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Scuole di scrittura creativa. Utilità, organizzazione e qualità. Il talento si insegna?
Ne parliamo con Gilda Policastro

crediti immagine: Dino Ignani

Gilda Policastro è scrittrice e critica letteraria. Ha collaborato con riviste, quotidiani e siti letterari tra cui «Allegoria», «il manifesto», «Alfabeta2», «la Lettura», «Pagina99», «Doppiozero», «Le parole e le cose», «Il Dubbio». Dal 2016 insegna Poesia presso la Scuola di scrittura Molly Bloom” (con sedi a Roma e Milano). Tra le sue pubblicazioni: i romanzi Il farmaco (Fandango 2010), Sotto (Fandango 2013) e Cella (Marsilio 2015), libri di poesia tra cui Non come vita (Aragno 2013), Inattuali (Transeuropa 2016), Esercizi di vita pratica (Prufrock spa 2017) e vari saggi, tra cui Polemiche letterarie dai Novissimi ai lit-blog (Carocci, 2012).


intervista a cura di Antonia Santopietro

Gilda, intanto grazie per aver accolto l’invito: le scuole di scrittura creativa – un modello a cui lavorano da decenni in America e in Inghilterra – hanno avuto il forse discutibile merito di far nascere molti scrittori seriali e diverse eccellenze: secondo te il talento letterario si può insegnare e prima ancora definire?

Io diffido sempre delle definizioni: sono essenzialiste e infeconde. La poesia è… o la poesia deve…sono petizioni di principio assolute che mi sforzo di evitare nelle mie lezioni. Comincio sempre i miei corsi informando gli allievi che una definizione di poesia, o meglio un’idea della poesia in ispecie di quella contemporanea, sarà se mai deducibile dagli incontri con i singoli poeti e dalle loro rispettive idee e letture. Il testo, questa poesia, è al centro dei miei discorsi: si può insegnare a dare un contenuto a quella prima impressione di poetico o di impoetico che un testo scritto ci restituisce, a riconoscere il valore attraverso una serie di strumenti analitici e critici, questo sì. Rendere meno impressionistico, appunto, e anche, volendo, meno velleitario, il lavoro della scrittura. Il problema è che la disposizione di un allievo di una scuola di scrittura, a differenza di uno studente vero e proprio, è piuttosto ambivalente, se non ambigua: da un lato cerca un maestro a cui affidarsi, soprattutto in una prima fase, di conoscenza e di consapevolezza dei propri limiti teorici, in una seconda, quella in cui dovrebbe “emergere” un qualche “talento”, per l’appunto, cerca invece piuttosto l’approvazione, il riconoscimento, se non un sostegno per emergere, ovverosia pubblicare. Non ci nascondiamo che la principale attrattiva delle scuole non è tanto quella di farsi spiegare come funziona la letteratura, ma di incontrare gli scrittori in carne e ossa, e questo non è necessariamente un male. Il limite della scuola di scrittura è proprio quello di non avere, in partenza, l’obiettivo di “patentare” lo scrittore esordiente: quasi nessuna scuola promette una pubblicazione di qualche tipo, ad esempio, anche se, come dicevi, molti scrittori delle ultime generazioni sono emersi da contesti del genere o vi hanno avuto a che fare. Ci si va per capire, come disse una mia acuta allieva qualche anno fa, come usare le parole, anche solo per raccontare in modo più appassionante un episodio di vita vissuta a un’amica. In realtà non è sempre vero che ci si vada per questo, ma già raggiungere questo obiettivo darebbe un senso al lavoro che si fa insieme in una scuola, docenti e allievi.

Il critico e saggista americano Luois Menand nel 2009 scriveva: “creative-writing programs are designed on the theory that students who have never published a poem can teach other students who have never published a poem how to write a publishable poem” (The New Yorker) si trattava di una provocazione, ma prendo spunto per chiedere un tuo commento.

