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Sulità | Nino De Vita
Mesogea, 2017

Nota di Gianluca D’Andrea

Continuano i racconti in versi nel dialetto personalissimo e assoluto di Cutusìu. Nino De Vita sembra proseguire per accumulo di esperienze trasfigurate nel ricordo e, proprio attraverso la trasformazione, ne ri-delinea i connotati, riuscendo a vivificare epicamente un mondo apparentemente estinto, sublimando le ombre e svelando, sotto la loro apparenza, una realtà arcaica ma ancora produttiva, quasi archetipo di un’umanità assoluta.

Certo, la Sicilia di De Vita, circoscritta al territorio d’origine, nonostante le vibrazioni suscitate dalle vicende dei personaggi raccontati, si basa su una fissità etica che rischia l’immobilismo, ma la fa sua forza risiede in un “classicismo” super partes che non abbisogna di altri giudizi se non quello della testimonianza.

Questo classicismo etico riflette non tanto l’ostinazione di parlare della “propria provincia”, ma l’umiltà di limitarsi a raccogliere quello che l’alterità rende disponibile – d’altronde, come diceva Balzac: “beato chi ha una provincia da raccontare”.

Si tratta, allora, di aderire a un humus produttivo, con tutte le incongruenze o gli estremi di violenza e rassegnazione leggibili, ad esempio, nel bellissimo racconto in versi A sciarra (Il litigio), in cui una semplice vicenda familiare contiene nei rapidi giri dei versi, nelle inarcature così frequenti e dirette, nei termini quasi basilari – da sottolineare la presenza di parole alterate con effetto straniante, dai diminutivi “Uzzu”, “niputeddu”, “tanticchia” fino all’accrescitivo “tintuna” – un universo umano fatto di gelosie, ripicche, vendette tremende (è un uomo a raccontare in prima persona la vendetta truce del genero che, per non aver ricevuto la terra in eredità, non solo non fa conoscere ai nonni il nipote dopo la nascita, ma, come se non bastasse, li sbeffeggia, facendo percepire la presenza del bambino portandolo via prima che loro riescano a vederlo). Un panorama umano sfaccettato ma accomunato nella lotta per la sopravvivenza, come nell’episodio del benzinaio che assume un vecchio di novant’anni, il quale vorrebbe arrotondare l’esigua pensione, pagandolo con una “anticchia ri bbenzina” per il nipote, lamentandosi anche della cattiva efficienza dell’uomo.

Dicevo di una vivificazione epica del mondo attraverso il racconto e di una tracciabilità “teatrale” delle vicende (a tal proposito cfr. L’idioma universale – A ccanciu ri Maria) che attraversa tutta l’opera di De Vita, e che è riscontrabile anche in Sulità. Resta da verificare se in quest’ultimo lavoro la stessa “teatralità” sia ancora in funzione di testimonianza (attraverso il teatro della vita si giunge al reale?) oppure se questa costante “rappresentativa” si stia trasformando in qualcos’altro.

Una differenza avvertibile rispetto alle operazioni precedenti riguarda un approfondimento lirico dell’esperienza, quasi un ri-posizionamento dell’io che scrive nella sua specificità di percettore del reale, per cui l’infingimento epico sembrerebbe lasciare spazio a un contatto più intimo (anche se il nascondimento identitario persiste, infatti la percezione avviene quasi sempre per interposta persona, quasi l’autore non riuscisse pienamente ad abbandonare la posizione centralizzata di narratore onnisciente):

‘A LUNA RI TUBBIA

«Jivi ri notti, aeri, nne salini
ra Nfersa pi taliari
‘a luna rintra ê vaschi;
soccu cummina ‘a luna
nnall’acqua fatta, ‘a luna
chi s’ammustra, spicchìa
ncapu ra quagghiatoria.

‘A luna stava dda, ferma, tunnuta,
mmiancuta.
Si spustava
cu mmi anno passaituri
runn’è chi caminavu.

