo fare a meno di pensare, l’elefante al centro della stanza – o l’alieno, o l’enorme tigre dai denti a sciabola, o qualcuno che ha le nostre stesse fattezze e forme – che bendati percorriamo con le mani.

Oggi questo tipo di romanzo è minoritario, perché è in qualche misura disturbante, o forse sarebbe piú giusto dire che è perturbante – come prima, unheimlich. Trasforma ciò che è familiare in qualcosa di lontano, a volte di estraneo, ci rinnova la vista, gli occhi che posiamo sul mondo.

Il pensiero sulla frontiera – che attraversa tutto il mondo a cominciare dai nostri stessi corpi – tra natura e cultura è qualcosa che inevitabilmente ci accompagna. Non perché la questione della natura sia mai stata assente dal pensiero umano, ma perché abbiamo acquisito potere e allo stesso tempo vulnerabilità, e di questa vulnerabilità, lentamente, stiamo diventando – o forse la parola esatta è tornando a essere – consapevoli.

Nel suo quaderno di riflessioni eco-lit-filosofico lei parla dei lettori e delle lettrici, e dice: «Il romanzo, allora, è un territorio addomesticato? È una casa, un giardino? Se è un giardino, è uno spazio in cui una nuova conoscenza è proibita? Quel tipo di giardino, l’Eden, in cui crescono alberi di mele dorate, irraggiungibili, ma per il resto ogni conforto del corpo è concesso?» Cosa chiede Laura Pugno a un libro.

Se devo rispondere a questa domanda oggi, direi che per me ogni forma di lettura è diventata ricerca, tutto è tessuto insieme, tutto conduce a nuove forme di scrittura. Non riesco quasi più a leggere in modo onnivoro, tutto è passato al crivello o al setaccio, anche quando le ragioni di certe scelte di lettura mi si rivelano magari qualche tempo dopo, tra me e me stessa. La letteratura per me è sempre stata, ma è diventata sempre più una quest, una quête. E forse è proprio quello che chiedo.

Per lei tra bosco e giardino sembra intercorrere la stessa differenza che passa tra un danzatore e un ballerino. È possibile dire che dopo Candido volterriano e il faut cultiver notre jardin, oggi sia necessario cultiver notre bois?

Sì, direi di sì. Quest’immagine mi piace moltissimo.

Da Dante e la selva oscura a Cappuccetto Rosso e l’incontro con il pericolo, il bosco è il luogo magico e inquietante in cui perdersi per poi ritrovarsi. La sua simbologia potente oggi cosa racconta?

Lo scorso mese di dicembre, ero a una presentazione de L’alea – l’ultima raccolta di poesia che ho pubblicato nel 2019, per Giulio Perrone, e che riprende anche testi di alcuni anni prima, come La mente paesaggio, che era uscito con lo stesso editore nel 2010 – presso la libreria L’altracittà di Roma, che con le sue vetrate splendenti mi era apparsa, nel buio del pomeriggio invernale, come una casetta illuminata nel bosco. Scherzando con Silvia Dionisi, la libraia, con Elvira Seminara che presentava l’incontro, e Maria Teresa Carbone, giornalista e amica, ci siamo dette che in realtà nelle fiabe le case illuminate nel bosco sono spesso i luoghi dell’estremo pericolo, molto più di ciò che vi sta intorno. Non il bosco in sé quindi, pur con quella che leggiamo come ferocia della natura, ma l’elemento umano in reazione ad esso. Così il bosco ci appare come il luogo, in noi e fuori di noi, dove avviene ciò che non ti aspetti, the unknown unknown, l’alterità reale rispetto all’alterità presunta, o immaginata, o addomesticata: in realtà, è il luogo della possibilità, il luogo in cui accettiamo di compiere, con Marguerite Yourcenar e gli alchimisti, la nostra opera al nero.

Per raccontare il terzo paesaggio di cui parla Gilles Clement crede che occorra una terza scrittura o scrittura altra?

La scommessa più interessante da questo punto di vista, rispetto a tutti i terzi paesaggi possibili, non solo ambientali, ma anche letterari e politici, mi sembra che oggi si giochi in poesia. Forse proprio perché è stata tanto a lungo ai margini, nell’incolto, nelle friches – ai margini dell’editoria e del mercato – e ora torna a essere di nuovo oggetto di attenzione. Proprio questa marginalità, questa alterità, infatti, si sta paradossalmente trasformando in una posizione di forza.

La poesia in Italia è in qualche misura a un bivio.

