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Memorie dal sottobosco

Un coleottero dei funghi (Exorma Edizioni)

L’autore ci racconta la storia vera di una fascinazione, la sua, di una relazione tra un entomologo dilettante e un coleottero dei funghi: l’esperienza della meraviglia di un adolescente che lascerà poi all’età adulta lo spazio del disinganno

L’autore: Tommaso Lisa è nato nel 1977 a Firenze, dove vive e lavora. Appassionato entomologo, nel 2001 ha pubblicato per l’associazione francese “r.a.r.e.” il catalogo ragionato sui Cicindelidi della regione del Mediterraneo.
È dottore di ricerca in Lettere. I suoi studi di estetica si sono concentrati sulla “poetica dell’oggetto” del filosofo Luciano Anceschi, nella poesia italiana nella seconda metà del Novecento, da Montale alla nuova avanguardia. Ha scritto libri di critica letteraria su Edoardo Sanguineti e Valerio Magrelli.


un Blurb di Fabrizio Piazza:

Se come me amate le storie di malìa, fascinazione e (p)ossessione, questo libro fa per voi. In apparenza Tommaso Lisa è una persona normale, ha una famiglia, si muove e lavora a Firenze, conosce alcuni amici come Paolo Ciampi, ha scritto per riviste e ha pubblicato saggi di critica letteraria. In realtà però Tommaso è divorato da una mancanza, che si traduce in un desiderio, in un tentativo di riunire con il linguaggio entomologico le parole e le cose. Tutto ciò ha il nome di Diaperis boleti, un coleottero dei funghi, un insetto della famiglia dei Tenebrionidi (nomen omen), portatore in sé di un intero ecosistema, di una foresta di simboli che ci attraversa la mente, che ci abita e ci possiede man mano che procediamo nella lettura. Romanzo entomologico? Trattato scientifico su Leiochrinini, Gargilius, Erotilidi, Adelina e Scolitidi? Cosa importa? Ciò che conta è che a un certo punto ci troviamo nel sottobosco, come un Dostoevskij sotto funghi allucinogeni, e diventiamo tronco, spora, elitre, micelio, alghe, corpi celesti, foglie. Torniamo al Nulla da cui siamo partiti. Anche se fuori dalla finestra ci sono autostrade, cantieri, hotel, stadi, centri commerciali, auto in colonna. Magari per allontanare l’estinzione serve anche un piccolo atto di meraviglia, che si assapora tra le pagine di queste Memorie preziose, non appesantite dall’utile che è diventato la cifra del nostro tempo.


per concessione della casa editrice è possibile leggere qui un ESTRATTO:

p.142-148

diaperis maculatus

Per l’entomofauna neartica, ossia del Nord America, il Diaperis maculatus è l’analogo del boleti europeo e asiatico. Sono affini per dimensioni, forma (forse il maculatus è un poco più oblungo) e colore. Le zampe la testa e il pronoto – simile a un arco carenato orientale rivolto verso lo scutello – restano di un bel nero lucido, ma la specie differisce significativamente da quella europea per il disegno elitrale. Le bande zigrinate arancioni e nere sono sostituite da un articolato disegno. Il mezzo dell’orlo anteriore del corsaletto è bidentato, almeno in uno dei sessi. Le elitre sono di un giallo lionato, con sutura, due macchioline tonde alla base, di cui l’esterna più piccola, e una grande macchia nera con forma di fascia trasversale nel mezzo, che si allarga ai margini esterni, rastremandosi al centro e di seguito, sia verso l’alto che verso il basso, lungo la sutura. Ne consegue un aspetto totemico, come se si trattasse di un inquietante mascherone, di un teschio sciamanico, una decorazione tribale.

Prima di uscire di casa mio padre m’ha fatto una sorpresa: me ne ha regalato uno che ha trovato casualmente alla recente mostra entomologica di Modena. Stava – così mi ha detto – assieme ad altri coleotteri in una scatola di miscellanea. Mi ha fatto davvero felice. Deve averlo comprato per pochi euro ma è splendido, chiuso da solo in una piccola boccetta. Lo sposto in una scatola più grande e lo osservo sotto la luce, chiuso nella teca, sospeso dietro il vetro attraversato dai riflessi della lampada a braccio, aureola di cristallo, microcosmo racchiuso in un’ampolla alchemica. Proviene dal Canada, dall’Ontario, è stato raccolto il 26 agosto 1995 da Vl. Malý a nr. Picton Waupoos.

