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L’Albero | John Fowles
Aboca edizioni 2021

Di Marco Nifantani

L’albero è la storia di una educazione botanica e silvestre e al contempo la storia di un’educazione morale e implicitamente letteraria. John Fowles, che l’ha narrata originariamente nel 1979, una decina d’anni dopo la pubblicazione della Donna del tenente francese a cui deve la notorietà successiva, ritorna su temi che caratterizzano l’intera sua opera, a cominciare dalla opposizione tra razionalità e istinto, educazione ai valori della società e iniziazione alle scoperte della propria personale maniera di concepire l’esistenza.

Testo di grande bellezza e intensità, L’albero è anzitutto una incursione nel modo di intendere la natura a cominciare dagli alberi del giardino di casa e dal confronto con la tradizione familiare e in particolare con la figura del padre, impegnato a mostrare al figlio come la natura possa essere domesticata e la sua presenza ordinata all’interno di una trama razionale rassicurante. In questa personale revisione e definizione delle proprie convinzioni, un Fowles cinquantenne illumina le ragioni più latamente psicologiche che muovono tale relazione. Ad esempio, del padre viene messo in evidenza il tentativo di difendersi dalla devastazione determinata dalla guerra attraverso l’implementazione di un ordine rigoroso del giardino di casa. Al contrario, il desiderio dello scrittore, volto a una diversa idea di natura, selvaggia, aperta, non domestica, in corrispondenza con lo spirito libero degli anni Settanta, lo porta a definire una propria personale estetica naturale nella quale diventa sempre più evidente la predilezione per la vita di campagna rispetto alla vita di città, per i boschi amati della Inghilterra occidentale come contraltare all’ostilità del padre nei confronti della natura non domesticata. Così, all’atto metaforico di potare e confinare l’istinto naturale, è sostituito l’atto di conoscere, esperire senza catalogare, senza prestarsi al vacuo esercizio dell’incasellamento tipico di certo approccio scientifico alla natura.

Esemplari risultano le pagine dedicate a Linneo, il padre settecentesco della moderna classificazione scientifica. La visita alla casa e al giardino di Uppsala dello scienziato svedese, occupa pagine di grande intensità che si chiudono con un’affermazione paradossale: per un personaggio tanto dominato da una pervasiva ossessione classificatoria è da reputarsi poeticamente giusta una fine segnata dalla pazzia. L’approccio classificatorio inaugurato da Linneo rappresenta per Fowles una delle grandi alienazioni umane, sia a livello personale che sociale. In tal senso la scienza vittoriana che da essa discende ha apportato l’idea che la nostra relazione con la natura debba essere finalizzata a uno scopo, instancabilmente attiva, sempre alla ricerca di una conoscenza ulteriore.

Questa capacità di separare un oggetto da ciò che lo circonda e concentrarci su di esso è una regola implicita in ogni nostro giudizio sulle opere d’arte più realistiche; ed è molto simile, per non dire identico, a quanto chiediamo a strumenti ottici quali microscopi e telescopi: ingrandire, mettere a fuoco, distinguere meglio, separare dalla massa. Gran parte della scienza è votata allo stesso fine: fornire etichette specifiche, spiegare meccanismi e sistemi specifici per classificare e dare un ordine a ciò che nella massa sembra indistinguibile dal resto. Persino la conoscenza più semplice, come quella dei nomi e delle abitudini di fiori e alberi, dà avvio a questo processo di distinzione e individuazione e ci allontana di un passo dalla realtà assoluta spingendoci verso l’antropocentrismo. Agisce sulla nostra mente come l’obiettivo della macchina fotografica, distruggendo o limitando certe possibilità di visione, di apprendimento ed esperienza. È questo il frutto amaro dell’albero della conoscenza di Uppsala

Questo approccio ha avuto due conseguenze: in primo luogo che si sia privilegiata e focalizzata la distinzione, la singolarità; in secondo luogo che sia stata rifiutata l’idea della natura come puro piacere immersivo. Al contrario, per Fowles gli alberi sono esseri sociali che non vanno visti come entità individuali esattamente come la nostra esperienza della realtà non può essere descritta razionalmente e asetticamente poiché assomiglia per la sua sinteticità e caoticità all’idea della natura selvaggia, intricata e complessa. Pertanto non comprenderemo mai completamente la natura (e parallelamente noi stessi) e di certo mai la rispetteremo, fino a quando non separeremo nettamente il concetto di natura selvaggia da quello di natura strumentale, utilizzata, per quanto innocente e innocuo questo utilizzo possa essere.

