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Sostenibilità e abitazione: appunti di resistenza urbana

di Maurizio Corrado


Abbiamo iniziato a trasformare lo spazio quando da cacciatori siamo diventati agricoltori, dodicimila anni fa, cambiando completamente il nostro modello di vita, dividendo lo spazio, costruendo i primi muri, inventando la proprietà. L’arrivo dell’industria non fa che radicalizzare le trasformazioni nate allora con l’agricoltura, portandole alle estreme conseguenze.

Nell’Ottocento le città europee si trasformano per diventare permeabili ai controlli e alla erogazione dei servizi pubblici, vengono ridisegnate con lo scopo di dare un’arma in più a guardie, ufficiali giudiziari e ispettori sanitari. Ogni spazio irregolare, cioè i luoghi reali di vita degli abitanti, viene cancellato e rimodellato con ordine. Inizia un irrigidimento del senso comune dello spazio: da luogo manipolabile, accessibile, trasformabile si trasforma in un’idea più astratta, impersonale e statica non controllata direttamente da chi lo usa. L’attività di creazione di luoghi da metà Ottocento non è più consentita, ma quello che più influenza la creazione dello spazio da allora è che la sua memoria viene lentamente cancellata con l’abbattimento fisico e il reinserimento degli abitanti in uno spazio definito da burocrati ed esperti. Nascono le inchieste sulle condizioni delle abitazioni, igienisti e amministrazioni chiedono una ricostruzione dell’abitato quotidiano: per la prima volta si chiede ad architetti e ingegneri di occuparsi delle case. Fino alla fine del Settecento era impensabile per un architetto l’idea di occuparsi delle case della gente comune. L’origine del senso moderno della professione dell’architetto nasce da una necessità burocratica al servizio dell’amministrazione.

Quando in Europa lo stato comincia a occuparsi col piccone dell’abitare dei cittadini, specialmente se appartengono alle classi “laboriose e pericolose”, vengono stabiliti i criteri del sano abitare. L’igiene è la bandiera più usata dai riformatori. Secondo il Benevolo, uno dei maggiori storici dell’architettura, l’urbanistica moderna non nasce negli studi degli architetti, ma in quelli dei medici e degli igienisti. Tutto il complesso sistema delle leggi urbanistiche contemporanee si basa su leggi sanitarie messe a punto a metà Ottocento. Igiene e salute sono le stesse motivazioni che ritroviamo oggi nell’ideologia ecologica e sostenibile ortodossa, i concetti sono gli stessi, espressi con parole adattate alla contemporaneità, non si parla di igiene, bensì di salute e benessere, ma l’atteggiamento è il medesimo. Qui c’è un grande rischio. I risultati di quella trasformazione sono sotto gli occhi di tutti. Ora, se seguiremo lo stesso metodo avremo i medesimi devastanti risultati. 

C’è un filo diretto che parte dalla costruzione delle fognature e dei nuovi servizi pubblici, passa dalla manutenzione e dal controllo dei servizi e arriva non solo alla necessità di estendere gradualmente il controllo alla totalità dello spazio, ma al vertiginoso aumento di scala dell’inquinamento prodotto da noi umani. Lo strumento principe dell’urbanistica moderna, la griglia, nasce dalla scelta fatta a favore dello smaltimento dei rifiuti per via fognaria. Il modo tradizionale di riuso, in cui ogni rifiuto tornava in circolo sotto altre forme, viene cancellato e sostituito dall’idea di qualcosa di cui ci si deve liberare, da nascondere e affidare al servizio collettivo. È la stessa ideologia che ci spinge a cambiare un prodotto al posto di ripararlo, in adesione totale e spesso inconsapevole alle esigenze dell’industria. Paradossalmente, è proprio la scelta dell’uso delle fognature su larga scala, fatta in nome dell’igiene, che fa cambiare la dimensione dell’inquinamento umano del pianeta. Dopo pochi anni fiumi, ruscelli, laghi, lo stesso mare, diventano inservibili, fonti di possibili malattie e irrimediabilmente inquinati. Per la prima volta diventa impossibile usare e bere l’acqua del luogo in cui si abita, una delle fonti naturali di sussistenza viene annullata e sostituita dalla necessità di una erogazione pubblica, che avverrà attraverso la costituzione di una rete idrica domestica. L’acqua arriva per la prima volta direttamente in casa e ne cambia spazi e abitudini. Non c’è più motivo di andare alla fontana: si dissolve in silenzio uno dei maggiori luoghi di socialità e comunicazione, le donne hanno sempre meno motivi di uscire dalla casa che la presenza dell’acqua corrente ha riempito di vasche, lavandini, stanze da bagno da lucidare e pulire quotidianamente, e che accoglierà lavatrici, lavastoviglie, elettrodomestici che entrano tutti camuffati da risolutori di problemi. Da tempo è stato dimostrato che la mole di lavoro domestico richiesta dopo l’industrializzazione è di gran lunga maggiore di quella necessaria alle precedenti analoghe attività.