Sono quindi tornato a casa, ho cenato, riordinato la cucina e messo a letto mio figlio. La moglie già dorme. Rifocillato, nel silenzio dell’appartamento deserto, seduto al tavolo da lavoro con una tazza di caffè fumante accanto al computer, mi sento osservato dallo sguardo ironico di questo Diaperis canadese: il suo occhio cheratinoso, morto e allo stesso tempo vivo, composito e sfaccettato, mi fissa. Siamo soli io e lui, nel cuore della notte. Mi volto verso lo schermo in standby, assesto un colpetto al mouse e riavvio la macchina, precipitandomi su Maps. Cerco Picton Waupoos. Brillanti pixel turchini compongono un paesaggio bucolico tipicamente canadese sul lago Ontario, grande che sembra un mare, nella contea di Prince Edward. A occhio e croce ci troviamo su una penisola vicino – si fa per dire – le foreste del Vermont. Muovo il mouse, sposto il filo da sotto la tastiera, imposto la geolocalizzazione e capito in mezzo a una strada deserta. Picton Waupoos. Immagino il toponimo sia indiano, e chissà quale tribù ha abitato queste terre. Mi faccio largo in mezzo ai filari di un’azienda vitivinicola, la County Cider Company, fantasticando, con sguardo assorto, che il Diaperis sia stato trovato proprio qui, una sera, alla luce di uno dei lampioni. L’azienda vitivinicola è stata fondata nel 1993 da Ed Neuser e Rita Kaimins. Occorre forse ipotizzare un soggiorno in una “cabana” del complesso residenziale, o una visita al Ristorante della Cantina, da parte del nostro Vl(adimir) Malý? Chissà come doveva essere nel 1995 questa tenuta con agrumeti, meli e aceri, oltre ai vigneti.
Il paesaggio somiglia vagamente alla campagna italiana, meno mossa, decisamente pianeggiante e più fresca e curata. Deve trattarsi di un’approssimazione, di un abbaglio mediatico: devono per forza essere diversi gli odori, le tonalità del cielo, tuttavia questo posto ha un aspetto familiare, se non fosse per il fienile rosso ruggine, il barn tipicamente americano. Percorro per alcuni chilometri la 3158 Prince Edward County Rd 8 sorpreso che tale reperto entomologico provenga proprio da qui. Finché, stanco dei troppi e ripetuti clic sul mouse (clic, clic, clic) prendo una pausa. Anche se non ci sono mai stato e probabilmente mai potrò andarci in vita mia, l’immagine persiste, quel posto esiste, anche in questo momento, anche se non lo guardo, anche se chiudo gli occhi.

Fuori dalla finestra di quest’appartamento in condominio vedo il quartiere oltre il quale seguono uno dopo l’altro i non-luoghi di una periferia planetaria globale: lo Sprawl, la scansione asettica di aeroporti, stadi e centri commerciali. Mi sento come l’anacoreta del Nilo alla fine della Tentazione di Sant’Antonio. È una sensazione di estraneità che mi fa sentire un intruso nella città in cui vivo, un assente ben nascosto, un cittadino fantasma. Osservo il prato illuminato dai riflettori, le aiuole che, sotto le luci artificiali, sembrano di plastica. I semafori sono favi in cima a tronchi metallici verniciati di verde. La tranvia sul ponte trasporta sciami di turisti. Non c’è che dire, vivo in un rendering riuscito: il regno dell’alienazione capitalista.

Mi sento uno straniero, esattamente come davanti la rappresentazione su Maps della spiaggia di Waupoos Marina dove lo smisurato paesaggio canadese si trasforma in una campagna dal microclima quasi mediterraneo “a misura d’uomo”: una valle fertile stretta tra le rocce calcare e la distesa infinita del lago Ontario; coltivazioni di mele per ottenere sidro di ottima qualità, vigne, la pittoresca cittadina di Picton, coi suoi cottages, un’architettura classica, come recita la pubblicità di un locale del posto. È un luogo di villeggiatura. Forse Vladimir Malý non era un entomologo ma solo un villeggiante con la passione degli insetti, come molti del resto. È venuto qui, probabilmente da Toronto, a prendersi una vacanza, in quella fine agosto del 1995 e per caso deve essersi imbattuto nel Diaperis, che comunque è piuttosto comune in Canada. “Pesca, vela e buon mangiare, oltre al parco con la grande duna di sabbia di Baymouth. Chi può sfuggire al fascino della parola

Waupoos?” leggo nel medesimo messaggio pubblicitario. Il nome stesso è singolare: per gli Ojibwe la parola  wabooz significa letteralmente “lepre”. Sarebbe meglio dire Ojibway: la tribù di nativi americani appartenente al gruppo linguistico algonchino, un tempo stanziata

nell’odierno stato del Michigan e sulle coste settentrionali del Lago Superiore e del Lago Huron, chiamati impropriamente dai colonizzatori “Chippewa”.

Durante il periodo della glaciazione tutta l’area era sotto il livello del mare che, ritirandosi, lasciava allo scoperto ricchi depositi di materiale calcareo sul quale oggi prosperano decine di vigneti – eccoci a Vineland, finalmente! – e frutteti, in un inatteso giardino dell’Eden.

La strada serpeggia verso est superando viuzze trasversali, per la maggior parte deserte; a volte s’avvicina al bordo dell’acqua, in lunghe vedute e prospettive che sembrano quelle di casa nostra. Il paesaggio si distende in una serie di campi aperti e lastre di pietra calcarea che affiorano sulla riva del lago. Là dove Cressy Lakeside incontra Prinyer’s Cove, all’apogeo del celebre “Horn Trip”, la strada diventa County Road 7 e si dirige verso Picton, sulla costa settentrionale della penisola. Un sentiero si snoda attraverso falesie calcaree, foreste vergini e prati ricoperti di vegetazione fino al livello dell’acqua. All’orizzonte appare il traghetto di Glenora. La bandiera è un coniglio bianco su uno sfondo orizzontale di blu e rosso.


Esiste una cittadina di nome Picton anche nel nord della Nuova Zelanda. Il paesaggio ricorda vagamente la Sardegna. Ma che io sappia, in Nuova Zelanda non vivono Diaperis.

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Memorie dal sottobosco – Un coleottero dei funghi

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