La provocazione si dà perché a differenza delle scienze dure la letteratura non ha delle possibilità di essere messa in valore in contesti indiscutibili: non lo sono la stampa, i media, i social, e non lo sono nemmeno i premi, che tendono a comportarsi in modo prevedibile e a obbedire a mere regole di mercato o in modo capriccioso come il Nobel, che fa più discutere per le esclusioni che per il vincitore, di volta in volta. Il prezzo è il pregio, nella società del capitalismo avanzato, quindi è impensabile che ci si iscriva a una scuola senza che i suoi docenti siano scrittori “noti”. Il limite, ancora una volta, è che questa conoscenza spesso è molto superficiale, l’allievo è prigioniero di una sorta di equivoco per cui solo chi ha venduto un certo numero di copie, o ha molti follower nei social, sia meritevole di ascolto. Questo aspetto è un po’ fanatico e mi piace invece constatare nei miei corsi che scrittori non mainstream (e mai stati da Fazio) come Milo De Angelis o Antonella Anedda, abbiano letteralmente il potere di “incantare”, di creare un’occasione di incontro intenso e “resistente”, in cui le parole adoperate si incidono davvero nella memoria di chi le ha ascoltate, e la forza e la profondità della poesia può emergere senza mistificazioni e sovrastrutture, nella sua nuda enigmaticità, come direbbe lo stesso De Angelis.

Allo stesso tempo il poeta Allen Tate si lamentava del modello che si ripete, forse non sempre virtuoso: “the academically certified Creative Writer goes out to teach Creative Writing, and produces other Creative Writers who are not writers, but who produce still other Creative Writers who are not writers.” anche qui, direi, una provocazione…

Sì, vale anche in questo caso il discorso di prima: non si danno patenti e non ci sono pagelle. Poi che l’allievo diventi docente, a un certo punto del suo percorso, se ne ha le qualità e i meriti, avviene in tutti gli ambiti. Qualità e meriti, però, non velleità. Chi lo certifica? Non lui da solo, certamente. Per fortuna anche se non c’è l’Anvur a occuparsi delle scuole creative, un qualche sistema di valutazione s’impone nei fatti: nessuno vuole andare a perdere due ore della sua vita ogni settimana senza imparare nulla, quindi la selezione avviene di fatto, a un certo punto, e il merito (almeno così mi piace pensare) trionfa (rido).

Spesso parlando di questo argomento, emergono affermazioni come “basta aver studiato all’Università”, “bisogna leggere tanto e conoscere i grandi della letteratura”, qual è la formula, se non giusta, auspicabile?

L’ha trovata Valerio Magrelli: come ai piloti di volo è necessario un certo numero di ore per dirsi tali, così per poter parlare di libri bisognerebbe averne letti almeno 8 mila. Tra saggi, narrativa e poesia, classici e contemporanei, italiani e stranieri. Una cifra nemmeno tanto iperbolica, se pensiamo a quelli che abbiamo nelle nostre librerie o che in un anno se ne stampano almeno 60 mila. Non tutti meritevoli, certo, ma è un’altra annosa questione…

Calvino disse “Lavorando in una casa editrice, ho dedicato più tempo ai libri degli altri che ai miei. Non lo rimpiango: tutto ciò che serve all’insieme di una convivenza civile è energia ben spesa” qui la prospettiva è quella dell’editor ma resta la domanda, quando ci si occupa della “creatività altrui” in che modo ci si assicura di non varcare il limite del personalissimo “credo” letterario, di essere mentore e facilitatore di un processo non egotistico?

Questa è la sfida. Chi insegna in una scuola di scrittura è, di solito, uno scrittore, con una propria visione del mondo e della letteratura. La tabe egotica si supera col collettivo, con l’idea di un lavoro non singolo, ma di squadra: io stessa, che ho avuto da Leonardo Colombati, ormai quasi tre anni fa, la grande occasione di inventare dal niente il corso di poesia per Molly Bloom, l’ho pensato subito come un’opportunità per me e per gli allievi di incontrare o approfondire la conoscenza dei più importanti poeti italiani viventi. Non è banale l’esperienza di ascolto dalla viva voce del poeta dei suoi testi, anche se esistono Youtube e i social: la risonanza interna di una lettura, la profondità di un’idea che a volte nasce proprio dalla conversazione con me o con gli allievi (ricordo Valerio Magrelli che durante la lezione a Molly Bloom si appuntava sue stesse idee, emerse in quel preciso momento), da una domanda estemporanea che ovviamente non puoi prevedere. La didattica è sempre un circolo, come insegna la tradizione ermeneutica: non un travaso, ma uno scambio. Ed è tanto più vero in un contesto di adulti, qual è di solito la scuola di scrittura, disomogenea per anagrafe, oltre che per formazione e provenienza degli allievi. Io ho avvocati, informatici, fisici, studenti di lettere, attori, filosofi, da cui ho a mia volta molto da imparare, e non è retorica: la poesia con gli occhi di chi non l’ha studiata da adulto, ma ne ha un ricordo di scuola e, soprattutto, ne legge per passione, in modo non sistematico e perciò anche più vario e libero, talvolta.

