Sostenibilità e Sviluppo Sostenibile
Una lettura transdisciplinare
a cura di M. Nocenzi
AA.VV. (elenco in calce)
UTET Università 2025,
Nel contesto attuale, parlare di sostenibilità e sviluppo sostenibile nel 2025 significa fare i conti con una crescente consapevolezza collettiva — e talvolta anche individuale — rispetto alle condizioni critiche del nostro pianeta. Le emergenze ambientali, le crescenti disuguaglianze sociali e le fragilità economiche sono sfide profondamente interconnesse, che richiedono risposte sistemiche e coordinate. Non basta più ridurre la sostenibilità a una semplice etichetta o a un ideale astratto: essa rappresenta oggi una necessità strutturale e trasversale, che chiama in causa modelli di produzione, stili di vita, politiche pubbliche e visioni culturali.
Fin dal Rapporto Brundtland del 1987 — che per primo ha definito lo sviluppo sostenibile come “quello sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri” — abbiamo compiuto passi avanti significativi: l’adozione dell’Agenda 2030, l’elaborazione di indicatori di benessere alternativi al PIL, l’emergere di nuovi movimenti giovanili e una crescente attenzione da parte di aziende e istituzioni. Tuttavia, questi progressi, pur importanti, non sono stati sufficienti. Le azioni rimangono troppo lente, frammentate e spesso prive della portata trasformativa necessaria per invertire le tendenze attuali.
In questo scenario, testi come quello in oggetto giocano un ruolo essenziale. Non solo contribuiscono a fare chiarezza su concetti spesso abusati o mal compresi, ma offrono anche una bussola critica per orientarci in un presente complesso. Attraverso un approccio transdisciplinare, il volume propone una riflessione articolata sulle molteplici dimensioni della sostenibilità, intrecciando l’analisi teorica con casi concreti, e valorizzando voci provenienti da esperienze e saperi diversi — non solo accademici, ma anche studenteschi. È proprio in questa pluralità di prospettive che risiede la forza del testo: nella capacità di stimolare letture nuove, di sollecitare domande e di indicare direzioni praticabili.
Più che un semplice manuale, questo lavoro è un invito all’azione e alla responsabilità, individuale e collettiva. Perché costruire un futuro sostenibile non è solo una sfida tecnica o politica, ma anche e soprattutto un percorso culturale che riguarda ciascuno di noi.
Per gentile concessione di casa editrice e autore, vi proponiamo la lettura di un estratto.
CAPITOLO 9 – GREEN-SHARING ECONOMY ED ECONOMIA CIRCOLARE
di Vanni Resta
9.1 INTRODUZIONE
In questo capitolo si affronta un esercizio non facile che presuppone un cambiamento di approccio: si vuole analizzare quali e quante siano le sfide imposte dal cambiamento climatico sul nostro sistema economico oltre che sul nostro stile di vita e contribuire a sviluppare una «nuova» sensibilità nei confronti del tema della sostenibilità ambientale. Per questo moti vo una parte del capitolo è dedicata alla necessità di riprogettazione dell’economia in un’ottica circolare considerando tutte le attività dall’approvvigionamento di materie prime, all’esecuzione dei processi produttivi, alla manutenzione degli stessi fino alla loro dismissione con il ritiro dei materiali e il loro riciclo/riutilizzo. In altri termini, riconsiderare il ciclo produttivo per capirne i costi, soprattutto ambientali, e i benefici valutando le opportunità tra mondo fisico, digitale e biologico che sono legati alla quarta rivoluzione industriale con il suo impatto sulle diverse industrie, sulle fonti di energia, soprattutto quelle rinnovabili, e sulla loro diffusione a livello globale. Il capitolo è strutturato in due macro-argomenti. Il primo affronta il tema della prosperità e della crescita economica valutando se sia possibile la prima senza la seconda o viceversa. Il secondo è dedicato al cambiamento necessario per attuare una reale transizione verde che passa necessariamente per una riprogettazione dell’econo a amia.
