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Foto di Alessandra Merisio

di Antonia Santopietro |

Davide Sapienza è una forza della natura, forse perché nella natura trova la sua forza, poetica, creativa, di ispirazione, e modello di vita. Una biografia difficile da contenere nelle regole ingenerose del web, che spazia dalle molte pubblicazioni, alla traduzione delle opere di Jack London, alla poesia ai saggi, alla musica. Un continuo fermento.

Quando ho pensato di intervistarlo per ZEST, colpita in particolar modo dalla sua definizione di “Geopoeta” e l’ho contattato, ho trovato una persona accogliente, gentile, piena di luce, e tanta voglia di condividere un mondo affascinate. Ho pensato allora di non chiudere questa chiacchierata in domande circoscritte a quel libro o quell’evento, e gli ho chiesto di portarci per mano.

Le storie hanno snodi che assomigliano a una illuminazione, nella tua vita ricordi quante volte si sono presentati i momenti in cui hai poi impresso un moto differente? e come è avvenuto?
Ci sono diversi momenti di “snodo”, passaggi in cui il percorso aveva condotto il cammino, in parte scegliendolo e in parte lasciandomi vivere dalle situazioni. Sono convinto che gran parte di questi snodi si sono presentati perché lì mi ero voluto trovare, perché ero in un momento cruciale della mia vita. Penso a come nacque la chiamata da RAITRE DSE, nel 1992. L’importante è farsi sempre trovare pronti, attitudine che devo allo sport, che ti aiuta a prendere decisioni rapide e a non guardarti indietro. Se a 22 anni hai già pubblicato tre libri, significa che stai facendo quello che avevi voluto fare – quello che tu non puoi sapere è se questi saranno successi di vendita. Ma anche in quel caso, sei tu che puoi capire che quello snodo è solo un valico, un passaggio verso nuovi territori: senza guardarti indietro, prosegui per andare sempre oltre te stesso e aprirti al mondo. Credo alle sincronicità: facendo certe scelte crei presupposti sempre più precisi per fare accadere le cose giuste per il tuo percorso, citando Jung, “diventi te stesso”. Allora, tutto questo mi appariva normale: trent’anni dopo mi rendo conto che ero un adolescente con le idee chiare. Finiti gli anni rock, con gli enormi e meravigliosi doni che mi hanno concesso, volevo continuare e diventare grande, scrivendo come narratore, anzi come creatore di qualcosa di diverso, in un territorio letterario poco esplorato. La scrittura è il mio mezzo, il viaggio la meta, perché mi consente di non restare chiuso nel recinto. Viaggio interiore, viaggio fisico, viaggio spirituale. Tutto questo è nel mio “manifesto” letterario del 2004, I DIARI DI RUBHA HUNISH (che sarà in terza edizione nel 2017).

Non a caso ricorre la parola “moto”, proviamo a fare una mappa mentale per chi ci legge, metti insieme le parole che ti identificano come fossero un percorso. E parliamo delle ragioni del “cammino“.
A pagina uno di ZANNA BIANCA Jack London scrive, “l’uomo è la creatura più irrequieta che la vita conosce”. Dunque potrei dire che inquietudine, sensibilità, visione, volontà, intenzione, movimento (lo sport da giovane, il movimento in montagna e nelle traversate da adulto), sogno, testardaggine, convinzione nei miei mezzi, umiltà, capacità di ripartire e riconsiderare le mie convinzioni, non guardarmi indietro, viaggiare leggero, aprire tracciati dentro nuovi territori dell’immaginario – tutto questo e altro è stato il mio percorso, ma tanto resta da fare perché nella vita non si arriva, si viaggia. Si cammina. Si sceglie, possibilmente, una velocità di crociera e da ventisei anni ho scelto la mia velocità per stare in sintonia con la montagna come chiave di lettura del territorio e per capire quale ruolo posso ricoprire, senza fossilizzarmi.