Nell’insegnamento ricorrono competenze specifiche e abilità relazionali, se uno scrittore può possedere competenze in ambito letterario e abilità nel metterle a frutto, come ci si può assicurare che conosca le metodologie didattiche, che gestisca una comunicazione efficace? Come può insegnare senza avere la “patente”? Insomma chi forma il formatore?

Nel mio caso il problema non si pone, perché vengo dall’accademia e non me ne sono mai andata, nel senso che il mio percorso, pur nei limiti delle condizioni attuali, prosegue sulla via dello studio e della ricerca universitaria. Ho una formazione specifica nel campo letterario e non lo dico per esibire il curriculum, ma per rivendicare una professionalità, che credo faccia la differenza rispetto a lezioni più estemporanee o improvvisate. Se questo vale anche per altri, sia a Molly Bloom che altrove, devo dirti con altrettanta sincerità che mi sono sorpresa della qualità didattica di alcuni docenti non titolati, o non specificamente in campo letterario: probabilmente sono come quei lettori-piloti di Magrelli, che anche senza i “tituli” canonici hanno le ore di volo necessarie.

Una debolezza al sistema che intravedo è la certificazione delle scuole e della loro offerta formativa, in riferimento a un sistema normativo comune, atto a garantirne la qualità (come avviene in altri settori), Considerando che i corsi sono a pagamento, in che modo si rassicura l’utenza rispetto agli standard di qualità (ad esempio il modello didattico, i programmi, la misurazione de risultati)?  Non è metrica applicabile alla creatività ma l’aspirazione a una idea di organizzativa che possa consentire ad esempio di non illudere, di non alimentare speranze, di definire con chiarezza gli obiettivi dei corsi… cosa ne pensi?

A parte che tutte le Università italiane prevedono delle tasse di iscrizione e le Università considerate di eccellenza le prevedono molto alte, il problema è sempre quello di qualificare e riconoscere la competenza in ambito intellettuale. Che non è solo riproporre la disputa scienziato vs letterato (cioè un sapere ritenuto a torto o a ragione più verificabile e un altro più aleatorio), ma anche, per dire, letterato vs idraulico. Nessuno si sognerebbe mai di non pagare l’intervento di sostituzione di una valvola o di un tubo, mentre è prassi comune invitare uno scrittore a tenere una lezione gratis, magari col rimborso spese se deve spostarsi. Ecco, le scuole di scrittura osservano questa misura deontologica per cui l’investimento di tempo e di energie nella preparazione di un intervento culturale debba essere remunerato. E questo è un primo punto fondamentale. La questione che poni nella seconda parte della domanda è evidentemente molto presente ai docenti di un corso di scrittura: io stessa me la sono posta, ancor prima di accettare l’incarico. Come potrò, in assenza di un’inclinazione o di un’attitudine specifica, illudere qualcuno di saper scrivere? Ho capito subito che non è quello che mi viene chiesto, e neanche quello che gli allievi, almeno quelli più intelligenti, si aspettano: l’obiettivo dei nostri corsi è quello di dare valore alla parola, alla scrittura, e di spiegare come funziona un testo, a cosa dar risalto e, soprattutto, cosa evitare: i sintagmi obbligati, le frasi consunte, le situazioni narrativamente o poeticamente desuete. Non si conversa più nei salotti con abiti lunghi e sontuosi come in Middlemarch, e non si scrivono poesie guardando il cielo (semmai lo smartphone). Questa immersione nel presente è per alcuni molto salutare: scoprire che la scrittura non è un bamboleggiamento ma un’intelligenza, come scisse (non senza ironia) Christophe Tarkos. Poeta che i più scoprono al mio corso: servisse anche solo ad arrivare dove non arrivano la formazione canonica o la produzione editoriale di massa, ne varrebbe la pena, no?


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