9.2 PROSPERARE E CRESCERE ECONOMICAMENTE, UNA DELICATA RELAZIONE
La prima cosa da fare per affrontare questo tema è cercare di dare una definizione «economico/ecologica» alla prosperità che non si basi sulla crescita illimitata dei consumi materiali. In altri termini, si vuole provare a considerare che si può avere prosperità quando le persone si realizzano con una maggior coesione sociale e minor impatto sull’ambiente. Ovvero, che si può vivere bene consumando di meno e usando meno cose. Infatti, oltre al «paradiso dei consumatori» ci sono visioni alternative su cosa sia la prosperità che derivano dalla psicologia, dalla sociologia e dalla storia economica. Ovviamente, le visioni differiscono ma hanno tutte qualcosa in comune: la prosperità ha una dimensione materiale prospettica che si basa sui fondamenti del vivere, perché non si può parlare di prosperità se non si hanno: cibo, acqua, vestiti, un tetto sulla testa; e ciò vale nel presente e anche nel futuro. Però è noto fin dai tempi dei pensatori dell’antica Grecia che l’uomo ha bisogno di più che della mera sussistenza. La prosperità ha delle dimensioni sociali e psicologiche dalle quali non ci si può sottrarre, ad esempio, avere un buon lavoro, essere rispettati dagli altri, far parte di una comunità ecc. Per converso, la povertà è una condizione in cui non solo non si dispone di mezzi di sostentamento ma si è esclusi dai modelli di vita «normali» e ci si sente ai margini della società. Da ciò deriva che la prosperità ha a che fare con la partecipazione alla società, e socialità significa anche prendersi cura degli altri e questo è un elemento della felicità. Dunque, felicità e prosperità sono, naturalmente, due condizioni diverse ma tra loro molto legate. Nella nostra società, il successo coincide con la ricchezza materiale. Il valore viene misurato sull’agiatezza e la prosperità è quantificata in termini di potere d’acquisto e, in definitiva, quanto abbiamo è più importante di ciò che siamo. Questa visione distorta implica che la metrica della nostra esistenza si riduce a un elenco di cose che usiamo (per poco tempo) prima di gettarle via. Al contrario per «vivere bene» è necessario investire a livello economico e sociale. La società consumistica ha trasformato la gratificazione effimera in un bene sociale.
La capacità di essere felici, si è osservato, può essere considerata come una buona approssimazione per definire la prosperità. Tuttavia, vi sono limiti costituiti da due fattori critici. Il primo è costituito dalla natura finita delle risorse ecologiche che rendono possibile la vita sulla terra, la capacità degli ecosistemi di rigenerarsi, la disponibilità di risorse, l’integrità di terra, aria e acqua. Il secondo fattore è la dimensione raggiunta dalla popolazione mondiale. Risorse e spazio ambientale si possono distribuire solo fino a un certo punto. Più è numerosa la popolazione e più ci si scontra con i limiti ecologici del pianeta. In definitiva, una prosperità giusta e duratura non può prescindere da questi vincoli ecologici, la prosperità dipende dai diritti di chi vive sul pianeta e dalla libertà delle generazioni future. In questo senso la prosperità ha una dimensione sia «intra» che «inter» generazionale.