M’addinucchiai, ‘a tuccai
pi gghiocu, ggiustuggiustu
c’un gghìritu e, rrumputa,
si misi a trimuliari.

A talialla arristai,
panzina a quannu ‘un si
quitau.
Annunca m’arrassai.

Cc’era pi nno Stagnuni
comu un’arriccialata
ri l’aria, agghica ri
nno celu, ri nne terri,
‘un si capisci, ri
nno mari, ‘u ciatu cci hai
ri ncapu.

Nna ‘nn’atra vasca ‘a luna
stava nno ‘n piricinu,
nnall’acqua sicca, avusu
pusata ncapu ‘i scagghi
ru sali…
‘A taliavu nno celu
e ‘a taliavu nnall’acqua.
Chidda che stava ‘n celu
cci avia una nivuledda
cchiù ncostu, chiara.
‘A luna.
ch’era nnall’acqua ‘un ci
l’avia.

P’i passaitura jivi,
firriannu, e nno ncruciari
ri vaschi ‘a luna cchiù
vicinu, cchiù luntanu
r inni mia si facia.

Stesi, assittatu, stancu,
nno mmuru ra sintina,
runni cc’èsti ‘u mulinu.

Pi ncapu all’acqua, siddu
taliavu, ‘a luna si
spustava».


LA LUNA DI TOBIA. «Sono andato di notte, ieri, alle saline / di Infersa a guardare / la luna nelle vasche; / quello che fa la luna / sull’acqua matura, la luna / che si mostra, riluce / nella bonaccia. // La luna stava lì, ferma, tonda, / bianca. / Si postava / assieme a me lungo il muricciolo / dov’è che camminavo. // Mi abbassai, la toccai / per giuoco, appena / con un dito e, frantumata, / si mise a tremolare. // A guardarla rimasi, / fino a quando non si / compose. / Allora mi allontanai. // C’era nello Stagnone / come un respiro / dell’aria, arriva dal / cielo, dalla terra, / non si capisce, dal / mare, il fiato ce l’hai / addosso. // In un’altra vasca la luna / stava in un angolo, / nell’acqua scarsa, come / posata sui cristalli / di sale… / La guardavo nel cielo / e la guardavo nell’acqua. / Quella che stava in cielo / aveva una nuvoletta / vicina, bianca. / La luna / che era nell’acqua non / l’aveva. // Lungo i muriccioli andai, / girando, e nei crocicchi / delle vasche, più lontana / da me si faceva. // Stetti, seduto, stanco, / sul muro della vasca servitrice, / dove c’è il mulino. // Sull’acqua, se / guardavo, la luna si / spostava».

Forse più che una vera e propria differenza, la volontà sottintesa all’operazione risiede in un’assenza ben più profonda di qualsiasi nostalgia cantabile: l’abilità affabulatoria del “narratore” simula l’aspirazione a un contatto più vicino e concreto. Anche per questo le personae di Sulità (solitudine, appunto) sembrano, molto più che in A ccanciu ri Maria, ad esempio, figure, cioè, seguendo l’etimologia di “persona”, maschere che inscenano la distanza del “grande puparo” che in sostanza l’autore rischia di diventare.

In pratica, dopo aver concluso (con ogni probabilità) il ciclo dei “racconti in versi”, nell’opera di De Vita s’intravede un’incrinatura, una mancanza (sintomatica in tal senso la composizione A scala, in cui l’assenza di una gamba è il segnale di un vuoto ben più profondo e che riguarda l’identità, e infatti il testo si chiude con il riconoscimento, dai toni kafkiani, di quel vuoto sostitutivo della presenza: “cc’era ddà / nna nicchia, ncapu ‘u ntònacu, / signatu: / «Artu ri Pinu Ciulla», in italiano: “c’era lì / nel loculo, sull’intonaco, / raschaito: / «Arto di Pino Ciulla»). Mancanza che è anche prospettiva distorta; la crepatura crea quel disagio per cui le cose non rispondono più alla loro funzione, come in Oronzo: “ ‘Un cc’era ossu chi facissi ‘i cosi / chi nn’all’òmini fannu / l’ossa” (“Non c’era osso che facesse le cose / che negli uomini fanno / le ossa”). La presenza del negativo, però, nella forma dell’inconoscibile e del vuoto, apre un nuovo spazio, funge da cerniera tra una fine e qualcosa di nascente.

