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L’ecosistema in noi
Francesco Boer e Andrea Pilloni
Piano B Edizioni 2023

Questo libro prende spunto da una semplice domanda: che cos’è un ecosistema? La più classica delle risposte è quella di visualizzare la natura fuori di noi: un bosco, una foresta, oppure il mare. O magari pensare al “pianeta” in senso lato, all’insieme di tutti gli ecosistemi, come qualcosa di distante e sempre più in pericolo: una fragilità da proteggere. Ma, sebbene tendiamo a dimenticarlo, anche l’essere umano partecipa dell’«irriducibile complessità del vivente» e può essere inteso a sua volta come un ecosistema. Perché allora ci sentiamo così distaccati dalla natura? Perché la nostra prima pulsione nei riguardi della natura oscilla tra il distacco e il controllo di essa? Perché la devastazione del mondo – e con esso dell’umanità – è una prospettiva sempre più reale? Gli autori, attingendo ad antropologia, osservazioni naturalistiche, simbologia e filosofia, tentano di rispondere a queste domande, indagando il rapporto che l’essere umano instaura col pianeta, sul suo preteso controllo sopra di esso e sull’artificialità come proprio modo di abitarlo.


Su autorizzazione di casa editrice e autore vi proponiamo un ESTRATTO

Campi e foreste

Un giorno ci venne chiesto: quand’è che un gruppo di alberi diventa una foresta?

C’è bisogno di un numero minimo di alberi per poterla definire tale, o deve magari raggiungere una certa estensione? Tre alberi non bastano per fare un bosco; ma allora, quanti ne occorrono?

Ci riflettemmo su, e alla fine concludemmo: non bastano mille alberi, per poter fare un bosco. Se pianto un filare esteso di pioppi, su un terreno arato e diserbato, avrò creato un campo di alberi, ma non una foresta.

Ciò che differenzia un insieme di alberi da un bosco non è la quantità, ma le relazioni che vi si innescano. Il bosco non è composto solamente dagli alberi, ma dal complesso interscambio fra suolo, funghi, specie vegetali, la fauna che vi abita. Un campo di pioppi destinati all’uso industriale non è un bosco, perché un controllo artificiale vi impone una semplificazione mortifera, sgomberando dalla scena tutto ciò che intralcia o dissipa l’attività produttiva.

Certo, anche il pioppeto potrebbe diventare un bosco. Se lasciata a se stessa, la coltivazione perderebbe gradualmente la struttura artificiale. La terra sotto i pioppi si riempirebbe di altre specie vegetali, che fornirebbero riparo alle volpi, nutrimento ai caprioli. La manutenzione artificiale, però, lavora costantemente per prevenire che l’anima della foresta fiorisca nel pioppeto. Per fortuna, questo controllo non è mai del tutto assoluto: ci sarà sempre qualche uccello che nidifica nelle fronde del pioppeto, o degli insetti che si posano sulle sue foglie. Tuttavia, il grado di artificialità che viene imposto è sufficiente per reprimere l’innesco di quell’ordine organico superiore che abbiamo chiamato “anima”.

Con le dovute differenze, la stessa cosa accade per i gruppi umani. È un’imposizione artificiosa a far sì che una comunità non sviluppi la propria anima, degradando cosi a massa. La massa è un campo di uomini, la comunità è una foresta. Non dovrebbe sfuggirci il fatto che il campo è un’attività economica, la cui finalità è uno spietato utilizzo delle proprie risorse. Appena sono pronti, gli alberi del pioppeto vengono abbattuti e trasportati alle industrie in cui verranno impiegati. L’analogia con le masse umane è fin troppo realistica.

Artificiale

Nell’uso comune, questa parola soffre di una certa ambiguità. Indica ciò che viene prodotto dall’essere umano, tramite gli strumenti pensati dall’intelletto e forgiati dalla tecnica. Ma è anche un contrario di “naturale”, andando a formare una dualità carica di valori morali: naturale e artificiale corrispondono grosso modo a vero/finto, genuino/adulterato, addirittura buono/cattivo. Si tratta di associazioni vaghe ma radicate, che difficilmente si esprimono in modo esplicito, e che però il più delle volte orientano inconsapevolmente il nostro sentire. Si potrebbe scegliere di ignorarle, riconducendo i termini a una definizione più rigorosa e neutra; abbiamo invece scelto di ascoltarle, pur non accettandole passivamente.