Hai un’attività creativa letteraria molto ampia, dalla traduzione, alla musica, alla poesia, al giornalismo, qual è il punto di contatto?
Io non vedo differenze tra questi atti creativi, mi interessano le connessioni. Reagisco di fronte alle situazioni, cerco un momento giusto per la rivelazione – lo shining – uno dei cardini del mio agire poetico. Si, la poiesis greca, la creazione e il fare sono l’unica cosa che davvero mi interessa. Cerco di vivere ogni esperienza come nell’attimo stesso della creazione, il primo/ultimo bagliore: tutto si svolge nell’attimo, non esiste passato presente o futuro. Esiste il DURANTE ETERNO DELLE COSE (da qui il titolo dell’ebook di poesie edito da Feltrinelli Zoom) che si estende come un territorio senza confini, solo orizzonti. Questo, è il punto di contatto, la connessione tra i diversi tracciati, non la separazione in visioni per me superate, scolastiche, metodologiche. Nessuno può insegnarti l’esperienza, darti un diploma in creatività. Rifiuto questi assunti, tutto oggi è mercificato, un tumore esteso anche nel mondo editoriale che si è assuefatto ai numeri, un semplice rinviare il problema più grande, quello della promozione di contenuti capaci di agire a lungo termine. Questo, in generale, con dovute eccezioni, mi pare la malattia e la malattia è il primo passo verso la guarigione: se la ascolti.

Parliamo di Geopoesia, qual è la definizione più esatta?
All’Istituto Geopoetico di Kenneth White, si danno definizioni della geopoetica dicendo che il geopoeta non esiste. Ma i dogmatismi non mi attraggono: trasferiscono il monoteismo religioso (e io preferisco il rispetto per il mistero delle antiche civiltà politeiste: pensiamo a quale atto di umiltà era questo, invece di semplificare, riconoscevano la complessità dell’universo e della Vita) a quello culturale.

È la fede in un unico metodo organico, quando davanti a noi abbiamo una Comunità della Terra ricca per la sua biodiversità, dunque è la diversità che deve diventare paradigma, perché la diversità significa libertà. Come non esiste un solo modo di risalire un sentiero, nel caso del geopoeta non può esistere un solo metodo di vivere e raccontare il territorio, le connessioni, le sinapsi che provoca in noi.

Ho già trascorso abbastanza tempo della mia vita a scuola, dove ho imparato molto, ma la vita mi ha anche insegnato a “disimparare”, a smontare un giocattolo formativo che ti indirizza su un’angusta strada che ti fanno apparire come l’unica possibile. Se il tuo vascello porta sempre un carico deciso da altri, lungo rotte decise da altri, farai viaggi decisi da altri nei quali tu sarai un semplice turista. Siamo di fronte all’immensità e mi tocca leggere idiozie quali “non esiste più nulla da scoprire al mondo”: lo scrissi ne I DIARI DI RUBHA HUNISH che non credo a questa visione asfittica: ognuno di noi di fronte a luoghi e persone sconosciute deve pensare che vale lo stesso per loro e da questo incontro nasce sempre qualcosa di nuovo. Ma questa visione insopportabile nasce proprio dal meccanismo suddetto: metodi superati. Bisogna andare oltre e la geopoetica è il semplice recupero della meraviglia di giocare con gli ingredienti della geografia e della creatività per arrivare a nuove visioni. E’ una conversazione, la geopoetica e lavora sulla creazione offerta copiosamente ai nostri sensi, alla nostra mente, alla percezione della realtà. Perché la geografia è la scienza più sincera: non può mentire, proprio come la creazione non può mentire. Per me raccontare storie che prendono vita nel territorio della quotidianità più normale o magari più straordinaria delle terre lontane, è la cosa più importante. Lo posso fare nelle 1200 battute di un Sentiero d’Autore sul Corriere della Sera, lo posso fare nelle duecento cartelle di un libro, lo posso fare durante un cammino geopoetico con trenta, quaranta persone che non conosco.