Da una parte, tra i due poli opposti di ricerca e riconoscimento/riconoscibilità, la bilancia sta pendendo sempre più fortemente in favore della seconda; e se la ricerca può portare con sé un rischio accentuato di separatezza e lontananza rispetto al discorso comune, questa seconda strada, che al contrario accentua gli elementi di somiglianza – col discorso comune, della poesia con un certo idealtipo di forma e contenuto, e dei poeti tra loro – comporta una variante forte di codificazione. Poesia non è più potenzialmente tutto ma tendenzialmente una certa forma di parola che parla di una certa forma di cosa, che il lettore si aspetta e che sa dove trovare. È già stato così in molte epoche, è la polarità Petrarca, in un certo senso, e può essere interessante esplorarla di nuovo, ma sempre tenendo presente che stiamo parlando di una codificazione (e naturalmente anche le forme di ricerca, se si cristallizzano, possono tradursi in codificazione).

Allo stesso tempo, la sensibilità, ad esempio, per la nuova scienza – vale a dire, le rinnovate visioni che negli ultimi tempi ci vengono offerte dalla fisica quantistica, ma anche dalla neurobiologia e dalla botanica, o dalla paleoantropologia, sulla nostra reale posizione nel mondo, possibile di trasformarsi, attraverso una presa di consapevolezza, in postura politica – o per i rapporti col mondo non-umano, animale o vegetale, per tutti questi discorsi compresenti e contemporanei che sempre più confluiscono in uno, questa sensibilità mi appare oggi molto più marcata nella poesia che nella prosa. E questo proprio in quanto la poesia conserva una marcata tendenza-pensiero, che le viene dalle decadi dell’esperienza della ricerca, dalla coscienza della necessità inevitabile di una poetica, perché una poetica, proprio come una teoria, à la Popper, c’è sempre, è il nostro sguardo sul mondo, il nostro pre-giudizio.

Se c’è un nuovo umanesimo in fieri, che paradossalmente parte proprio dalla constatazione che l’uomo/la donna non è la misura di tutte le cose ma è profondamente parte del tessuto del mondo perché è mondo, mi sembra che oggi si stia dando soprattutto in poesia, come un nuovo inizio. La poesia del Duemila, che ha attraversato il Novecento e cerca un suo oltre.

In che relazione possiamo mettere il potere della parola scritta, la narrativa e la consapevolezza di far parte di un ecosistema complesso? Può la letteratura assorbire una funzione “politica” sostitutiva?

Ricollegandomi a quanto ho appena scritto, credo, sì, che la letteratura abbia una funzione politica, ma questa funzione non è diretta, è indiretta: è politico ciò che fa parte dell’umano, e scrittura e letteratura – insieme a tutte le altre arti, all’arte in genere – sono ciò che di più umano esiste. Non sta quindi alla letteratura sostituirsi alla politica, ma mantenere un senso di apertura che rende in qualche misura possibili nuove dimensioni del politico. Ho scritto spesso che gli scrittori sono sensori del proprio tempo, e a volte hanno la fortuna o la ventura – o entrambe le cose insieme – di anticiparlo: proprio in questa forma di percezione sottile, di rabdomanzia quasi, può annidarsi l’intuizione politica in letteratura.


Laura Pugno è nata a Roma nel 1970. Poetessa, scrittrice e saggista, dal 2015 dirige l’Istituto Italiano di Cultura di Madrid. Ha pubblicato, in versi: Tennis (poesie con prose di Giulio Mozzi, NEM, 2001), Il colore oro (con foto di Elio Mazzacane, Le Lettere, 2007), DNAct (ZONA, 2008), la plaquette Gilgames’ (Transeuropa, 2009), La mente paesaggio (Perrone, 2010), Bianco (Nottetempo, 2016), I legni (Pordenonelegge, 2018), L’alea (Perrone, 2019). In prosa, ha pubblicato i romanzi Sirene (Einaudi, 2007 – Marsilio, 2017, edito in Francia da Inculte, traduzione di Marine Aubry Morici), Quando verrai (minimum fax, 2009), Antartide (minimum fax, 2011), La caccia (Ponte alle Grazie, 2012), La ragazza selvaggia (Marsilio, 2016, Premio Campiello Selezione Letterati), La metà di bosco (Marsilio, 2016) e la raccolta Sleepwalking. Tredici racconti visionari (Sironi, 2002). Nel 2018 è uscito il saggio In territorio selvaggio (Nottetempo) e nel 2020, con Giulio Mozzi, l’Oracolo manuale per poete e poeti (Sonzogno).

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