In un’intervista del 2011 (dal titolo Dov’è successo? e pubblicata in rete nel 2014 per la rivista di critica filosofica Kainós, www.kainos-portale.com, e poi in cartaceo per conto di Kainós Edizioni, Tricase, LE, 2014) Jean-Luc Nancy, parlando del rapporto tra archivio e deposito (e abbiamo notato quanto importante sia in De Vita il compito testimoniante della memoria), si esprime in questi termini: “non tanto il non-conosciuto, dunque, quanto l’inconoscibile. Ma non l’inconoscibile come oggetto di un sapere superiore che ci sfugge […]. L’inconoscibile come ciò che non rientra in alcun tipo di conoscenza. Ciò che precede e oltrepassa la conoscenza – e che è «nascita» tout court: nascita di un «autore» (J. L. Nancy, Dov’è successo?, cit., p. 13); seguendo questa visuale, allora, possiamo provare a concludere la riflessione su Sulità, considerando la nuova nascita cui l’autore sembra attendere e che sembra disilludere il già avvenuto, l’assodato: “«To’ matri ‘unn’è to’ matri. / È ‘nn’àvutra» (‘I matri, “«Tua madre non è tua madre. / È un’altra»”), ma quale madre e quale nascita? Qualche indizio – mai una risposta definitiva – emerge alla fine del libro, nell’ultima sezione, Chiacchiaratini cioè Dialoghi, nella potenzialità aperta dal confronto, contraria alla solitudine del “puparo” immerso nei suoi volumi sapienziali, in quei libri che “stannu suli, comu chiddi / chi sunnu dispizziati, l’angariati, / stritti nne ligna, muti: / l’ùmidu ‘i puntiddia, / nne vasciura scurusi, allippatizzi / ri muffa” (“stanno soli, come quelli / che sono maltrattati, che vivono un sopruso, / ristretti nei ripiani, muti: / l’umido li macchia, / nei posti bassi, oscuri, sporchi / di muffa (I libbra, sezione a sé stante posta prima di Chiacchiaratini, la parte dialogante appunto), e che preannuncia una fuoriuscita che solo l’altro relazionale può donare, quasi un monito per non ricadere nella Sulità:

«Ma siddu ‘un si accarpatu,
l’organìsimu è sanu,
cca chi cci veni a ffari,
picchì ‘un t’i stai â to’ casa.
Ri taliari, t’u ggiuru, ‘un cc’esti nenti.
Sustanzi ‘un cci ni su’.
È peggiu r’un desertu».

 

«Ma se non sei ammalato, / il corpo ti funziona, / qui che ci vieni a fare, / perché non te ne stai a casa. / Qui da guardare, te lo giuro, non c’è niente. / Nessuna cosa accade. / È peggio di un deserto».


Nino De Vita è nato a Marsala, dove vive, nel 1950. È autore di Fosse Chiti (Milano 1984), Cutusìu (Mesogea 2001), Cùntura (Mesogea 2003) e di diverse plaquettes e raccolte di versi pubblicate in edizioni a tiratura limitata. Riconosciuto, non solo in Italia, come una delle voci poetiche più interessanti e rigorose della letteratura dialettale contemporanea, gli sono stati attribuiti numerosi premi, tra cui, nel 1996, il Premio Alberto Moravia; il Premio Mondello 2003 con Cutusìu e, con Cùntura, il Premio Napoli 2004.

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