Della Geopoesia ci interessa la pratica, raccontaci la tua esperienza: esiste una Scuola?
Esistono esempi sparsi nel tempo e nello spazio. Ma i primi esseri umani furono geopoeti prima della geopoetica e la loro scuola era l’esperienza quotidiana: cosa faccio adesso in questo luogo? La loro scuola dava lezione seguendo d’istinto il principio dell’interazione esperienziale. Lo stesso vale nella scrittura. Se vai a scuola di scrittura perché vuoi diventare scrittore, significa rinunciare a trovare la tua lettura del territorio letterario, per trovare la lettura del funzionamento della macchina tradizionale del raccontare. Molti grandi registi hanno detto che per diventare un grande regista devi vedere tanti film. Lo stesso vale per la scrittura: leggi, guarda, osserva, soprattutto, vivi: Jack London è il mio esempio supremo di questo. Se vuoi scrivere per (raramente) “avere successo” devi strandardizzarti e il rischio è di essere come in Another Brick In The Wall dei Pink Floyd. L’idea che stiamo sviluppando con Alpes (Officina culturale di luoghi e paesaggi) è in realtà basata sul concetto del disimparare ciò che sai o che credi di sapere, spogliarti delle tue categorie interpretative del territorio – geografico, culturale, antropologico, chiamiamolo come vogliamo senza dimenticare che viviamo in un Mondo Unico – provare a essere come il ragazzo selvaggio di Truffaut. Proprio come i musicisti che suonavano per raccontare storie e in seguito cantare canzoni, prima che esistesse una formulazione scritta delle note e dello spartito: le note e lo spartito sono linguaggi utilizzati per controllare questo flusso, ma la composizione più libera viene dalla non strutturazione, che poi eventualmente, quando hai trovato la tua personale voce, potrà essere in parte strutturata. Molti grandi del rock che ho intervistato e conosciuto non sapevano neanche leggerle le note. E hanno cambiato il mondo. Non dovremmo mai dimenticare che un linguaggio espressivo esiste già prima che venga teorizzato: siamo noi, a posteriori, che necessitiamo di fare catalogazioni. Ne ho avuta prova diretta in diverse situazioni di cammini o viaggi a piedi geopoetici, specialmente se c’è modo di coinvolgere le persone nell’atto creativo.

 “Cose che accadono in Norvegia”… ci vuoi raccontare?
In Norvegia viaggio da circa vent’anni (i miei libri e molti reportage grondano di essenze norvegesi e artiche). Quest’anno mi hanno invitato al festival letterario Det Vilde Ord (La parola selvatica) a Bodo, nel Nordland. Uno degli eventi prevedeva un cammino geopoetico e uno la conferenza sulla “scrittura naturale” (come al simposio “Naturalism” dell’American Literature Association nel 2007 in California, collegata al mio lavoro sull’opera di Jack London). Nasce da qui l’invito da parte del Nordland National Parksenter di lavorare su alcuni progetti geopoetici da individuare in un territorio dove si trovano cinque parchi nazionali. Per ora siamo “in progress” e il viaggio appena concluso è stato un approccio con il Saltdal e lo Junkerdal – persone, artisti, situazioni, storici, guide e naturalisti. L’Artico è una vibrazione, il mio diapason spirituale, più di ogni altro territorio sinora conosciuto nei miei viaggi.

Una domanda che potrebbe apparire banale, qual è il tuo rapporto con l’ambiente?
Amo poco chiamare la Terra “ambiente”, è freddo, non invita al legame, ma induce un’idea di distanza. Cerco di capire il mio ruolo all’interno di questa Comunità della Terra, provando a scrollarmi di dosso i resti dell’antropocentrismo, che ci ha portato a essere una specie la cui arroganza si sta trasformando in un lento suicidio. Anche se confido molto nell’immaginazione, siamo in un’epoca che necessita di una grande rivoluzione spirituale e di un riscatto della politica rispetto alla dominazione della tecnologia, dei tecnocrati, delle multinazionali e di tutto ciò che è troppo potente per essere tollerato, perché impone la mediocrità e la dittatura di una falsa democrazia, che non è democrazia, ma statistica, sondaggi e condizionamento al non-voto.