Il paradosso della crescita
L’aumento della prosperità non sempre coincide con la crescita economica. Il paradosso che si propone può essere riassunto con questo quesito: è possibile avere prosperità senza crescita? Per trattare questo spinoso interrogativo è essenziale considerare dove si sta andando e quale direzione può avere il progresso tecnologico e sociale. Vi sono tre argomenti ognuno dei quali può rappresentare una difesa – almeno parziale – della crescita economica: la ricchezza materiale, anche se non coincide completamente con la prosperità, è una condizione necessaria per fare sentire realizzati gli individui; la crescita economica è correlata ad alcuni diritti che sono fondamentali per la prosperità (salute, istruzione ecc.); la tendenza alla crescita dei redditi contribuisce alla stabilità economica e sociale. Queste tre argomentazioni vanno analizzate con attenzione perché sono cruciali per il paradosso che è, tra l’altro, rafforzato dal fatto che la crescita continua non è sostenibile ecologicamente ma sembra essere necessaria per una prosperità nel tempo. Infatti, se è vero che alcuni diritti fondamentali, per esempio la salute e l’istruzione, dipendono dall’aumento del PIL sarebbe molto improbabile riuscire a essere felici senza crescita. Malgrado ciò, nessun elemento porta a escludere che economie più ricche possano prosperare senza crescita. Però, non basta la crescita da sola a garantire un aumento della prosperità. In definitiva: buoni servizi sanitari, buoni livelli di istruzione ed elevati livelli di benessere, possono essere raggiunti anche senza perseguire una crescita illimitata. In un sistema economico è importante che gli input di produzione (lavoro, capitale e risorse) siano utilizzati in modo efficiente. Il progresso tecnologico consente di produrre volumi maggiori a parità di input utilizzati. L’aumento della produzione fa ridurre i costi e ciò stimola la domanda (ciclo espansivo). Ma tale situazione comporta che nel tempo siano necessarie anche meno persone per produrre lo stesso volume di beni. Fino a quando l’economia cresce abbastanza in fretta da compensare gli aumenti di produttività del lavoro va tutto bene, ma se l’economia rallenta, per qualche motivo il miglioramento di produttività porta inevitabilmente alla disoccupazione e la riduzione dei posti di lavoro porta a una diminuzione della capacità di spesa e fiducia dei consumatori, ovvero, si innesca una spirale recessiva. Dal punto di vista dell’ambiente una condizione del genere risulta auspicabile perché minor consumo significa minori emissioni inquinanti (si veda quanto è successo durante il COVID), ma se i fatturati diminuiscono, i redditi crollano e gli investimenti vengono tagliati e la disoccupazione cresce ulteriormente. I costi sociali aumentano, si riduce il gettito fiscale e ciò porta inevitabilmente a tagli ai servizi pubblici diminuendo prosperità e felicità. In definitiva, le economie moderne sono votate alla crescita, se il sistema traballa si rischia il tracollo e, allora, la crescita potrebbe anche creare instabilità. Quindi, l’assunto da cui siamo partiti è smentito e, per ironia della sorte, possiamo affermare che la crescita è funzionale alla stabilità solo in un’economia che è basata sulla crescita! Per cui il vero paradosso è tra due seguenti tesi opposte: crescere non è sostenibile: il consumo delle risorse e l’aumento dei costi ambientali si aggiungono alle disparità di benessere sociale; decrescere non è sostenibile: la diminuzione della domanda comporta disoccupazione, minore competitività e recessione.
La nozione del disaccoppiamento
Al paradosso della insostenibilità della crescita/decrescita del paragrafo precedente si può rispondere ricorrendo al concetto di «disaccoppiamento» (decoupling) ovvero: metodi per produrre più efficienti; realizzare beni (e servizi) più sostenibili; ottenere più ricavi da minori cose; crescere in maniera sostenibile, verde, smart. Esistono, però, due tipi di disaccoppiamento: quello «relativo» e quello «assoluto». Il primo si verifica quando l’impatto sull’ambiente sale a un tasso meno sostenuto di quello dell’economia, mentre il secondo si ha quando la pressione sull’ambiente decresce all’aumentare delle attività economiche. Naturalmente, il decoupling assoluto è la condizione necessaria per sottrarsi al paradosso della crescita.
Decoupling relativo
In parole povere, disaccoppiamento relativo significa fare di più con meno, ovvero, fare le cose in modo più efficiente: più attività economiche con meno danni ambientali; più beni e servizi con meno emissioni. A livello microeconomico sembrerebbe una soluzione allettante al paradosso della crescita. Minor costo delle risorse a parità di output significa maggiore profitto, ma a livello macroeconomico il perseguire il profitto non basta per assicurare la diminuzione dell’intensità energetica. Dal 1980 al 2003 l’intensità energetica globale è diminuita del 25%. Negli ultimi cinquant’anni, i Paesi più ricchi hanno migliorato l’efficienza energetica e hanno, naturalmente, ridotto le emissioni. Però, nell’ultimo ventennio il calo nell’intensità del Carbonio è stato molto meno accentuato. Dal 2004 il declino è stato di appena 0,2% all’anno. Inoltre, il decoupling relativo è solo una faccia della medaglia perché misura solo l’utilizzo degli input. Perché il decoupling relativo offra una soluzione al paradosso della crescita è necessario che l’efficienza nell’uso degli input aumenti almeno quanto gli output e che continui a farlo fintanto che l’economia si espande.