La rete fognaria è la prima delle innumerevoli reti di servizi e griglie che si andranno a sovrapporre nel tempo alle città. Per modernizzarsi, per stare al passo coi tempi e con le necessità “inevitabili” del progresso industriale, l’idea di città deve trasformarsi fino a coincidere con quella di una griglia organizzata per il traffico di merci, servizi, informazioni. Ognuno sarà connesso alle reti pubbliche, il suo potere e la sua libertà si misureranno dal numero e dalla qualità delle connessioni che possiede. Il sogno contemporaneo dell’uomo costantemente connesso è soltanto il risultato del processo generato dalle necessità dell’industria di metà Ottocento. Smartphone, connessione in rete e tutti gli strumenti che usiamo quotidianamente, sono il diretto risultato della trasformazione da uomini in consumatori iniziato a metà Ottocento dall’industria, a sua volta conseguenza diretta della trasformazione agricola del Neolitico.

La sostanziale continuità mantenuta nel tempo sia dalla casa che dalla città si dissolve di fronte alle necessità dell’industria. È il primo vero cambiamento dalla loro comparsa, le città abdicano e si trasformano nel luogo deputato alla gestione del fenomeno di geografia urbana risultato dalle forti immigrazioni per esigenze di manodopera e dal conseguente incremento accelerato della popolazione. Da qui si genera il modello della città industriale dominante per i due secoli successivi. La progettazione della nuova città è concepita come servizio alle esigenze dell’industria, il fine è costruire grandi espansioni urbane in poco tempo.

L’architettura razionalista/funzionalista continua nel Novecento l’azione riformatrice delle amministrazioni del secolo precedente, assumendosi l’incarico di rieducare gli abitanti ai nuovi valori con la fornitura di spazi adeguati. Lo fa bene, segnando in maniera evidente l’occidentalizzazione del pianeta. Le case non sono più di quel luogo, ma vengono omologate a modelli che si fanno un vanto della loro universalità, che non considerano a priori il luogo in cui saranno posate. Casa, cibo, lingua, storia dei luoghi vengono cancellate e omogeneizzate. I nuovi spazi, che agli occhi degli inquilini risultano poveri e squallidi, vengono chiamati essenziali e, col grande concetto di essenzialità assunto come valore in sé, si giustificano orribili mutilazioni del nostro modo di essere.

È innegabile che il Movimento Moderno abbia fornito all’industria l’alibi di cui aveva bisogno per darsi una facciata culturalmente accettabile. La ricerca di uno standard applicabile ovunque e con chiunque, la definizione di misure minime che possano permettere la sopravvivenza, sia pur studiate in buona fede e con intenzioni lodevoli, sono andate nella precisa direzione delle esigenze della produzione industriale, tanto che è difficile pensare che un puro gioco del fato abbia fatto coincidere gusti estetici con esigenze economiche. La stessa Bauhaus, la scuola fondata da Gropius nel 1919 con l’intenzione di portare la bellezza al popolo, finisce per diventare una delle più potenti armi in mano all’industria per espandere le sue logiche esclusivamente economiche giustificandole con ragioni che si pongono come oggettive, inevitabili, razionali, funzionali.