Su due altri elementi vale la pena soffermarsi ancora nell’analisi del testo di Fowles: la distinzione fra scienza e arte e la conseguente metaforizzazione della relazione romanzo-bosco. L’arte è esperienza, afferma l’autore inglese, mentre la scienza o la tecnica è catalogazione. L’arte consente di esprimere se stessi e di conoscersi e va dunque preservata e vivificata. Perciò i boschi restano gli ultimi scampoli di natura relativamente incontaminati; sono i rappresentanti e i dispensatori più accessibili di questa relazione, sentimento e conoscenza, che stiamo rischiando di perdere. I boschi sono le ultime chiese e cappelle verdi fuori dal recinto della civiltà e della cultura che abbiamo costruito con i nostri strumenti. Quando passeggiamo in un bosco e quando scriviamo un romanzo, perpetuiamo un atto creativo di conoscenza derivato da una esperienza immersiva che va preservata ad ogni costo.

La minaccia che dovremo affrontare nel prossimo millennio non sta in una natura vista come uno squalo malvagio, ma nel nostro crescente distacco emotivo e intellettuale da essa. E non credo che la soluzione dipenda soltanto dal successo o dal fallimento del movimento ambientalista. Dipende anche dalla nostra capacità di riconoscere il lato negativo della rivoluzione scientifica e soprattutto i cambiamenti che ha provocato nel nostro modo di percepire e di fare esperienza del mondo individualmente. Lo scienziato deve arrivare a generalizzare anche se stesso, eliminando qualsiasi sentimento personale dall’esecuzione di un esperimento o da un’osservazione, e dall’esposizione dei risultati. Se anche studia gli individui, lo fa per cercare di stabilire leggi e verità applicabili su vasta scala. La scienza non ha tempo di occuparsi di eccezioni di poco conto. Eppure la natura nel suo complesso, così come l’umanità, è fatta di eccezioni di poco conto, entità che per diversi aspetti, seppur scientificamente irrilevanti, non sono conformi alla regola generale. Credere in questo genere di eccezioni è fondamentale per l’arte quanto credere nell’utilità delle generalizzazioni è fondamentale per la scienza.”

Perciò conoscere pienamente la natura deve essere sia un’arte che una scienza e quel che manca, direbbe Fowles, è il recupero del lato creativo esperienziale della nostra relazione col mondo naturale. Vale la pena di ricordare le parole dell’ultima parte del testo, dove un’altra visita, specularmente opposta a quella della casa di Linneo, illumina e conclude questa dissertazione: la visita al bosco di Whistman’s wood, nel Dartmoor settentrionale, nelle brughiere rese celebri da Conan Doyle nel Mastino dei Baskerville: una specie di foresta segreta dentro una vallata seminascosta dalle nebbie ovvero un rarissimo frammento di foresta primordiale che è riuscito a resistere al tempo e allo sfruttamento dell’uomo. Una specie di grande sito del Neolitico, come lo definisce Fowles: una sorta di Ur-bosco dominato da querce comuni ma molto più basse del normale, querce nane, 5 metri contro 20-30, su cui crescono altri tipi di piante e arbusti in una coabitazione caotica del tutto imprevista e imprevedibile.

Sono seduto in questa realtà senza nomi, il verde fosforo dell’albero, circondato da impenetrabili nomi sbagliati. Sono venuto qui soltanto per essere sicuro; non per descrivere, poiché non potrei se non con nomi sbagliati; per essere sicuro che ciò che ho scritto non sia soltanto un’elucubrazione, uno sogno “da studio”, in vitro, parassitario della realtà come le felci sui rami sopra la mia testa. Questa realtà senza nomi va oltre la nostra scienza e le nostre arti, perché il suo segreto è essere, non dire. Il valore più grande, per noi, è che non può essere riprodotta, e può essere appresa solo da un altro essere presente, solo tramite i sensi e una coscienza viventi. Tutte le esperienze di essa che facciamo attraverso un surrogato o una replica, attraverso un’immagine selezionata, una parola “addomesticata”, attraverso altri occhi e altre menti, tradisce o bandisce la sua realtà. Ma questa è la consolazione della natura, il suo messaggio, e va molto oltre il piccolo mondo di Wistman’s Wood. Può essere conosciuta e penetrata soltanto da soli e nel suo momento presente; non da te attraverso me, da nessun te attraverso nessun me; solo da te attraverso te stesso, o da me attraverso me stesso. Abbiamo ancora questo, da imparare: l’inalienabile alterità di ognuno di noi, umano e non umano, che può sembrare la prigione di ciascuno, ma al suo centro, nel profondo di quegli infiniti alberi metaforici che ci impediscono di vedere il bosco intero, è sia la giustificazione che la redenzione. Mi voltai a guardare, dalla sommità del pendio. Wistman’s Wood era già lontano, di nuovo sprofondato sotto il suolo; non più di una traccia nella memoria, stava già diventando un artefatto, una cosa da usare. Un finale per questo, la morta macerazione delle sue foglie viventi”.

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L’albero | il bellissimo saggio narrativo di John Fowles

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