Decoupling assoluto
Si è già osservato che il decoupling assoluto implica la diminuzione di emissioni anche se l’output aumenta. Però, i livelli di emissioni di CO2 nel mondo sono cresciuti drasticamente anche se contemporaneamente è migliorata l’intensità del carbonio, ma ciò è avvenuto perché è esplosa la produzione di output economico. Dal 1965 le emissioni di anidride carbonica sono più che triplicate e le emissioni in atmosfera di oggi sono superiori al 60% rispetto a quelle del 1960, ovvero l’anno di riferimento del Protocollo di Kyoto (COP3 e uno dei primi tentativi per contrastare il riscaldamento climatico). Per la verità, negli ultimi tempi si sta registrando un miglioramento. A partire dalla crisi finanziaria del 2008 la crescita delle emissioni di CO2 è rallentata in modo netto a causa sia della caduta della crescita dell’economia ma anche di intensità di carbonio dei prodotti almeno nei Paesi più ricchi. In un’economia globale e interconnessa l’affermazione precedente potrebbe, tuttavia, contenere un errore. Infatti, la produzione di molti beni non avviene più dove questi sono consumati. Dunque, l’energia che serve per lo stile di vita nei Paesi ricchi non è registrata nei loro bilanci energetici. Malgrado questo errore, adesso vi sono sistemi di misura più sofisticati non basati sulla territorialità ma sull’«impronta carbonica» delle emissioni riconducibili al consumo di beni e servizi prodotti altrove.
Ambiente e salute
Quando parliamo del rapporto tra ambiente e salute parliamo di prevenzione primaria, l’ambiente può essere fonte di effetti negativi o positivi sulla salute. Basti pensare agli effetti patologici dovuti all’esposizione a sostanze chimiche, a radiazioni e a determinati agenti biologici, o al contrario come vivere in un ecosistema sano porti un guadagno in termini di salute (Buettner, 2012). Nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, attraverso i 17 obiettivi, sono evidenziati i legami tra sviluppo, economia, ambiente, salute e benessere. Il concetto di ambiente ha subito uno sviluppo epistemologico fino ad avere un significato che tocca diversi ambiti; oggi, infatti, intendiamo non solo l’ambiente fisico, ma anche quello psicologico e sociale che comprende, inoltre, stili di vita e condizioni sociali ed economiche. Tanto che ormai nelle politiche su ambiente e salute si considerano come determinanti di salute anche l’equità, l’inclusione sociale, l’eguaglianza di genere, la possibilità di accesso alle risorse naturali, a un ecosistema sano e alla biodiversità. Partendo dalla Carta Europea su Ambiente e Salute del 1989, nel corso degli anni sono stati prodotti studi e documenti internazionali dove non solo veniva illustrata la complessità della problematica, ma, di volta in volta, venivano indicate soluzioni e azioni necessarie per attuare un cambiamento rispetto alla situazione rilevata. Tra i documenti internazionali più importanti degli ultimi anni indichiamo la Dichiarazione della VI Conferenza Interministeriale su Ambiente e Salute di Ostrava. All’insegna di «Una salute migliore, un ambiente migliore e scelte sostenibili» la Carta si prefigge “di diminuire il carico di malattia causato da fattori ambientali, per le generazioni presenti e future […] per raggiungere gli obiettivi di salute e il benessere dell‘Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite». Partendo dal dato che i fattori ambientali evitabili ed eliminabili sono la causa di 1,4 milioni di morti l’anno, si propongono una serie di principi da seguire e azioni da intraprendere. Gli ambiti che necessitano un’attenzione maggiore sono quelli che riguardano i cambiamenti climatici, i rifiuti, i siti contaminati, le aree urbane, la qualità dell’aria e degli ambienti indoor, le acque potabili e la contaminazione chimica. La scienza e le evidenze scientifiche ispirano le soluzioni, in quanto le decisioni e le relative azioni da mettere in atto devono partire proprio da una solida base scientifica, per questo viene costantemente sottolineata l’importanza dello sviluppo di metodologie e modalità efficaci per raccogliere e analizzare le evidenze su salute e ambiente, tenendo in considerazione il principio di precauzione. In Italia, la ricaduta del lavoro fatto a livello nazionale e internazionale la troviamo nel Piano nazionale della prevenzione 2020-2025 in cui «Ambiente, clima e salute» è uno dei macro-obiettivi. Qui vediamo sintetizzati tutti gli sviluppi in questo ambito e viene riconosciuta la validità dell’approccio One Health come chiave di cura in una visione olistica. Di seguito riportiamo la definizione dell’Istituto Superiore di Sanità: «Si basa sul riconoscimento che la salute umana, la salute animale e la salute degli ecosistemi sono strettamente interconnesse e interdipendenti».