Uno degli esperimenti che reggono questo libro sta nel risolvere una dualità netta in una triade sfumata. Abbiamo deciso di distinguere l’artificiale dall’umano, benché spesso vengano usati come sinonimi. Così facendo, umanità e natura cessano di essere contrari; ma non va a perdersi quell’azione distruttiva antropica che di fatto è avversa alla natura. Artificiale, nel nostro parlare, non è più identificato con tutto ciò che è umano; ma è piuttosto uno dei casi possibili, una fra le tante modalità dell’essere umani. È oltretutto una modalità che tende al patologico, perché segnata da un eccesso.

La nostra definizione di “artificiale” infatti non è assoluta, ma legata all’intensità dei fenomeni che la riguardano. Il costruire connesso alla vita umana – sia materiale che intellettuale – non è per forza artificiale; lo diventa quando si imprime con violenza sulle realtà dell’anima. Aprire un sentiero in un bosco, in questo senso, non è dunque un atto artificiale; farci passare un’autostrada lo è, eccome.

Anima

Una delle parole più difficili e belle della nostra lingua: “anima” è carica di significati possibili. Di base è il principio vitale, ciò che distingue la materia inerte da ciò che nasce, si trasforma e muore.

Ma com’è fatta, quest’anima? C’è chi dice che sia simile a un soffio, chi la ritiene una sostanza metafisica; qualcuno addirittura sostiene che non esista (e magari continua intanto a parlare di “animali”, o di “materia inanimata”).

Per la nostra concezione di anima, siamo andati un po’ fuori dai sentieri battuti: non un principio contrapposto al corpo, secondo l’affermata dualità di materia/spirito; ma una totalità che nasce dall’interezza dell’individuo. In questo senso, l’anima è affine a un comportamento emergente di un sistema complesso: il segno di un’identità che non teme di essere anche molteplicità interiore; un’essenza che pur non rimanendo chiusa rispetto agli stimoli esterni, è capace di rimanere fedele a sé stessa.

In quest’ottica, si può estendere l’idea di anima anche a sistemi che di solito non si riterrebbero animati. Un gruppo sociale, ad esempio: dal più piccolo gruppo di amici fino alle grandi popolazioni, e perché no all’umanità intera. D’altronde, questa concezione è già presente nel linguaggio comune: non si parla forse dell’anima di una città, o dell’anima di una nazione?

Ma l’anima si incontra anche nelle biocenosi che popolano i diversi ambienti: c’è l’anima di un bosco, o l’anima di un fiume, e avanti così. Che un luogo naturale sia animato, d’altronde, è una sensazione che chiunque può provare di persona, semplicemente visitando con la giusta disposizione questi ambienti. Questa sensazione è soggettiva, certo, e come tale è stata scartata come un’illusione da quel sistema di pensiero che concepisce come valide soltanto le misurazioni oggettive. Ma la risonanza profonda che si accende in quell’occasione è proprio il motivo per cui abbiamo scelto di estendere in questo modo l’applicazione della parola “anima”: non è una mera suggestione quella che si prova entrando in un bosco, ma è l’incontro fra due anime, l’intreccio che si forma spontaneamente quando due sistemi viventi e fatti di relazioni entrano in contatto.

L’anima, infine, può anche scomparire: è capace di resistere, ma non è invincibile, né la sua presenza è eterna.

Lo sappiamo fin troppo bene riguardo alla vita umana; ma anche l’anima sociale, e persino quella ecologica possono spegnersi. La propaganda di un regime che devasta i rapporti fra le persone, o un cantiere che trasforma una montagna in una pista da sci: sono come pugnalate che fanno soffrire, ed eventualmente sconfiggono l’anima. Simili atti andrebbero condannati e perseguiti, come se fossero un omicidio, anzi ancor più gravemente: è peggio ancora, un animicidio.

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L’ecosistema in noi di Francesco Boer e Andrea Pilloni

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