Oltre l’umano. Voci, ecologie e giustizia nell’epoca dell’Antropocene
Viviamo in un tempo in cui la presenza umana non si limita più a lasciare impronte: le scava. Un tempo in cui fiumi, oceani, atmosfera e suolo portano i segni chimici, plastici e climatici della nostra specie. Questo tempo ha un nome: Antropocene. Un termine nato in ambito scientifico, ma che oggi ha trasceso i laboratori per entrare nel dibattito culturale, filosofico e politico. E ci interpella: che tipo di mondo abbiamo costruito? E a quale prezzo?
L’Antropocene non è solo geologia: è ideologia
Il concetto di Antropocene fu proposto dal premio Nobel Paul Crutzen nel 2000 per indicare una nuova epoca geologica dominata dall’influenza dell’uomo. Ma il nodo non è solo geofisico: è culturale. Da secoli ci raccontiamo che il mondo è una risorsa da sfruttare, una macchina da regolare, una tavolozza su cui disegnare progresso e potere. Una visione antropocentrica, predatoria, lineare. E ora ci troviamo davanti ai suoi effetti: eventi climatici estremi, collasso della biodiversità, insicurezza alimentare, migrazioni forzate.
Nel suo libro Primavera silenziosa (1962), Rachel Carson denunciava gli effetti invisibili ma devastanti dei pesticidi. Era un grido d’allarme, ma anche una proposta: smettere di trattare la natura come un oggetto e iniziare ad ascoltarla. Era l’inizio dell’ambientalismo moderno, che ha poi trovato nuove espressioni nel pensiero ecofemminista, nei movimenti indigeni e nella filosofia della decrescita.
Catastrofi che parlano: il Rana Plaza, gli oceani, le periferie
Ci sono eventi che rompono il muro dell’astrazione e rendono visibile l’intreccio tra capitalismo, ambiente e disuguaglianza. Il crollo del Rana Plaza in Bangladesh nel 2013 è uno di questi: più di mille morti per garantire all’Occidente fast fashion a basso costo. Dietro ogni cucitura, un carico di emissioni, sfruttamento, contaminazione delle acque. Una tragedia che ha mostrato il lato umano e ambientale della globalizzazione.
Oppure pensiamo all’oceano di plastica che galleggia tra le Hawaii e la California: un accumulo di oltre 1,8 trilioni di pezzi. La plastica è ormai parte del ciclo vitale: trovata nei pesci, nel latte materno, perfino nella placenta umana. Non si tratta più solo di rifiuti, ma di una riscrittura involontaria della biologia stessa.
E ancora, le periferie del mondo e delle città: da Taranto alla Terra dei Fuochi, da Lagos a Nuova Delhi, i margini sono diventati discariche delle nostre economie lineari. Come denunciava Giorgio Nebbia, ecologista italiano, l’ambiente è anche una questione di classe: “Chi inquina meno è spesso chi subisce di più”.
Il mondo oltre l’umano: tra agenzia, relazioni e saperi
Cosa succede se decostruiamo l’idea dell’umano come misura di tutte le cose? Emergono nuove domande. Gli animali, i fiumi, le piante hanno una forma di agenzia? Possono essere soggetti e non solo oggetti? Secondo Bruno Latour, il mondo è fatto di attori umani e non umani, in relazione costante. E secondo Donna Haraway, “vivere e morire bene su un pianeta danneggiato” richiede di pensarsi come compagni terrestri.
Le cosmologie indigene non sono nostalgie del passato: sono modelli viventi di coesistenza. I popoli nativi del Nord e Sud America, delle isole del Pacifico, dell’Africa subsahariana, concepiscono la natura come comunità e non come stock. La Pachamama, il diritto dei fiumi a esistere, la cura per le generazioni future: tutto questo non è folklore, ma politica del possibile.
Migrazioni climatiche: quando il clima costringe a partire
L’Antropocene ha anche un volto che cammina, si sposta, attraversa deserti e frontiere. Sono i migranti ambientali: milioni di persone costrette a lasciare la propria terra a causa di siccità, inondazioni, desertificazione. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, già oggi oltre 30 milioni di persone migrano ogni anno per motivi legati al clima. E il numero potrebbe superare i 200 milioni entro il 2050 (fonte: Banca Mondiale).
Ma chi sono queste persone? Sono spesso contadini del Sahel, pescatori del delta del Gange, famiglie delle coste dell’America Centrale. Persone che non hanno inquinato, ma che pagano il conto. E qui si apre il nodo della giustizia climatica: non si può parlare di transizione ecologica senza tener conto delle disuguaglianze storiche e attuali. Il 10% più ricco della popolazione globale produce oltre il 50% delle emissioni. Il 50% più povero, meno del 10%. (fonte: Oxfam 2022).
Giustizia ambientale: un futuro da condividere
Il concetto di giustizia ambientale nasce negli anni ’80 tra le comunità afroamericane degli Stati Uniti, ma si è ormai globalizzato. Significa riconoscere che la crisi ecologica non è neutra: colpisce in modo diverso, e deve essere affrontata redistribuendo potere, risorse, voce. Significa anche imparare a guardare il mondo con altri occhi: non come proprietari, ma come ospiti. Non come individui isolati, ma come nodi di una rete vivente.
Esistono già esperienze che vanno in questa direzione: città che riconoscono i diritti dei fiumi (come in Nuova Zelanda), agricolture rigenerative che curano il suolo, comunità energetiche che restituiscono autonomia. Non si tratta solo di risposte tecniche, ma di immaginari. Perché il vero cambiamento non sarà solo nei dati, ma nei racconti che sapremo costruire insieme.