Autori dei testi presenti nel volume:
Alfredo Alietti è Professore Associato di Sociologia Urbana presso Università di Ferrara.
Maura Benegiamo è ricercatrice presso il Dipartimento di scienze politiche dell’Università di Pisa. Eugenia Blasetti è assegnista di ricerca in Sociologia Generale presso l’Università degli Studi di Parma. Gianfranco Bologna, naturalista e ambientalista, è Presidente Onorario della Comunità Scientifica del WWF Italia, Full member del Club of Rome, Segretario generale della Fondazione Aurelio Peccei e membro della Consulta dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS).
Davide Brocchi è sociologo e lavora come ricercatore indipendente a Colonia (Germania).
Roberto Buizza è Professore Ordinario di Fisica presso la Scuola Universitaria Superiore Sant’Anna di Pisa.
Francesca Colella è Professoressa Associata di Sociologia generale presso l’Università degli studi dell’Aquila.
Fabio Corbisiero è Professore di Sociologia dell’ Ambiente e del Territorio presso l’Università degli studi di Napoli Federico II.
Piero Dominici è Professore Associato di Sociologia dei processi culturali all’Università di Perugia.
Laura Falci è assegnista di ricerca in Sociologia generale, Università degli Studi dell’A- quila.
Giovanna Gianturco è Professoressa Ordinaria di Sociologia presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale alla Sapienza Università di Roma.
Enrico Giovannini è docente dell’Università di Roma «Tor Vergata e direttore scientifico dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile.
Massimo Iannetta è Dirigente di Ricerca ENEA, Responsabile della Divisione Sistemi Agroalimentari Sostenibili del Dipartimento Sostenibilità, Circolarità e Adattamento al Cambiamento Climatico dei Sistemi Produttivi e Territoriali.
Emanuele Leonardi è Professore Associato presso il Dipartimento di Sociologia e Diritto dell’Economia dell’Università di Bologna.
Ivan Manzo è componente della redazione di ASviS.
Ilaria Marotta è ricercatrice di Sociologia dell’ Ambiente e del territorio presso l’Università degli studi di Napoli Federico II.
Alessandro Monchietto è dottorando in Pedagogia speciale presso l’Università di Torino.
Rossella Muroni, sociologa, è presidente dell’associazione Nuove Ri-Generazioni.
Dario Padovan è Professore Associato di Sociologia presso l’Università di Torino.
Ombretta Presenti è ricercatrice presso ENEA Dipartimento Sostenibilità, Circolarità e Adattamento al Cambiamento Climatico dei Sistemi Produttivi e Territoriali, Sezione Supporto Tecnico Strategico.
Vanni Resta è Ambasciatore del Patto europeo per il Clima e Professore a Contratto presso la Sapienza Università di Roma e presso l’Università Telematica Internazionale UNI- NETTUNO.
Alessandra Sannella è Professoressa Associata di Sociologia presso l’Università di Cassino.
Alice Sodi è fondatrice e vicepresidente di Neuropeculiar APS – Movimento per la Biodiversità Neurologica