Nell’Italia del sud, fino agli anni ’50, maiali e asini erano allevati dalla donna nello stanzone che serviva da cucina e camera da letto comune. Molte case erano ancora in terra cruda e nei villaggi delle campagne venivano costruite da capomastri con l’aiuto dei futuri abitanti. Poi tutto è cambiato. Buona parte dell’Europa ridotta in macerie dalla seconda guerra mondiale viene ricostruita usando le forme fornite dai postulati funzionalisti travasati nei manuali dell’architetto e i materiali forniti dalle industrie con la logica esclusiva del profitto. Abitare in case tradizionali, per esempio di terra cruda, diventa una vergogna, le abitazioni sono macchine per abitare dove vengono trasferiti gli umani, oramai mutati in consumatori. Nella seconda metà del Novecento la standardizzazione delle tecniche, supportata dall’estetica funzionalista, si diffonde sul pianeta dandosi il nome di International Style, giustificando soffocanti cementificazioni e sostituendo definitivamente la cultura del costruire con quella del guadagnare. Nel frattempo, qualcuno si accorge che qualcosa non funziona. I consumatori, ammassati nei nuovi termitai, non producono abbastanza, si ammalano, osano morire. Sono i medici che, già dagli anni Sessanta, danno l’allarme. Gli americani coniano immediatamente un termine per la nuova patologia, Sick building syndrome, sindrome da edificio malato. Dalla Germania arriva la Bauarchitektur, che punta l’attenzione sulla salute di chi abita, iniziando la battaglia dell’ovvio: i materiali da costruzione non possono essere nocivi, i processi di costruzione devono tenere conto dell’impatto sull’ambiente, si parla di ecologia, di natura. Ma inizialmente, almeno per una trentina d’anni, sono discorsi che risultano fastidiosi per l’industria delle costruzioni, e restano confinati fra pochi gruppi considerati, quando va bene, utopisti. Il problema è che l’industria non riesce ancora a guadagnarci, con queste idee. Poi, verso la fine del Novecento, la questione ambientale diventa popolare, le parole sostenibilità, verde, natura, sono sulla bocca di tutti, tutti le vogliono dappertutto, dai biscotti alle automobili. Se una cosa, qualsiasi cosa, non è green, non vende più. Allarme. L’industria focalizza l’attenzione sul problema e sceglie due argomenti fra quelli posti dalla cultura ecologica: l’immondizia e il risparmio energetico. Sono gli unici su cui riesce a guadagnare, degli altri non sa che farsene. È qui che cambia il punto di partenza, non è più il benessere dell’individuo, ma quello dell’industria.

Quando il nuovo millennio inizia, ecologia è già sinonimo di spazzatura e risparmio. La carica potenzialmente sovvertitrice della cultura ecologica è totalmente neutralizzata, con un capolavoro di passaggio di senso, ecologia è diventata sinonimo di rifiuto e risparmio, gli operatori ecologici sono gli spazzini, le isole ecologiche sono quelle dove si raccoglie l’immondizia per rimetterla in produzione. Tutto il resto è svanito. Le case virtuose sono macchine di sopravvivenza a consumo energetico zero, dove i consumatori devono consumare il meno possibile ma possono essere felici perché salvano il pianeta gettando le cartine delle caramelle in un cestino e le caramelle già succhiate in un altro.


Nota biografica: Maurizio Corrado è architetto, saggista, scrittore, curatore, si occupa di ecologia del progetto dagli anni Novanta, svolge attività culturale in editoria, curatela di mostre, didattica, ha collaborato con riviste di architettura e design. Profilo completo al link.

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