Abbiamo recensito un bel libro di Serenella Iovino, Ecologia Letteraria, dove tra le altre cose si individua il nesso tra letteratura e ambiente, secondo la tua esperienza, in che modo si intersecano?
Si intersecano nel momento in cui chi scrive ha consapevolezza di quello che sta facendo. Non avere niente da dire e scrivere è anti ecologico: si inquina il pensiero, si inquina l’etere. Bisogna scrivere senza gli ingredienti del kit preconfezionato da troppi editor da apparato, dannosi per la creatività. Il che è anti ecologico: va contro la naturalità espressiva di un essere umano. Altro è aiutare una storia a essere esposta meglio, ovviamente. Nel mio romanzo LA VALLE DI OGNIDOVE il protagonista che compie un viaggio particolare, esprime per forza concetti ecologici (nel capitolo “La natura piccola”) perché spiritualmente tendenti alla consapevolezza, che è il sottotesto, il motiv del libro. Dalla consapevolezza nasce la spinta alle scelte e da qui all’azione. Se l’ambiente, la natura, diventano semplicemente come un vaso con la pianta da mettere sul pianerottolo, quella è una pianta, non la foresta. Nei miei libri esiste questo legame semplicemente perché fa parte della mia fibra creativa. Ho anche lavorato sulla tematica Rights of Nature, che ho introdotto in Italia curando I Diritti della Natura. Wild Law di Cormac Cullinan (Piano B, 2012). Un movimento che in Europa si sta muovendo anche con l’iniziativa Essere Natura e che il neonato magazine WALDEN mette in primo piano nel suo percorso di “ecologia della mente”. Sul tema ho fatto varie conferenze divulgative e incontri con processi simulati, dove facevo l’avvocato difensore della Natura utilizzando i principi giuridici esposti dall’avvocato Cullinan, capofila internazionale del movimento Rights of Nature.

La responsabilità ambientale, a tuo avviso, come si trasporta e traduce nel quotidiano?
Nelle scelte che si fanno, anche rinunciando attraverso piccoli gesti che se pensiamo moltiplicati per sette miliardi, diventano giganteschi.

Dobbiamo continuare a creare modelli migliori di quelli ormai superati, ma dominanti – vedasi combustibili fossili su larga scala – e non scoraggiarci. So che le venti navi cargo più grandi del mondo inquinano più di tutte le automobili circolanti sul pianeta: ciò però non mi autorizza a usare l’auto per ogni minimo spostamento. Più avrò a disposizione la possibilità di essere ecologico, più lo sarò e questo è il principio che dovrebbe guidare le scelte collettive e quello che chiediamo ai nostri governanti.

Se ciò è accaduto in Cina, che da un paio d’anni ha deciso di chiudere con i combustibili fossili per andare nella direzione delle energie rinnovabili, beh, si può fare. Come è accaduto? Partendo dal popolo che si rendeva conto di non poter più respirare l’aria delle proprie città e che ha chiesto un cambiamento.


Nota biografica:

Davide Sapienza, scrittore e giornalista, inizia a scrivere negli anni ottanta libri dedicati al rock (U2, Nirvana, Neil Young, The Waterboys, Simple Minds), diventando firma di spicco della critica rock italiana. Dal 1990 vive in montagna e lavora per raccontare il rapporto possibile con il territorio, la natura e i suoi elementi: I diari di Rubha Hunish (2004, nuova edizione 2011), La valle di Ognidove (2007, libro al quale si ispira il documentario della Tv Svizzera italiana La sapienza di Davide. Parole in cammino, 2009) e La strada era l’acqua (2010) sono i libri nati da anni di viaggi, specialmente nel Nord del mondo (che ispira anche studi e pubblicazioni dedicati all’esplorazione polare). Ha scritto anche La musica della neve (2011). Di Jack London ha curato RivoluzioneCacciatore di animeMartin EdenLa strada John Barleycom. Per i “Classici” Feltrinelli ha tradotto e curato Il richiamo della foresta – Bâtard – Preparare un fuoco (2011), Zanna Bianca (2014), Il vagabondo delle stelle (2015) di Jack London e Le avventure di Gordon Pym (2013) di Edgar Allan Poe. Nella collana digitale Zoom Feltrinelli ha tradotto Bâtard e Preparare un fuoco di Jack London e Frammenti di cielo di Barry Lopez (2014). Scrive per il “Corriere della Sera”. Tra i riconoscimenti ricevuti, ricordiamo il premio Pigna d’argento nel 2011, il Sentinella del creato nel 2012 e “Le ghiande” di CinemAmbiente nel 2015.

 

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Davide Sapienza: il geopoeta e la Geografia intima | Intervista ZEST

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